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IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA NELLA REGOLAMENTAZIONE DELLA CAMPAIGN

3. Buckley v Valeo

Nel 1974, il Congresso approva una serie emendamenti relativi al Federal

Election Campaign Act, che introducono numerosi limiti ai contributi e alle

spese effettuabili in campagna elettorale. In risposta alle nuove limitazioni un gruppo di soggetti, guidati dal Senatore James L. Buckley di New York,9 decide di contestarne la legittimità costituzionale, intentando una causa nei confronti della Federal Election Commission, rappresentata dal Segretario del Senato, Francis R. Valeo.

In seguito alla decisione della Corte d’Appello, che confermato la legittimità delle disposizioni, il caso giunge alla Corte Suprema federale; gli appellanti sostengono che la Corte d’Appello non abbia sottoposto la normativa ad un adeguato livello di scrutiny, dichiarando legittime delle limitazioni che invece restringerebbero indebitamente le libertà tutelate dal Primo Emendamento:

…gli appellanti affermano che la Corte d’Appello non abbia applicato a questa legge i rigorosi parametri di valutazione richiesti dai principi del Primo Emendamento e dell’equa

9 Oltre a Buckley, facevano parte della coalizione l’ex senatore (e candidato alle

presidenziali del 1968) Eugene McCarthy del Minnesota, la New York Civil Liberties

Union, il Conservative Party of the State of New York, il Libertarian Party ed altre

protezione. Nell’ottica degli appellanti, limitare l’utilizzo di denaro a scopo politico costituisce una restrizione delle capacità comunicative lesiva del Primo Emendamento, dal momento che, virtualmente, nel contesto moderno ogni comunicazione politica significativa richiede la spendita di denaro.10

Dalla presa di posizione degli appellanti emerge immediatamente uno dei punti centrali e più controversi dell’intera disciplina della campaign finance, consistente nello stretto rapporto tra espressione e denaro, money e speech. Come si vedrà, l’orientamento della Corte sull’argomento risulterà fondamentale ai fini delle decisioni sulle questioni ideologicamente più discusse.

Buckley costituisce il minimo comune denominatore a cui tutte le decisioni

successive faranno riferimento per basare le proprie scelte; l’assetto delineato con la decisione per curiam,11 che ha cercato di risolvere le tensioni tra interessi contrapposti, si è cristallizzato nel corso degli anni, rafforzato dal principio dello stare decisis. La sentenza ha tuttavia lasciato insoddisfatti entrambi gli schieramenti, dei riformisti e dei difensori del Primo Emendamento, che da tempo sostengono la necessità di rivedere e modificare l’orientamento della Corte. La forte indecisione mostrata dai giudici nel decidere il caso si ripercuote inevitabilmente sulla sua applicazione ai casi futuri: sebbene appaia ogni volta probabile un suo superamento, Buckley sopravvive proprio a causa della mancanza di unità di vedute all’interno delle Corti. Una simile decisione sembra alquanto inadatta a fungere da fondamento per una storia giurisprudenziale lunga quasi quaranta anni; tuttavia ancora oggi vi si fa riferimento nel decidere i casi più discussi, alimentando la produzione alluvionale di sentenze e riforme che non fanno che complicare il quadro della regolamentazione della campaign finance.12

10 Buckley, 424 U.S. 1, 11 (1976).

11 Si ha una decisione per curiam in quei rari casi in cui l’opinion della Corte non sia

redatta da un giudice identificato, risultando emessa dal collegio nel suo complesso.

12 Cfr. R. L. Hasen, “The Nine Lives of Buckley v. Valeo”, in FIRST AMENDMENT STORIES, Richard W. Garnett, Andrew Koppelman, eds., Foundation Press, 2010.

Per quanto concerne i contenuti di Buckley, le norme sottoposte al giudizio di legittimità possono essere ricondotte a quattro nuclei tematici: 1) limitazione di contribuzioni e spese elettorali; 2) obblighi e procedure relativi alla trasparenza; 3) spese indipendenti ed advertisement; 4) finanziamento pubblico delle campagne presidenziali.

3.1. Limiti alle contribuzioni e alle spese

La prima tematica affrontata dalla Corte è forse quella che ha segnato maggiormente la storia della campaign finance, indirizzandone gli sviluppi futuri; la normativa varata dal Congresso prevedeva infatti uno schema di limitazioni alla possibilità di contribuire alla campagna del candidato e alla capacità di spendere denaro da parte di quest’ultima. Stabilito che la regolamentazione della materia elettorale rientrasse pienamente tra i poteri del legislatore, occorre verificare che le norme in questione non costituiscano un’illegittima restrizione delle libertà dei cittadini e dei candidati.

Riprendendo il punto di vista proposto dagli appellanti, la Corte conferma la stretta relazione esistente tra denaro e espressione:

Una restrizione della somma che una persona o un gruppo possono spendere in comunicazioni politiche durante una campagna elettorale restringe inevitabilmente anche la quantità di espressione possibile, comprimendo il numero delle tematiche affrontate, la profondità con cui vengono trattate ed il numero dei destinatari del messaggio. Ciò accade poiché tutti i moderni mezzi di comunicazione richiedono la spesa di somme di denaro.13

La conclusione che viene tratta da questa affermazione è riassunta in una espressione che diventerà un dogma delle future discussioni in materia: “money is speech”, il denaro è espressione. Si tratta di un assunto di importanza cruciale, fortemente discusso da studiosi e comuni cittadini; i

difensori di Buckley ritengono che sia un’equazione pressochè scontata. Pubblicare le proprie idee sui giornali, stampare e distribuire volantini, partecipare a dibattiti: il denaro si rende indispensabile per esprimere liberamente le proprie idee, e pensarla diversamente è un forte sintomo di ingenuità e distaccamento dalla realtà dei fatti.

Non tutti però la vedono in questo modo: un nutrito gruppo di accademici ritiene al contrario che l’equiparazione tra denaro ed espressione, oltre a non corrispondere alla realtà, comporti forti rischi per l’integrità democratica. Anche se è innegabile che il denaro faciliti ed incentivi la capacità comunicativa dei soggetti, dovrebbe comunque effettuarsi una scissione tra la protezione riservata all’espressione vera e propria e quella conferita alla spendita di denaro: in fin dei conti, si afferma, il Primo Emendamento tutela la libertà di espressione, e solo indirettamente gli strumenti con cui questa è raggiunta.14

Sulla base dell’equazione money is speech, la Corte procede a distinguere tra spese e contribuzioni: mentre le spese elettorali rappresentano una forma diretta di espressione, godendo quindi della massima tutela possibile, le contribuzioni risultano invece una forma mediata di espressione. Esse infatti esprimono il supporto nei confronti del pensiero di un candidato, senza tuttavia comunicare un messaggio politico determinato; proprio per questo motivo, il rischio di lesione della libertà espressiva risulta assai ridotto.

14 È questo il pensiero di D. Hellman, “Money Talks but it isn’t Speech”, 95 Minnesota Law Review 953 (2011). A suo parere, dare e spendere denaro a scopo elettorale non è

equiparabile all’espressione diretta delle proprie idee. Tuttavia, una relazione tra le due cose, che può far scattare un certo livello di tutela, si verifica quando il bene da raggiungere (in questo caso la comunicazione) è affidato alle logiche del mercato: a quel punto, si rende necessario l’uso del denaro, sollecitando una tutela. Ciò non accadrebbe, secondo Hellman, in un sistema che garantisse un finanziamento pubblico ai candidati: togliendo la comunicazione elettorale dalle logiche di mercato, si potrebbe ridurre il rischio di compressione delle libertà (ndA: ciò lascerebbe comunque aperta la questione circa i soggetti chiamati a decidere le modalità di impostazione dei limiti, configurando potenziali accuse di censura governativa).

Le limitazioni alle spese previste dalla legge rappresentano una compressione della quantità e diversità dell’espressione più sostanziale che teorica. […] Al contrario…una limitazione della quantità di denaro che una persona o un gruppo possono donare ad un candidato o ad un comitato provoca una restrizione solo marginale della capacità del soggetto di intraprendere una comunicazione politica. Una contribuzione è un’espressione generica del supporto verso un candidato e le sue posizioni, ma non comunica le ragioni sottostanti a tale supporto.15

Da questa prospettiva, il denaro acquisterebbe maggiore valore espressivo se speso direttamente, per esprimere le idee personali; le contribuzioni sarebbero invece un mezzo comunicativo indiretto: esse verrebbero utilizzate da altri soggetti per diffondere i propri orientamenti. Il grado di intensità della capacità espressiva delle contribuzioni è un punto assai delicato. Se alcuni ritengono che esse abbiano una forza comunicativa minima, rappresentando solo il supporto a favore del candidato, non mancano in dottrina le opinioni opposte, secondo cui le donazioni avrebbero un valore molto prossimo alle spese: per questo, ogni legge limitativa comporterebbe dei forti rischi per l’integrità della libertà di espressione.16 Chiariti questi presupposti, la Corte affronta il giudizio di legittimità iniziando dai limiti alle contributions, sottoponendo le norme allo strict

scrutiny, al fine di verificare la presenza di interessi governativi

sufficientemente rilevanti per poter giustificare le restrizioni.

Nella fattispecie, vengono proposti tre interessi governativi; l’esigenza primaria della normativa risiede nella prevenzione dei fenomeni corruttivi e della loro possibile apparenza.17 In posizione ancillare vengono proposti due ulteriori interessi da tutelare: da un lato, i limiti contribuiscono a silenziare

15

Id., 19-21.

16

Cfr. L. R. BeVier, “Money and Politics: a Perspective on the First Amendment and

Campaign Finance Reform”, 73 California Law Review 1045 (1985); dal suo punto di

vista, le regolamentazioni imposte dal FECA pongono realmente dei rischi per la libertà di espressione. Per questo, difende la correttezza delle conclusioni teoriche e logiche contenute in Buckley v. Valeo.

le voci dei soggetti maggiormente influenti, equilibrando il processo elettorale, in nome dell’equality. In secondo luogo, le norme possono rappresentare un freno per l’aumento vertiginoso dei costi delle elezioni, consentendo ai candidati con minori capacità economiche di partecipare attivamente al dibattito politico.

Secondo la Corte, non è necessario andare oltre il primo interesse addotto per trovare una giustificazione sufficiente alle norme limitative delle contribuzioni:

Se le grandi contribuzioni dovessero essere finalizzate ad ottenere uno scambio di favori con i detentori di cariche federali o con i potenziali candidati, l’integrità del nostro sistema di democrazia rappresentativa risulterebbe compromesso. […] Ugualmente preoccupante è la possibilità che il pubblico abbia l’impressione che un sistema di grandi finanziamenti privati lasci spazio a fenomeni corruttivi.18

Agli appellanti, che sostengono la sufficienza delle leggi penali in materia di corruzione, la Corte replica affermando che lo scambio di tangenti rappresenti solamente l’aspetto più eclatante del fenomeno corruttivo, che in materia elettorale non può ridursi ad una mera declinazione degli accordi

quid pro quo.19

Non sono mancate, tra gli studiosi, pesanti critiche alla scelta della Corte di dare rilevanza alla semplice “apparenza” di corruzione: in un ambito così delicato come quello della libertà di espressione politica, sembrerebbe fuori luogo giustificare eventuali restrizioni con un elemento puramente soggettivo e senza riscontri probatori come la “percezione” o “apparenza”.20

18

Buckley, 424 U.S. 1, 26-27 (1976).

19

L’interpretazione del concetto di corruzione rappresenta uno degli aspetti più variabili della giurisprudenza in ambito di campaign finance: l’ampio ventaglio di declinazioni possibili ha consentito alle Corti successive di ampliare o restringere la tutela del Primo Emendamento senza dover ricorrere all’overruling di Buckley v. Valeo.

20 Cfr. N. Persily, K. Lammie, “Perceptions of Corruption and Campaign Finance: When Public Opinion determines Constitutional Law”, 153 University of Pennsylvania Law Review 119 (2004).

Conseguentemente alla presa di posizione del collegio giudicante, vengono ritenute legittime le disposizioni limitative delle contribuzioni che erano state contestate dagli appellanti.

Più delicata è la posizione relativa all’imposizione di limiti alle spese effettuabili: si è visto come la maggioranza dei giudici, nella stesura dell’opinion, abbia creato una distinzione tra contribuzioni e spese, ritenendo le seconde meritevoli di una tutela maggiore. Le prime ad essere ritenute illegittime sono le disposizioni relative alle spese indipendenti; in questo caso, la mancanza di coordinazione ridurrebbe così tanto il rischio di corruzione da rendere ingiustificate le misure limitative predisposte dal legislatore: l’unico effetto sarebbe quello di comprimere indebitamente la libertà di espressione politica di coloro che volessero finanziare comunicazioni elettorali indipendenti.

…le spese indipendenti limitate dalle disposizioni non sembrano porre un rischio di corruzione o di apparenza di corruzione paragonabile a quello generato dalle grandi contribuzioni elettorali. […] Al contrario delle contribuzioni, queste spese possono in realtà dimostrarsi di scarsa utilità per il candidato, potendo invece essere controproducenti. […] Mentre il limite alle spese indipendenti non soddisfa nessun interesse governativo nella lotta alla corruzione, contrae sensibilmente le libertà espressive che costituiscono il nucleo del Primo Emendamento.21

A maggior ragione, la Corte respinge con forza l’interesse secondario basato sull’equality, dichiarandone la mancanza totale di fondamento, con un’affermazione che verrà più volte ripresa nella casistica relativa alla

campaign finance:

…il concetto che il Governo possa comprimere la libertà di espressione di alcuni elementi della nostra società, al fine di amplificare la voce di altri, è totalmente estraneo al Primo Emendamento.22

21 Buckley, 424 U.S. 1, 46-48 (1976). 22 Id., 48-49.

Si tratta di un concetto molto forte, che contribuisce a delineare l’interpretazione del Primo Emendamento: esso tutelerebbe infatti la libertà assoluta di espressione, non essendo sottintesa la garanzia dell’uguaglianza nella capacità espressiva.

Questo è uno dei punti più controversi a livello ideologico: a coloro che sostengono la libertà totale di espressione si contrappongono i fautori di una maggior equality;23 secondo questi ultimi, il Primo Emendamento dovrebbe consentire azioni positive, volte ad amplificare la voce dei soggetti con meno capacità comunicative.

Lo stesso giudice Stevens, che non partecipa alla votazione in Buckley v.

Valeo perchè bloccato dalle procedure di nomina, ha di recente lanciato un

appello in favore di un netto recupero dei valori di uguaglianza in ambito elettorale; come accade nelle competizioni sportive, afferma, i candidati dovrebbero lottare ad armi pari, vincendo grazie alla propria abilità e alle proprie argomentazioni.24

Posizioni simili sono difese da pubblicazioni accademiche; Buckley v. Valeo (e la successiva Bellotti) costituirebbe un serio ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza in politica. Creando un contrasto artificiale – che in realtà non esisterebbe – tra libertà ed equality, la Corte conferisce valore solamente agli aspetti criminali e corruttivi del sistema, tralasciando le problematiche legate alla distorsione: queste costituirebbero un pericolo concreto per l’attuazione degli ideali costituzionali di uguaglianza. Questi ultimi non sarebbero che una componente del Primo Emendamento, contrariamente a quanto affermato dalla Corte, che tenta di porre in contrasto i due principi.25

23

Cfr. D. Tokaji, “Reviving Equality: What the United States can learn from Canada”,

American Constitution Society blog, 2011.

24 Cfr. R. K. L. Collins, “FAN 13.1: Justice Stevens’ testimony to Senate Rules Committee re Proposed Campaign Finance Constitutional Amendment”, concurringopinions.com,

2014.

25 È quanto afferma J. Skelly Wright, “Money and Pollution of Politics: Is the First Amendment an obstacle to Political Equality?”, 82 Columbia Law Review 609 (1982).

La netta presa di posizione della Corte esclude tuttavia la possibilità che venga livellato il “volume” delle varie voci coinvolte nel dibattito politico elettorale, respingendo al mittente tutte le istanze di uguaglianza. Proprio in base a questo ragionamento vengono dichiarati illegittimi i limiti relativi alla spesa di fondi personali da parte dei candidati: mancando ovviamente il rischio di corruzione, l’unico interesse che potrebbe giustificare tali limitazioni è quello dell’uguaglianza economica dei candidati, che come si è appena visto viene ritenuto incompatibile con il Primo Emendamento, così come interpretato dalla Corte.26

La stessa sorte spetta alle norme che impongono limiti alle spese globali della campagna elettorale del candidato; la Corte ritiene infatti che il rischio di corruzione trovi una risposta adeguata nei limiti alle contribuzioni. Viene respinta anche l’osservazione secondo cui i limiti alle spese sarebbero necessari per evitare aggiramenti dei limiti contributivi: le norme relative alla vigilanza, al controllo e alla repressione delle violazioni di tali regole sono ritenute più che sufficienti a garantirne l’osservanza. Ritenendo che il contenimento della spesa elettorale non sia un interesse così rilevante da consentire una compressione della libertà di espressione, la Corte ribadisce come non spetti al Governo la decisione in merito a quali espressioni siano più o meno meritevoli di tutela.27

Vengono così fissati alcuni dei punti cardine dell’intera disciplina della

campaign finance, destinati ad influenzare i successivi casi giurisprudenziali. Partendo dall’assunto secondo cui la spendita di denaro in campo elettorale rappresenta una forma di espressione del pensiero politico, viene attribuito un diverso grado di tutela a contribuzioni e spese: le prime costituirebbero una forma espressiva indiretta e mediata, essendo un indicatore del supporto ad un candidato, mentre le seconde rappresenterebbero l’espressione diretta del pensiero politico.

Da queste premesse, la Corte giunge alla creazione di un quadro interpretativo in cui i limiti alle contribuzioni sono legittimi, giustificati

26 Buckley, 424 U.S. 1, 54 (1976). 27 Id., 57.

dall’interesse a prevenire la corruzione e la sua apparenza, mentre i limiti alle spese, mancando di un valido fondamento giustificativo, risultano essere incostituzionali.28

Se questa è l’opinion of the Court, non mancano tuttavia componenti del collegio che si dichiarano in disaccordo con alcune delle scelte effettuate; in particolare, il Chief Justice Burger29 ritiene che la distinzione tra contribuzioni e spese sia artificiosa,30 sostenendo che esse siano in realtà «due facce della stessa moneta del Primo Emendamento»,31 criticando la decisione di confermare la legittimità costituzionale dei limiti contributivi. Nello specifico, secondo Burger l’intero testo legislativo rappresenterebbe un’eccessiva intrusione nella sfera dei diritti privati attinenti alla materia elettorale.

Un approfondimento degli aspetti teorici sottesi al caso è offerto dall’opinion del Justice Rehnquist,32

che esamina più dettagliatamente le implicazioni del rapporto tra leggi federali e garanzie del Primo Emendamento: mentre eventuali disposizioni restrittive sarebbero plausibili ed accettabili qualora il Congresso volesse regolare la proprietà governativa o l’operato dei dipendenti del Governo stesso, nel caso di leggi federali in materia elettorale la questione risulterebbe diversa; infatti, la normativa emanata ha come oggetto i cittadini in generale, rendendo giustificate le preoccupazioni degli appellanti circa il rischio di una eccessiva intrusione nella sfera di tutela del Primo Emendamento.33 Tuttavia, Rehnquist si dice d’accordo con i risultati pratici ottenuti dalla Corte nella majority opinion. La parte più significativa delle opinioni in disaccordo con la Corte si colloca in una prospettiva diametralmente opposta: la critica in questo caso è infatti

28

Id., 58.

29

Id., 235-257, W. Burger, concurring in part and dissenting in part.

30 Anche il Justice H. Blackmun si dichiara dubbioso su tale distinzione (Id., 290, H.

Blackmun, concurring in part and dissenting in part).

31 Id., 241.

32 Id., 290-294, W. Rehnquist, concurring in part and dissenting in part. 33 Id., 291.

rivolta alla scelta di dichiarare illegittime alcune parti della legge, che secondo una parte dei giudici avrebbe dovuto essere confermata nella sua interezza.

Il giudice che si dimostra maggiormente attivo in questo senso è White:34 nella sua opinion, critica aspramente la scelta di dichiarare incostituzionali tutte le disposizioni limitative delle spese effettuabili. Nel fare questo, la Corte avrebbe peccato di presunzione, ignorando l’esperienza e la conoscenza accumulate dal Congresso in materia elettorale:

…ma la Corte ha bocciato la disposizione, rivendicando incomprensibilmente di saperne di più, rispetto alla maggioranza del Congresso che ha votato la legge e al Presidente che l’ha firmata, circa le potenziali cause di influenza impropria sui candidati. Tra coloro che hanno sottoscritto la proposta di legge possono indubbiamente annoverarsi dei veterani del settore, che sono stati coinvolti profondamente nei processi elettorali e che hanno potuto osservarne da vicino il funzionamento per molti anni.35

Con questa prima osservazione, White richiama direttamente il piano dei fatti, rifacendosi alla realtà dei meccanismi elettorali e mettendo in discussione l’approccio più teorico sostenuto dalla Corte: secondo lui, l’esperienza maturata dal Congresso in ambito elettorale avrebbe meritato una maggior considerazione nell’analisi del funzionamento delle campagne elettorali.

Un secondo punto, su cui White si trova in forte disaccordo con alcuni dei suoi colleghi, è rappresentato dal presupposto dell’intero ragionamento della Corte: l’assunto secondo cui «il denaro parla»36 risulterebbe eccessivo, così come le inferenze che ne derivano. La limitazione del denaro che è possibile spendere non causerebbe un’automatica riduzione della capacità comunicativa di un soggetto; ciò è confermato dall’osservazione delle

34 Id., 257-286, B. White, concurring in part and dissenting in part. 35 Id., 261.

campagne elettorali, in cui spesso un candidato con meno risorse riesce a