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Quello di Anna Politkovskaja è il tipico caso di un giornalismo indipendente russo, fatto con la professionalità tipica dei modelli occidentali. Un tipo di giornalismo poco compreso nel paese, e soprattutto poco tollerato dalle autorità. Proprio per questo la giornalista è conosciuta più all’estero di quanto non lo sia in patria, e i premi riconosciutigli per il suo giornalismo ne sono la prova più evidente. Quello che mi interessa sottolineare in questa analisi è lo stile e l’etica professionale con la quale la giornalista ha lavorato nel corso della sua vita per un tipico giornale indipendente russo(e dunque di “opposizione”), la “Novaya Gazeta”, e le conseguenze di questa sua scelta giornalistica nel contesto russo. Anche l’analisi del “Novaya Gazeta” è molto importante. Per essere libera di scrivere, Anna nel 1999 aveva scelto di entrare in un giornale la cui storia rappresentava perfettamente la parte migliore di quel progetto di “glasnost” che Gorbačëv volle introdurre durante la sua guida del paese. Nato nel 1993 da un gruppo di giornalisti che lasciarono il quotidiano “Komsomolskaya Pravda” per protesta contro la sua linea editoriale

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Si veda articolo su http://www.dirittieuropa.it/blog/13321/news/la-misteriosa-scomparsa-di- trentasei-ceceni-la-corte-edu-accerta-la-responsabilita-della-russia/

filogovernativa, il giornale fu fortemente aiutato a crescere proprio da Gorbačëv, che destinò ad esso parte dei finanziamenti ricevuti dal premio Nobel per la pace del 1990. Attualmente, la proprietà del giornale è così suddivisa: il 10% a Gorbačëv, un 39% ad uomo d’affari apertamente interessato alla difesa della libertà di espressione, Aleksandr Lebedev36, e il 51% al personale che lavora per il giornale, per garantirne appunto la totale indipendenza37. Un’anomalia nel panorama russo. Proprio per questo è considerato uno dei maggiori oppositori alle politiche anti-democratiche portate avanti da Putin e dal suo governo, e quattro suoi giornalisti sono stati uccisi dal 2001 ad oggi, tra cui Anna Politkovskaja38. Non è inoltre un caso che tutti i suoi giornalisti siano stati uccisi in rapida sequenza dopo la conquista del potere da parte di Putin, e non durante gli otto anni precedenti, cioè dal 1993 al 2001. La professionalità con cui Anna e i suoi colleghi della “Novaya Gazeta” lavoravano poteva essere tollerata durante la presidenza di Eltsin, ma non quando la situazione si rivoluzionò successivamente. Tecnicamente Anna apparteneva a quella generazione di giornalisti che avevano iniziato a lavorare durante il regime sovietico. La sua carriera inizia infatti dopo la sua laurea in giornalismo nel 1980 presso l’Università di Mosca, quando entrerà nel giornale “Izvestia” e vi lavorerà fino al 1993. Pur avendo appreso la “professione” secondo gli standard sovietici, Anna mostra però un modo di lavorare e trattare le notizie più diffuso nella generazione successiva, quella entrata nel “mercato” subito dopo la caduta del regime. Quando inizierà a lavorare per la “Novaya Gazeta” come inviata di guerra il suo stile sarà ormai molto aderente all’idea di 36 Si veda http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/5059124.stm 37 Si veda http://www.rferl.org/content/russia-novaya-gazeta-20-years/24944376.html 38 Si veda http://russian_federation.enacademic.com/412/Novaya_Gazeta

giornalismo occidentale. Probabilmente gli anni di “glasnost” e il periodo di relativa libertà che ha caratterizzato l’epoca di Eltsin l’hanno aiutata nella formazione di un etica giornalistica professionale. La stessa Anna, in uno scritto prodotto poco prima di essere uccisa, ammetteva di non aderire a nessun partito in quanto lo considerava un errore da parte di un professionista dell’informazione. Era la stessa Anna a scrivere di non sentire altra esigenza oltre a quella di riportare con precisione i fatti di cui era stata lei stessa testimone, e di pubblicare pochi commenti, perché le ricordavano le opinioni imposte durante il regime sovietico. Considerava l’abitudine di commentare come non necessaria per il lettore, in grado di potersi creare in modo indipendente un’idea. L’unica “pecca”, come ammetteva lei stessa, riguardava però proprio questo aspetto39. Si trattava forse di un’abitudine non necessaria al lettore, ma appariva come necessaria a lei in quanto testimone di eventi fuori dall’ordinario. Questo aspetto non la portava a schiararsi al fianco di alcuna lobby, partito o politico. L’unico schieramento della Politkovskaja sembrava essere quello per la propria coscienza, che non poteva tollerare di rimanere silente rispetto all’esercizio del potere in modo sregolato e totalmente privo di limiti, solitamente contro bersagli deboli incapaci addirittura di lasciare traccia della propria esistenza al resto del mondo. Su questo compito di testimonianza per conto di chi non ha voce la giornalista insisteva spesso. Nei suoi atteggiamenti si poteva rintracciare un profondo spirito umanitario. E’ noto che in più occasioni la giornalista intervenne personalmente per aiutare persone bisognose, ad esempio aiutò alcuni cittadini anziani di

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Si veda http://www.washingtonpost.com/wp-

Grozny a scappare dalla città durante il bombardamento40. Anche il suo intervento nella trattativa con i terroristi barricatisi con gli ostaggi nel teatro “Dubrovka” di Mosca fu significativo. In tal senso, la sua incapacità di essere una semplice testimone era lampante. Probabilmente, la giornalista riteneva che la mancanza di azione, in determinate situazioni estreme, fosse, quella si, una presa di posizione netta. Il suo intervenire era dettato unicamente dalla natura umana che la caratterizzava, per questo non è possibile considerarlo come una tradizionale presa di posizione dovuta a motivazioni politiche o economiche. Posizionamenti chiari, casomai, le si possono attribuire nei sui libri e nei sui scritti al di fuori del puro reportage bellico, dove spesso tra i principali bersagli delle sue accuse spiccano Putin e Ramzan Kadyrov. Come lei stessa spiega in “Cecenia, il disonore russo”, per lei Putin stava instaurando un regime neosovietico, ma la cosa peggiore era che dal suo punto di vista erano gli stessi cittadini russi a voler tornare indietro, piuttosto che combattere per una nuova forma di stato. La Politkovskaja tendeva spesso ad esprimere analisi sociali, commentando articoli o scritti riguardanti fenomeni di corruzione, illegalità, disuguaglianze, disastri ambientali, abusi di potere, inefficienze del sistema giudiziario. In qualche modo, le sue analisi sembravano sempre andare a colpire comunque chi gestiva il potere nel paese, e chi in quel potere aveva riposto la sua fiducia. E’ così nel suo libro “La Russia di Putin”, ed è così anche in “Proibito Parlare”, dove viene derisa ripetutamente la figura di Ramzan Kadyrov, definito sarcasticamente “l’edificatore”, in riferimento alla sua nuova posizione di potere in Cecenia alla conclusione della guerra, nonostante i suoi crimini disumani, le distruzioni da lui

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perpetrate e le accuse di ripetute violazioni dei diritti umani che lo riguardano ancora oggi. Mentre il suo stile si rivelava aderente alla realtà che descriveva durante i reportage, soprattutto quelli di guerra, e suscita ancora emozioni proprio per il distacco con cui riesce a raccontare situazioni verso le quali difficilmente si può provare indifferenza, quando la giornalista decideva di esporre la propria opinione questo stile tendeva a cambiare, a diventare più empatico, ad avere sfumature sarcastiche, rendendo dunque in qualche modo chiara al lettore una differenza. Per questi suoi atteggiamenti Anna ha subito vari attacchi. Dall’avvelenamento, alla detenzione illegale, alle minacce, alle percosse. La sua vita si concludeva, come quella di molti altri giornalisti russi, con il suo omicidio, dopo aver passato anni di vita tormentata dalla consapevolezza di essere una condannata a morte. Come lei stessa ammetteva poco prima di morire, “Kadyrov ha giurato pubblicamente che mi avrebbe ucciso. Disse durante un incontro del suo governo che ne aveva avuto abbastanza, e che Politkovskaya era una donna condannata”41. Il processo da poco conclusosi sulla sua uccisione, non ha potuto far chiarezza sui mandanti politici che hanno deciso la sua morte. Anche in questo, sono molte le somiglianze con i processi ad altri giornalisti russi assassinati. Le conseguenze di questa sua libertà di pensiero applicata alla sua professione di giornalista, sono una chiara rappresentazione di quello che può avvenire nel mondo del giornalismo russo a coloro che non praticano una qualche forma di “filtro” preventivo al proprio linguaggio, e che dopo essere stati intimiditi più volte, continuano a non piegarsi alle pressioni.

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Si veda http://www.washingtonpost.com/wp-