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L’ultima generazione di giornalisti registra un ritorno all’omogeneità, per quanto di portata inferiore a quello della generazione sovietica. L’età si abbassa ancora, rimanendo in media sotto i trent’anni, e le differenze di età sono meno marcate, come anche quelle educative, in un contesto dove sono sempre più numerosi coloro che possiedono una qualifica accademica in ambito giornalistico. Anche per l’estrazione sociale si registra uniformità, e l’appartenenza ad elité e classe media è costante. A concludere un quadro di sostanziale compattezza vi sono le esperienze lavorative quasi sempre sviluppatesi all’interno di media e servizi di pubbliche relazioni. L’interesse per il giornalismo diventa di grande pragmatismo,

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portando ad incarichi lavorativi anche brevi ma con la possibilità di fare esperienza in ambienti non necessariamente giornalistici, creandosi conoscenze e rapporti utili per il futuro, o magari guadagnando molto più denaro del normale anche se per tempi più brevi; la pratica di sfruttare il giornalismo per arrivare ad occupare posizioni ben retribuite a livello statale si diffonde, e solitamente inizia da servizi di pubbliche relazioni. Il giornalismo come affari, intrattenimento, e, soprattutto in questo periodo, televisione, immagine, moda e pubblicità, inizia ad attirare sempre più giovani per le prospettive di guadagno o per il soddisfacimento di particolari desideri lavorativi legati a piaceri personali. Esistono però ancora individui decisi a lavorare prima di tutto per vocazione, ed il fenomeno si sviluppa principalmente nei nuovi media, come su Internet. Tutti questi nuovi professionisti del giornalismo, a prescindere dalle loro motivazioni, tendono a mostrare una elevata mobilità sociale, una dose di adattamento tale da consentir loro, se necessario, di combinare il proprio lavoro principale con lavori secondari, senza mostrare alcun interesse per le associazioni professionali e le Unioni dei Giornalisti. In questo periodo, la nuova generazioni di giornalisti che si sta formando, attira molto l’attenzione dello stato, e molti suoi esponenti finiscono per essere coinvolti nell’organizzazione di “Media Union”, un’organizzazione avente lo scopo di riunire tutti i settori dei mass media e tutelare i diritti di tutti i giornalisti russi5, nata sotto la guida del governo nel 2001. Per quanto tendino a privilegiare l’intrattenimento alla missione sociale, i giornalisti di questa generazione hanno un punto in comune con il giornalismo sovietico: la volontà di fare un’informazione il più

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possibile corretta; con un solo limite: al contrario dei giornalisti della generazione sovietica, ai nuovi professionisti risulta più tollerabile il controllo da parte dello stato delle forme di intrattenimento da loro proposte, e anzi si trovano spesso a supportare l’intervento statale volontariamente. Anche per ciò che riguarda gli argomenti politici, tale generazione tende a dare supporto al governo, e per quanto riguarda la funzione di critica alle autorità, risulta addirittura inferiore alla generazione socialista, con in più l’aggravante che molti giovani giornalisti iniziano a mostrare una certa tolleranza per ciò che riguarda le pratiche di corruzione6.

2.4: L’influenza del potere nella ricerca di un’etica professionale Questo confronto tra generazioni è fondamentale per cercare di capire quanto il giornalismo russo abbia continuato la tradizione degli ideali sovietici o abbia invece imboccato in qualche modo la strada del giornalismo occidentale. Dall’analisi delle tre generazioni pare che un certo spirito di collaborazione col potere sia rimasto, affiancato da vari tentativi di rendere più professionale l’attività giornalistica, riportando le notizie e gli argomenti in modo più obiettivo e fattuale. Lo stato però è ancora oggi il controllore dei media, o è comunque il regolatore del sistema, tende a creare leggi favorevoli ad uno stabilizzarsi della sua posizione di vantaggio, ed è in ultima istanza il datore di lavoro più importante. In definitiva, oggi è possibile trovare mischiati assieme elementi derivanti dalla vecchia mentalità sovietica,

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influenzati massicciamente dalla libertà senza precedenti degli anni Novanta; tali elementi sono però corretti al contempo dalla comprensione che, se non è lo stato a controllare i media, saranno i gruppi di interessi e gli “oligarchi” a sostituire il suo potere di controllo con il proprio, creando un disordine nel quale sarà comunque necessario per i giornalisti scegliere da che parte schierarsi, e a quale datore di lavoro rendere conto del proprio operato. Analizzando i comportamenti pratici della maggior parte degli esponenti di tutte le categorie, si può notare una serie di abitudini comuni, dalla grande fiducia nelle proprie fonti quando si tratta di autorità e individui vicini al potere, che porta spesso all’emissione di notizie non verificate, alla collaborazione attiva con le stesse autorità, soprattutto nei livelli regionali e nazionali. Anche quando non vi è una reale fiducia nell’autorità, viene comunque percepito un obbligo verso il potere, e si nota come il giornalista tenda in definitiva alla pubblicazione delle notizie non verificate. Non sente alcuno stimolo alla verifica dell’attendibilità dell’informazione, perché non percepisce come proprio il compito di investigare, e non ha nessun incentivo a farlo, mentre sente assai più forte la responsabilità di raggiungere, infine, una collaborazione con l’autorità. pur non essendoci pressioni o minacce da parte di questa. Ciò che cambia veramente tra le varie generazioni, è il modo di vedere i propri lettori o il proprio pubblico, con un conseguente cambio nel modo di comunicare. Per le vecchie generazioni sovietiche questo vuol dire ancora riportare le notizie e commentarle per dare un orientamento ritenuto corretto al lettore, continuando quella vecchia tendenza ad un approccio educativo. Per le nuove generazioni la comunicazione invece si “occidentalizza”, dividendo nettamente il resoconto obiettivo

dei fatti, dal punto di vista e dai commenti del giornalista. Giungendo ad una valutazione finale dei giornalisti russi, di tutte le generazioni, si deve però constatare che difficilmente c’è una vera obiettività nel loro modo di fare giornalismo, non solo per l’atteggiamento verso il potere, ma anche perchè vi è la tendenza, in tutti, anche negli esponenti delle nuove generazioni, a trasmettere un punto di vista personale, distruggendo la verità fattuale. Si tratta di un giornalismo che tende a preservare la posizione dello scrittore stesso, senza terminare in un prodotto tecnico ben strutturato. In ciò si nota ancora molto l’attaccamento dei giornalisti alla loro funzione pubblica ereditata dalla cultura sovietica, dove era importante l’autorevolezza giornalistica per gran parte della “publicistika”. Sulla presenza di pluralismo, inoltre, i giornalisti della vecchia generazione, nonostante le loro lotte per la libertà di espressione dalla “glasnost” in poi, continuano a essere sottomessi alle linee guida editoriali dei loro media, come nel passato sovietico. Quando, come nel caso delle nuove generazioni, questo attaccamento alla linea editoriale è meno forte, avviene invece un altro fenomeno: il giornalista tende a percepire il pluralismo come la possibilità a lui concessa di esercitare o meno il potere di dare informazioni. Cresciuti in un’epoca dove il pluralismo stava diventando una regola ormai scontata, essi scelgono così di poterla ignorare o meno, intendendo con ciò il proprio pluralismo, come tipico di un’altra tradizione russa, per nulla migliore delle tradizioni sovietiche, quella del “pravovoi nigilism” (“legal nihilism”, “nichilismo legale”7

) . Il risultato finale, comune alle varie generazioni, rimane sempre quello di una tendenza all’auto-censura e alla mancanza di obiettività.

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2.5: “Zakazukha” e “Kompromat

Queste generazioni condividono inoltre due elementi molti radicati nella cultura russa, considerati da molti osservatori come una barriera all’effettivo svilupparsi di un atteggiamento più professionale e, in particolare, al formarsi di un’etica giornalistica. Si tratta delle pratiche chiamate “zakazukha” e “kompromat”. La “zakazukha”(traducibile con “su ordinazione”, “commissionato”; dal russo “kazak”, che significa appunto ordine) è quell’attività di scambio per la quale l’editore di un giornale o di un media si rende disponibile a trattare un particolare argomento su commissione di organizzazioni, lobbisti, uomini d’affari, politici, o anche esponenti della criminalità organizzata, generalmente in cambio di pagamenti diretti in denaro8. Questa pratica, ovviamente, non ha le sue radici nel periodo sovietico, quanto nel turbolento periodo di assestamento economico e politico seguito alla caduta del regime. Negli anni Novanta, la “zakazukha” divenne per molti giornali un modo di tirare avanti, di evitare la bancarotta. Ma col tempo, da strumento di pura sopravvivenza, divenne lentamente un malcostume sempre più diffuso e in quel decennio non era raro che i giornali finissero per servire con continuità un particolare gruppo di potere o un “oligarca” che li manteneva direttamente. La cosa più inquietante, ai giorni nostri, della pratica della “zakazukha” non è tanto il fatto che molti giornalisti si dichiarino disponibili ad affrontare certi argomenti e tentino in

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qualche modo di ottenere un tornaconto economico da tale attività, superiore a quello che ricaverebbero dalla semplice vendita del proprio giornale. Si tratta piuttosto del fatto che, come conseguenza perversa di tale abitudine, molti giornalisti scelgano invece di non essere disponibili alla pubblicazione di alcuni materiali. Che la ragione di tale censura preventiva messa in atto dagli stessi giornalisti, sia la volontà di dare la precedenza alla pubblicazioni “su ordinazione”, o semplicemente il fatto che non si vogliano pubblicare notizie che possano dare fastidio a qualche possibile finanziatore futuro o passato col quale si vogliono mantenere buoni rapporti, tale pratica risulta gravemente lesiva dell’etica professionale dei giornalisti. Negli anni Novanta questo fu uno dei principali motivi per i quali la reputazione dei giornalisti russi crollò secondo la percezione del lettore medio di quel periodo. Anche se certamente non tutti i giornalisti la praticavano, il fatto che fosse così evidente la corruzione della stampa, e che essa potesse diventare uno strumento in grado di difendere gli interessi di chiunque le desse del denaro, era per il pubblico qualcosa di inconcepibile rispetto al passato sovietico, dove l’unica funzione della stampa era servire lo stato educando il popolo. La particolarità del caso russo, per un fenomeno che in un certo senso è diffuso anche nei paesi occidentali (basti pensare agli articoli “redazionali” che a volte possono essere confusi da lettori meno attenti con articoli liberamente scritti dal giornale, mentre in realtà sono il risultato dell’accordo tra il giornale stesso e un inserzionista pubblicitario), è che gran parte del contenuto dei moderni media russi è derivato da materiali frutto di “public relations”; tale modo di fare pubblicità dei giornalisti, con lo scopo di erogare una prestazione ad un cliente pagante favorendo di solito politici e uomini d’affari, ma,

soprattutto, conservando come obiettivo quello di ingannare il pubblico, di far loro credere che siano articoli e notizie scritti seguendo una ferrea etica professionale di ricerca indipendente, mina profondamente la reputazione di tutto il giornalismo russo9. Il fenomeno è stato così diffuso che il lettore medio russo si aspetta ormai questo genere di comportamenti considerandoli normali e sa perfettamente di non dover mai fidarsi dei giornalisti senza avere una chiave di lettura per ogni specifica testata o media, anche se in tal modo il faticoso processo di discernimento del vero dal falso ricade tutto sulle sue spalle, mentre il giornalista, che dovrebbe esserne il primo responsabile, perde quel ruolo che avrebbe dovuto appartenergli eticamente e professionalmente10.

Un altro fenomeno caratteristico del giornalismo russo, ma ereditato dall’epoca sovietica, è quello del “kompromat” (“materiali compromettenti”), cioè l’usanza tipica dei governi sovietici e del Partito Comunista di screditare attraverso i media i propri avversari politici, o particolari individui divenuti scomodi. La pratica del “kompromat” si affianca, per la sua riuscita, a tutte quelle attività di intelligence, spionaggio, ricerca di informazioni, che sono necessarie a compromettere pubblicamente il bersaglio. Tale ricerca di informazioni è segreta, e i suoi risultati sono rivelati solamente quando conviene al mandante dell’attacco diffamatorio. Si tratta dunque di una pratica la cui organizzazione avviene spesso con metodi illegali, favorita da corruzione e intenti criminali, la cui rivelazione finale al pubblico non è altro che la punta di un iceberg di pratiche

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“Russia: Heroes and Henchmen. The Work of Journalists and the Media in the Russian Regions”, Reporters Without Borders, 2009, pp.7-8 disponibile sul sito http://www.refworld.org/docid/4aaf955f2.html

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Katrin Voltmer,“Mass Media and Political Communication in New Democracies”, Routledge, Abingdon, 2006, pp. 190-191

contrarie all’etica giornalistica, uno specchio per le allodole, un inganno che difficilmente i lettori ed il pubblico potranno percepire senza l’aiuto di altre fonti di informazione. Le critiche ed il linguaggio spesso diffamatorio portati avanti attraverso il “kompromat” vanno al di la dell’esercizio di un sano spirito di critica e di una visione obiettiva dell’evento. Si tratta di atteggiamenti totalmente generati e manipolati dall’esterno rispetto al media che li trasmette, che in tal caso effettivamente si trasforma in un semplice strumento di potere, senza alcuna volontà e capacità di giudizio autonomo dell’evento. Il potere politico concesso da strumenti come il “kompromat” è stato largamente utilizzato negli anni Novanta per condurre campagne di annientamento degli avversari degli “oligarchi” o della “famiglia” che supportava Eltsin, ma ha continuato a trovare largo uso, soprattutto in contesti regionali o locali, per tutta l’epoca Putin-Medvedev. Per anni quantità smisurate di informazioni compromettenti potevano esser mantenute segrete tenendo in ostaggio e fedele un intero sistema politico ma anche economico, per spaventare oppositori e uomini d’affari, finendo all’occorrenza per essere rivelate saltuariamente come monito contro alcuni avversari minori la cui rimozione non avrebbe destabilizzato il sistema nella sua interezza11. Il “kompromat” è talmente diffuso da assumere talvolta toni grotteschi. Il caso nel 2008 del giornale “Shelkovchanka”, pubblicato nei pressi di Mosca con tiratura di circa 50000 copie, e di proprietà di un “oligarca” locale, è uno dei più esemplificativi: nel marzo di quell’anno, comparve sul giornale un annuncio che specificava chiaramente che il giornale “Shelkovchanka” stava cercando un giornalista professionista pronto a

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Katrin Voltmer,“Mass Media and Political Communication in New Democracies”, op. cit., pp. 161-164 e pp. 224-226

condurre un’approfondita investigazione e raccolta di informazioni aventi come bersaglio un politico locale appartenente al “Partito Cominista di Russia”, Natalia Yeremeyzeva. In contemporanea a questo annuncio, il giornale “Shelkovchanka” si rivolse dalle proprie pagine direttamente ai suoi lettori affinché gli consegnassero ogni materiale in loro possesso sulla Yeremeyzeva in cambio di una congrua ricompensa in denaro. Da subito il giornale iniziò a presentare vignette satiriche di grande volgarità contro la Yeremeyzeva con l’intento di diffamarla rapidamente. Ma il politico oggetto dell’attacco disponeva a sua volta di un giornale e decise di rispondere al “kompromat” comprendendo che la denuncia fatta contro il “Shelkovchanka” alla autorità giudiziarie, avrebbe avuto tempi troppo lunghi e non avrebbe potuto difendere efficacemente la sua posizione politica12. Quando si chiede ai giornalisti russi (molti dei quali convinti sostenitori che la libertà di informazione e di espressione sia un valore fondamentale) di trovare una giustificazione “professionale” per tali loro comportamenti, solitamente si sviluppa un ragionamento tendente a giustificare il fatto che i giornalisti siano naturalmente predisposti ad essere corrotti dal potere: tutto il mondo politico sociale che li circonda è corrotto e per sopravvivere loro stessi devono piegarsi alle esigenze del contesto dove lavorano e di cui sono parte integrante. Risulta così impossibile per molti di loro descrivere con obiettività il contesto che li avvolge e in cui devono trovare le risorse per sopravvivere: il giornalista è un prodotto che può essere comprato, ha bisogno di guadagnare e nessuno vuole un giornalista “non professionista”, cioè che non si fa pagare per svolgere un lavoro

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“Russia: Heroes and Henchmen. The Work of Journalists and the Media in the Russian Regions”, op. cit., p.8 disponibile sul sito http://www.refworld.org/docid/4aaf955f2.html

su commissione (stravolgimento del concetto di professionalità). Così il giornalismo diventa ancora in molti casi solo un repertorio di competenze tecniche, da vendere sul mercato, senza alcuna etica professionale e la mentalità di mercato, per quanto diversa da quella sovietica, finisce per avere i soliti sviluppi del passato, relegando il giornalismo alla funzione di strumento del potere13

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