In tutte le società moderne, a prescindere dalla forma di governo nella quale esse scelgano di organizzarsi, c’è una comune percezione di un vincolo strettissimo tra la libertà di espressione e il potere politico che le guida. Questo vincolo è percepito diversamente da società a società, ma che i due concetti non possano che chiamarsi in causa vicendevolmente è innegabile. Sempre più spesso questo accade riferendosi a quella forma di gestione del potere che più di ogni altra oggi è contrassegnata da valori positivi: la democrazia. In particolare è ancora più diffusa la percezione che il rapporto tra democrazia e libertà di espressione in tutte le sue forme (dalla libertà di parola alla libertà di stampa) sia di reciproco rafforzamento, al punto che, senza possibilità di esprimere un supporto pubblico ai valori democratici, difficilmente in molti paesi questi si sarebbero potuti sviluppare in un percorso di democratizzazione vero e proprio1. La libertà di espressione è percepita come una forma di controllo permanente dell’operato dei governi, un contrappeso al potere indispensabile alla sopravvivenza della democrazia. Gli studi riguardanti il rapporto di questa libertà con la democrazia partono innanzitutto dalla cosiddette “theories of democracy”2
, cioè da tutte quelle teorie che sono state formulate da studiosi di varie epoche su cosa si intenda per democrazia, su quali basi essa poggi, su quali percorsi portino al suo sviluppo, quali siano le condizioni che più di altre ne favoriscano la nascita e in quante forme diverse essa possa manifestarsi. Nelle
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Jukka Pietiläinen e Dmitry Strovsky, “Why Do Russians Support Censorship of the Media?” in “Russian Journal of Communication”, Vol. 3, n. 1-2, 2010, Helsinky, Routledge, p.53, sul sito https://helda.helsinki.fi/bitstream/handle/10138/24366/Censorship_in_Russia_final.pdf?sequen ce=2
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Si veda documento presente sul sito https://www.boundless.com/sociology/understanding- government/democracy/theories-of-democracy/
moderne teorie della democrazia, gli studiosi tendono a discutere di elementi più specifici, come il fatto che la democrazia possa o meno applicarsi ad alcuni paesi del mondo o ad alcune culture.
Dopo il disfacimento dell’URSS il mondo accademico occidentale intensificò molto le ricerche sui processi di cambiamento sociale e politico in grado di portare alla formazione di nuove democrazie3. Quegli studi servirono anche per preparare nuove teorie in grado di spiegare quello che sarebbe accaduto di li a poco: gli sviluppi degli anni successivi non andarono incontro a quelle aspettative di democratizzazione previste da molti osservatori, e mentre fu chiaro che la tendenza delle nuove democrazie a consolidarsi procedeva tra problemi gravissimi che avrebbero potuto improvvisamente invertire o comunque fermare il processo, molti iniziarono a comprendere che una moltitudine di altri fattori influenzavano il modo in cui le nuove democrazie stavano procedendo. Lo stesso Huntington, non vedendo mai consolidarsi efficacemente quella “third wave” democratica da lui teorizzata (che di questo tema è stato uno dei maggiori studiosi) si renderà conto che a differenza del passato, dove le due “ondate” precedenti si erano sviluppate e concluse prevalentemente in seno al mondo occidentale (si tratta della “prima ondata” rappresentata dall’introduzione del suffragio nell’800, e della “seconda ondata” seguita alla Seconda Guerra Mondiale), questa “third wave” iniziata negli anni Settanta in Sud America e sviluppatasi poi tra alcuni paesi asiatici dell’area pacifica per concludersi tra i paesi asiatici ed europei del blocco sovietico, con l’Occidente aveva pochi elementi in comune. Nel suo successivo studio sugli sviluppi della situazione post Guerra
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Si veda a riguardo il documento di Samuel P. Huntington: “Democracry’s Third Wave” sul sito http://www.ou.edu/uschina/gries/articles/IntPol/Huntington.91.Demo.3rd.pdf
Fredda, terminato nella teoria dello “Scontro di Civiltà” (“Clash of Civilizations”), Huntington si rendeva conto che la fine dell’ordine bipolare aveva portato ad una situazione più caotica, dove avevano sempre maggiore rilevanza le contrapposizioni culturali e religiose, che sarebbero state nel futuro la causa dei nuovi scontri, e dove le precedenti “theories of democracy” aventi come riferimento i valori occidentali non sembravano adeguarsi correttamente al nuovo contesto. Sullo sfondo, infatti, lo studioso percepiva una tendenza alla de-occidentalizzazione del contesto internazionale, e con essa un tendenza all’abbandono della democrazia occidentale come riferimento per i nuovi paesi che stavano nascendo dalla “third wave”4
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Il quadro dipinto da Huntington a metà degli anni Novanta ha trovato in parte conferma. Dopo la conclusione della “terza ondata”, ha iniziato a prodursi un allungamento dei processi democratici in molti paesi, e si è riscontrata una generale diminuzione della tendenza ad intraprendere il percorso democratico. Nonostante l’inizio del nuovo millennio sia stato caratterizzato da ulteriori tentativi di riprendere la spinta democratica verso zone del mondo che non erano state neppure sfiorate dalla “terza ondata” (medio oriente, asia centrale) con le “esportazioni della democrazia” messe in atto dagli Stati Uniti, e negli ultimi anni la primavera araba ci abbia mostrato come anche in differenti culture una spinta verso questo modello di stato esista, i fallimenti a cui sono andate (e stanno ancora andando) incontro queste esperienze, ha acceso il dibattito su una possibile “ondata inversa” di arretramento della democrazia. Anche fattori come la crisi economica
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Si veda a riguardo il documento di Samuel P. Huntington: “The Clash of Civilizations” sul sito http://www.hks.harvard.edu/fs/pnorris/Acrobat/Huntington_Clash.pdf
mondiale nata nel mondo democratico occidentale, in opposizione ai grandi successi economici di paesi autoritari come la Cina, e il fatto che agli occhi di sempre più individui le democrazie sembrino strutture manovrate da piccole élites intente a difendere sempre più grandi disparità economiche planetarie (ma anche interne alle stesse democrazie), ha portato alla nascita di nuove idee antidemocratiche. Per osservatori internazionali come Freedom House, il 2014 è l’ottavo anno consecutivo in cui il numero di paesi passanti da regimi non liberi a regimi democratici è calato rispetto al passaggio opposto da paesi liberi a paesi non liberi5.
Negli studi sugli sviluppi della democrazia degli ultimi anni, è possibile rilevare una spaccatura sempre più marcata rispetto al passato, incentrata su due previsioni opposte l’una all’altra. La prima è quella di coloro che continuano a sostenere che la democrazia (in quanto valore non solo occidentale ma universale) sia inevitabile e continui ad accompagnare i progressi di tutto il genere umano, e a proteggere tutti quei diritti che l’umanità ha elaborato a difesa di ogni suo rappresentante. Secondo i sostenitori di questa visione, i valori di indipendenza, libertà, individualità che da sempre hanno accompagnato la democrazia, moriranno solo quando l’umanità stessa scomparirà, essendo connaturati nell’essere umano. La seconda è quella di coloro che hanno analizzato la crisi delle moderne democrazie liberali trovandole fallimentari e piene di contraddizioni insanabili, destinate a terminare con la scomparsa del modello democratico come punto di riferimento a livello globale, per iniziare un percorso autoritario in cui i nuovi regimi continueranno con
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Si veda a riguardo il documento “Freedom in the World 2014” presente sul sito http://www.freedomhouse.org/report/freedom-world/freedom-world-2014#.U5t19_l_uvN
successo (come prima avevano tentato, fallendo, le democrazie) a supportare un’economia di mercato sempre più moderna6
. Senza entrare nei dettagli di ogni singola teoria, occorre però constatare come ancora oggi la democrazia sia considerata un valore positivo da praticamente tutti gli stati del mondo: solo quattro paesi nel mondo (Arabia Saudita, Città del Vaticano, Burma e Brunei) vedono sé stessi come non democratici, non facendo alcun riferimento alla democrazia sulle proprie costituzioni7. Tutti gli altri paesi tendono a presentarsi come democratici, anche se sempre più spesso si tratta di democrazie false o incomplete. Essendo chiaro che in qualche modo il futuro sembra ancora parlarci di democrazia, occorre analizzare le “theories of democracy” se si vogliono distinguere le vere democrazie da quelle false. Una teoria universale che ci aiuti in tal senso però non sembra esistere. Robert Dahl, che è stato uno dei maggiori studiosi della materia nell’età moderna, non riteneva che potesse esistere una “teoria democratica”, quanto piuttosto “teorie democratiche” distinte8
. Per Dahl in effetti non esisteva una originale “teoria classica della democrazia”, perché ogni teoria doveva adeguarsi bene all’epoca che pretendeva di analizzare. Il termine “classico” associato ad una teoria, presuppone che essa sia un modello non alterabile dal tempo nella sua validità, e adeguabile alle epoche successive, cosa che secondo Dahl, per le “teorie democratiche”, non è possibile, perchè col tempo e l’evoluzione delle società, tutte le teorie diventano obsolete, e non esiste un vero modello “classico” di riferimento: occorre ristudiare
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Barbara Wejnert, “Diffusion of Democracy: The Past and Future of Global Democracy”, Cambridge University Press, 2014, p.6
7 Ignacio Garcia Marin, “Political Participation, Democracy and Internet: Tunisian Revolution”,
Grin Verlag Gmbh, Norderstedt, 2011, p.2
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Robert Alan Dahl, “A Preface to Democratic Theory, Expanded Edition”, University Of Chicago Press, 2006, p.1
nuovi modelli continuamente, senza lasciarsi distrarre dai differenti contesti delle epoche passate9. Ciononostante, anche per Dahl, esistono alcuni principi che fanno da presupposto ad un percorso democratico. Per Dahl, il Principio di Uguaglianza è un caposaldo: all’interno di un’organizzazione o un gruppo, tutti gli uomini devono essere sufficientemente qualificati da avere le stesse capacità di partecipare alla creazione di decisioni collettive che riguardino gli interessi o la sorte dello stesso, escludendo la possibilità che alcuni soltanto decidano per tutti gli altri. Dahl sostiene che, data tale premessa, l’unica regola che possa legittimare il governo di tale organizzazione, sarà per forza quella democratica. Nel raggiungere la sua legittimazione secondo la regola democratica, tale governo seguirà un percorso democratico basato su 5 criteri imprescindibili: 1) partecipazione effettiva: la possibilità per tutti i partecipanti di farsi un’opinione, di esprimere i propri dubbi, e di presentare le proprie ragioni, ugualmente a chiunque altro; 2) uguaglianza di voto nei momenti decisivi: il peso di un voto deve essere lo stesso per tutti i partecipanti; 3) comprensione illuminata: a tutti deve essere concessa la possibilità di conoscere o esprimere quale sia la migliore scelta per i propri interessi; 4) controllo dell’Agenda: tutti devono potersi esprimere su quale debba essere l’ordine degli argomenti da considerare e discutere; 5) inclusività: il principio di uguaglianza va esteso a tutti coloro che fanno parte del gruppo o dell’organizzazione. Per quanto questo percorso ideale non riesca a trovare pieno riscontro nemmeno nelle moderne democrazie occidentali, esso segna il modello ideale di riferimento, e tramite il confronto tra esso ed il mondo reale è possibile stabilire quanto uno stato sia democratico
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nelle sue istituzioni10. Quello che Dahl, come in realtà molti politologi moderni, osserva, è che la partecipazione politica e la democrazia sono inscindibili: senza partecipazione, le decisioni non potranno seguire il criterio democratico sopra esposto. Ma la partecipazione ha a sua volta una premessa indispensabile, senza la quale essa non può esistere, o esisterebbe solo formalmente: l’informazione. La capacità di potersi informare è il presupposto alla partecipazione, è il modo per poter capire quali siano i propri interessi e per potere costringere chi governa ad essere responsabile per le proprie azioni davanti a tutti. Secondo Dahl, la libertà di espressione e le fonti indipendenti di informazione sono due istituzioni senza le quali il livello di democraticità in un processo di decisione interno ad un gruppo o ad uno stato viene a mancare11.