STEFANO PIRANDELLO: OPERE
M. Martini “LʼArgante” è il nome di più riviste attive nella prima metà del Novecento; molto probabilmente quello che a noi interessa è o “LʼArgante:
5.2 IL CASO DE I GIGANTI DELLA MONTAGNA
Questʼopera di Pirandello, come ben noto, è rimasta incompiuta 136
. Vi sono vari indizi che precedono la stesura definitiva del testo: già nel 1928 (11 settembre) Luigi Pirandello accenna allʼopera in unʼintervista rilasciata a Viareggio, ma manca ancora il titolo e la trama è solo accennata 137. Come viene
suggerito da Alessandro dʼAmico a questa altezza cronologica è assente ancora il terzo polo dellʼazione, cioè Cotrone e i suoi compagni che risiedono nella villa della Scalogna, chiamati per tale motivo “gli Scalognati” 138
. Ancora nel 1929, grazie ad alcune lettere a Marta Abba, sappiamo che Pirandello era intento alla composizione di questʼopera, ma che non riusciva a portarla a termine. Il 17 aprile 1930 egli scrive alla Abba: «I giganti della Montagna, Marta mia, saranno un lavoro veramente gigantesco». Nella primavera del 1930 si va delineando, progressivamente, la trama dellʼopera e nel febbraio 1931 – dopo altri momenti di pausa nella stesura del testo – Luigi parla alla Abba di “capolavoro”, dicendole anche: «sto toccando lʼapice» e, inoltre, afferma che ne I giganti: «Cʼè tutto, è lʼorgia della fantasia!». La prima tappa per la pubblicazione dellʼopera è del dicembre 1931 su “Nuova Antologia”: qui appaiono i primi due “momenti” intitolati I fantasmi 139
. Dopo questa uscita vi saranno altri tre anni in cui Pirandello alterna momenti compositivi a pause nella stesura dellʼopera. Il 21
136 L. PIRANDELLO, I giganti della montagna in ID. Maschere nude, IV, a cura di A. dʼAmico con la collaborazione di A. Tinterri – Opere teatrali in dialetto, a cura di A. Varvaro con un saggio introduttivo di A. Camilleri, Milano, A. Mondadori, 2007, pp. 844-910
137
G.C., Lazzaro e unʼaltra commedia nuova di Pirandello [“La Stampa”, 11 settembre 1928] in
Interviste, pp. 401-403.
138
A. DʼAMICO, Notizia (I giganti della montagna) in L. PIRANDELLO, Maschere nude, IV, pp. 809-842; A DʼAMICO, Note ai testi e varianti (I giganti della montagna) in L. PIRANDELLO,
Maschere nude, IV, pp. 1036-1066
aprile 1934 Luigi, in unʼintervista su “La Stampa”, annuncia di avere concluso I
giganti 140. In realtà ha portato a termine il terzo “momento” o secondo atto, che
verrà poi pubblicato il successivo novembre (quindi quasi tre anni dopo I
Fantasmi) su “Quadrante 19”. Il 25 ottobre 1936 Pirandello scrive a Marta Abba:
«Dovrei finire il terzʼatto de I giganti della montagna», ma pochi mesi dopo muore e lʼopera rimane incompiuta, proprio perché manca il terzo atto (o quarto “momento”).
Lʼazione narrata ne I giganti è la seguente: allʼapertura del sipario, nel primo momento, siamo proiettati nella villa “La Scalogna” con Cotrone e i suoi strani compagni (Doccia, Quaquèo, La Sgricia, Milordino, Mara-Mara); immediatamente gli scalognati avvistano in lontananza un gruppo di persone e sono colti da timore per lʼeventuale visita. Di conseguenza essi mettono in scena una serie di artifici per impaurire gli avventurieri, ma senza risultati. In realtà Cotrone attendeva lʼarrivo di queste persone: la Compagnia della Contessa Ilse (formata dalla donna, suo marito il Conte e i loro attori Diamante, Spizzi, Cromo, Battaglia, Lumachi). Ilse è unʼattrice e il marito, per sostenere i suoi desideri, ha perduto tutto il patrimonio e adesso la Compagnia si trova in condizioni miserevoli. Questi attori stanno portando in scena la Favola del figlio cambiato
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, opera composta da un tale Poeta e data alla Contessa, ma non riescono a
140 Gim, Colloquio con Luigi Pirandello [“La Stampa”, 21 aprile 1934] in Interviste, p. 544 141 Riassumo di seguito lʼazione narrata nella Favola. La scena si apre con il lamento di una madre disperata: le Donne, streghe che vanno in giro di notte, le hanno trafugato il suo bambino bello e sano, sostituendolo con un altro deforme. Nel secondo atto la fattucchiera paesana, Vanna Scoma, alla quale la madre si rivolge, le dà un consiglio pieno di grande saggezza: il figlio trafugato, che è stato portato alla corte di un re, potrà star bene solo se lei alleverà con affetto e cure lʼaltro bimbo, «quanta più cura tu qua avrai di questʼaltro, e tanto meglio tuo figlio starà di là». Il terzo atto si apre con una veduta sul mare, in un “caffeuccio” vicino al porto. Sono passati diversi anni dallo scambio dei figli. Ecco quindi che entra in scena “Figlio di Re”: è il bambino deforme che viene chiamato così ironicamente. È il figlio che le Donne hanno lasciato alla madre: un mostro che
sostenere la rappresentazione in quanto il numero degli attori è inferiore rispetto a quello necessario. Verremo poi a conoscenza del fatto che il Poeta, innamorato di Ilse, si era suicidato perché non corrisposto 142
. Nel secondo momento siamo di fronte a dei prodigi che portano la scena in una dimensione onirica. Cotrone dà prova della sua arte magica con effetti di luce, segue poi il racconto della vecchia scalognata, La Sgricia, a proposito dellʼ “Angelo Centuno”. È una storia di visioni: una notte la donna era in strada, poiché si stava recando dalla sorella, e così venne scortata da questo Angelo con la sua schiera di Anime del Purgatorio e proprio lʼAngelo le disse che di lì a poco sarebbe morta; quindi Sgricia considera se stessa solo unʼapparizione. Si comprende così lʼatmosfera favolistica dellʼopera, fuori dalla realtà, un qualcosa di sovra-umano. Il terzo momento mette lettori e pubblico maggiormente a contatto con il problema delle apparizioni: perlopiù la scena avviene in un grande stanzone dove vi sono degli strani oggetti. Nella notte si susseguono una serie di eventi misteriosi: ad esempio i fantocci, preparati in anticipo da Cotrone affinché sopperiscano magicamente alla mancanza di attori nella Compagnia, si animano. Sarà Cotrone stesso ad affermare che nella villa, durante la notte, «i sogni […] vivono fuori di noi». Cotrone suggerisce alla Compagnia che il posto ideale per la rappresentazione è la
stenta a parlare; ad esempio nella taverna dice a dei marinai appena entrati: «Maghinaghi de mmio ghegno, salutate il voxxrho ghe», cioè “marinai del mio regno, salutate il vostro re”. Intanto il vero figlio della Madre, ora principe ereditario è giunto nel paese: è infelice e ammalato e deve riacquistare la salute. Nel corso della storia il re muore e il figlio dovrebbe tornare a casa per succedere come nuovo sovrano. La Madre, però, nel quinto atto, riesce a narrargli la situazione, il fatto che è stato rapito e che in realtà il giovane principe è suo figlio. Egli allora si sente felice e alla fine, rinunciando a tutti gli onori, decide di rimanere presso la madre ritrovata. Al suo posto, come nuovo re, invia così “Figlio di Re”, il mostro menomato cresciuto dalla Madre, dicendo: «Credete a me, non importa che sia questa o quella persona: importa la corona!». Alla fine così tutti applaudono il nuovo re menomato: «Morto il re, viva il Re!».
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Pirandello aveva già fatto cenno al suicidio del poeta a causa dellʼamore non corrisposto di Ilse il 1 giugno 1930; cfr: P.S. [Pietro Solari], Tre nuove opere di Pirandello [“Gazzetta del Popolo”, 1 giugno 1930] in Interviste, p. 447
Scalogna, in quanto solamente qui, grazie alla magia, è possibile sopperire ai personaggi mancanti e rendere la rappresentazione completa, poiché: «Fuori di qua (dalla villa, ndA) io (Cotrone, ndA) però non ho più potere di valermi in suo servizio (di Ilse, ndA) altro che dei miei compagni». Ilse rifiuta la proposta di Cotrone perché, come dice lo stesso mago: «[...] lei vuol seguitare a portarla (la
favola, ndA) in mezzo agli uomini, e sia!». A questo punto Cotrone comunica alla
Contessa che se non vuole rimanere nella villa, allora potrà rappresentare la
Favola al banchetto dei giganti. In realtà non sono fisicamente dei giganti, ma
delle persone che si sono sempre dedicate al lavoro fisico, tralasciando ogni altra cosa. Lʼopera si conclude con la discesa dei giganti: si stanno recando al paese per il matrimonio di Uma di Dòrnio e Lopardo dʼArcifa. Non si vedono questi giganti, ma si ode solamente il loro rumore 143. Di conseguenza non vi è una vera e propria
conclusione, in quanto tutti restano nella Villa, senza sapere come procederà la narrazione.
Il finale (cioè il quarto ed ultimo momento) non è stato predisposto in maniera definitiva da Pirandello anche se, grazie alle interviste rilasciate negli anni 1928-1930 e a un suo appunto autografo (sempre databile attorno agli anni Trenta), sul quale avrò modo di riflettere più avanti, è possibile venire a
143
Non vi sono molti antecedenti – considerabili come fonti – per I giganti: dʼAmico cita le novelle Lo storno e lʼangelo Centuno (1910), dalla quale è tratto il racconto della Sgricia, e Un
invito a tavola (1902), dove otto contadini giganteschi terrorizzano il loro ospite. Sempre dʼAmico
ricorda che Paolo Puppa, in Fantasmi contro giganti, ha fatto riferimento al saggio Arte e
coscienza dʼoggi (1893), dove Luigi parla di sognatori in fuga dal mondo, quindi una
prefigurazione di Cotrone e degli scalognati. Secondo dʼAmico, però, ne I giganti è presente lʼaspetto onirico e magico rintracciabile in altre opere pirandelliane: «[…] dallʼantroposofia di Paleari nel Fu Mattia Pascal agli spiriti della natura che vivono fra noi senza che i nostri sensi possono avvertirli del racconto Dal naso al cielo, fino al karma dei teosofi in Allʼuscita; a quelli del Pirandello avverso a tutto ciò che è fittizio e meccanizzato: Serafino Gubbio condannato dalla ripetizione del gesto a una condizione inautentica, Vitangelo Moscarda che rifugge lʼuniverso urbano per evadere nel flusso informe dellʼesistenza». Cfr: A. DʼAMICO, Notizia (I giganti della
conoscenza della conclusione del dramma 144
. Secondo il figlio Stefano, però, il finale sarebbe cambiato nella mente del padre quasi alla fine della sua vita: Stefano attesta questo nuovo schema ricostruendo lʼazione dellʼultimo atto basandosi, secondo quanto lui stesso ha testimoniato, su ciò che gli disse il padre; lo schema del figlio appare per la prima volta nel 1938, nel decimo volume di
Maschere Nude 145
. È interessante, di conseguenza, analizzare le due diverse versioni e approfondire la questione.
Stando allo schema di Luigi Pirandello, nel sopra ricordato appunto, nel quarto momento vi è lʼarrivo della Compagnia sulla montagna, le presentazioni tradizionali, la “vestizione” degli attori, i giganti che sbirciano dal tendone e poi appena si apre la scena «cominciano anche le interruzioni dei giganti». Manca ancora una volta il finale vero e proprio, cioè che cosa accade dopo lʼinizio della rappresentazione. Ecco, allora, che sono utili le interviste di Pirandello rilasciate tra 1928 e 1930; queste chiarificano il séguito dellʼopera, cioè lʼuccisione di Ilse e degli attori da parte dei giganti. Le interviste sono unanimi per il finale e la morte degli attori: «[...] i giganti li distruggono come fantocci» (11 settembre 1928) 146
. Il 13 ottobre 1928 Luigi precisa che pure Ilse muore per mano dei giganti: i «brutali giganti […] schiacciano e distruggono lei e i suoi compagni come giocattoli» 147
. La conclusione nei progetti di Pirandello rimane costante anche
144 Cfr: A. DʼAMICO, Notizia (I giganti della montagna), pp. 817-818. Lʼappunto di Luigi è riportato integralmente in L. PIRANDELLO, Maschere nude, IV, pp. 1038-1039
145 Lo scritto di Stefano è apparso la prima volta in: L. PIRANDELLO, Maschere nude, X, Mondadori, 1938. È riportato anche in L. PIRANDELLO, Maschere nude, IV, pp. 1046-1051, da dove cito.
146
G.C., Lazzaro e unʼaltra commedia nuova di Pirandello [“La Stampa”, 11 settembre 1928] in
Interviste, pp. 401-403.
147 L. B. [Luigi Bottazzi], Visita a Pirandello [“Corriere della Sera”, 13 ottobre 1928], in Interviste, pp. 413-415
negli anni successivi: a confermarcelo con certezza sono ancora delle interviste rilasciate da Pirandello tra 1929 e 1930 148.
Tuttavia, nella rielaborazione apportata da Stefano, vi sono i servi e i giganti non compaiono mai nella scena. Di conseguenza deve essere ipotizzato che il finale sarebbe cambiato nella mente di Pirandello nei suoi ultimi istanti di vita. Stefano sostiene che il padre gli comunicò quanto segue: «Cʼè un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto […] Per tirarvi il tendone». Poi secondo lo schema del figlio i giganti offrono ai servi la rappresentazione della Favola, come forma di festeggiamento a loro riservata in occasione delle nozze tra Uma e Lopardo. I giganti, quindi, non sarebbero dovuti mai apparire in scena. Nella rielaborazione di Stefano gli attori, stremati dal lungo viaggio verso la montagna, comprendono subito che i servi non sono abituati alle rappresentazioni serie, ma soltanto al “teatrino” con pagliacci e ballerine. Ilse però, coinvolta eccessivamente dalla situazione, è favorevole alla messa in scena della Favola: può essere un modo di sperimentare, portando lʼarte verso coloro che ne sono ignari. Il cambio degli abiti avviene dietro un telone appeso tra la facciata della scena e il “vecchio olivo saraceno”; i servi disturbano continuamente affacciandosi e spiando (scena peraltro prevista già da Luigi per i giganti). Alla fine si presenta sul palcoscenico Cromo che crea subito ilarità, ma la
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Sia a gennaio che a giugno 1929 Luigi ribadisce ancora lʼuccisione finale degli attori da parte dei giganti. Nel giugno 1930 lʼidea di Pirandello è la stessa: i giganti «schiacciano sulla tavola del festino nunziale» lʼattrice. Ancora nel mese di ottobre Luigi dichiara che: «I giganti della montagna non vogliono sentire le parole dellʼanima, intesi come sono alla terra: sʼavventano su quei disgraziati e li massacrano». Cfr: Enrico Roma, Pirandello poeta del «cine» [“Comoedia”, 15 gennaio 1929], in Interviste, pp. 418-423; Mario Corsi, Cinque nuovi drammi di Luigi Pirandello [in “Gazzetta del Popolo”, 11 giugno 1929], in Interviste, pp. 437-440; P.S. [Pietro Solari], Tre
nuove opere di Pirandello [“Gazzetta del Popolo”, 1 giugno 1930] in Interviste, pp. 447-449;
Eligio Possenti, Colloquio con Luigi Pirandello [“Corriere della Sera”, 28 ottobre 1930], in
situazione degenera: inizia un vero e proprio pandemonio. Nonostante questo Ilse entra in scena, da sola. I servi non comprendono il suo monolgo, hanno desiderio di vedere ballare e cantare; inizia così lʼira di questi bruti: Ilse muore e la stessa fine spetta anche a Diamante e Spizzi, accorsi in suo aiuto. Il maggiordomo dei giganti offre un indennizzo per ricompensa e le scuse dei suoi padroni. Alla fine il Conte accetta i soldi, con lo scopo di elevare alla moglie una tomba; lo schema predisposto da Stefano si conclude con queste parole, riferite al Conte: «sʼè a un tratto come alleggerito, come liberato da un incubo; e così è Cromo, con gli altri attori».
La differenza, quindi, tra il finale ideato da Luigi nelle interviste e quello proposto da Stefano consiste soltanto in questo: la presenza o meno dei giganti e quindi la differenza tra chi ha compiuto i brutali omicidi, ossia i giganti secondo il padre e i servi nel figlio.
Siccome ad attestare la novità (dovuta a un presunto ripensamento di Luigi) è, come detto, solamente Stefano è plausibile il dubbio se sia veramente stato il padre a volere questo cambiamento, oppure il figlio di sua iniziativa.
Le domande cui cercare di rispondere sono due: chi sono i giganti tanto presenti nelle interviste pirandelliane e perché, poi, scompaiono? È lo stesso Luigi a chiarire la cosa in unʼintervista del 13 ottobre 1928, quando afferma che i giganti sono una «satira del nostro tempo per quello che ha di eccessivo nel culto della forza fisica che rischia di brutalizzare la vita ove non sia contemperata dal culto dei valori spirituali». Il 15 gennaio 1929 egli precisa che senza essersi proposto alcuna intenzione satirica è nata una «satira del tempo». A proposito di
queste considerazioni pirandelliane sono state effettuate, da diversi critici, alcune interessanti osservazioni 149. Tra queste, ad esempio, è importante quanto afferma
Umberto Artioli, il quale parla dei giganti come gli uomini della «Zivilisation». Il critico ricorda che la pubblicazione del terzo momento del dramma e le mire coloniali di Mussolini coincidono: infatti nel 1934 appare su “Quadrante 19” lʼultima parte pubblicata dei Giganti; in questo atto si annunciano già i nomi degli sposi, cioè Uma di Dòrnio e Lopardo dʼArcifa. Artioli afferma che i nomi possono essere sì una parodia dellʼaltisonante onomastica dannunziana, ma ricorda che dietro alla nominazione degli sposi vi sono degli anagrammi: Arcifa è palesemente “Africa” e Uma di Dòrnio sta per “un dio di Roma”, precisando che così: «Tuttʼaltra parodia, ben altrimenti graffiante, potrebbe agitarsi nelle falde del testo» 150. Mussolini in questi anni, infatti, aveva ben chiare le sue mire
espansionistiche verso il continente africano (in Etiopia) e pertanto non è difficile leggere dietro ai giganti la metafora del fascismo. Pirandello non ha dato un nome chiaro a questi suoi personaggi, ma ci fa capire senza troppa difficoltà chi sono: persone dedite a lavori materiali senza alcun interesse per lʼarte.
I giganti del dramma, secondo Nicola Chiaromonte, addirittura rappresenterebbero più generalmente: «il fascismo, il comunismo, lʼamericanismo per giunta, lʼuomo moderno nella sua formidabile forza, brutalità e stupidità:
149
U. ARTIOLI, La «Favola» e lʼiperbole del gigantismo in ID., Lʼofficina segreta di Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp.107-121; C. S. NOBILI, Dalla Favola ai Giganti: lʼultimo
Pirandello, in AA.VV., Lʼultimo Pirandello (1928-1936). Verso il Convegno del 2011 sugli inediti del Fondo Torre Gherson, Atti del Convegno Latisana-Rivignano, 11 dicembre 2010, a cura di
Vincenzo Orioles, Roma, Il Calamo, 2012, p. 71.
150 È da ricordare che Luigi Pirandello non era alieno allʼuso degli anagrammi; ad esempio numerosi articoli apparsi in “Rassegna Settimanale Universale” (la rivista poi avrà come titolo “Minerva”) sono firmati Giulian Dorpelli, anagramma di Luigi Pirandello. Tra questi casi rientra lʼarticolo Le Sale Borgia (11 aprile 1897) e numerose recensioni apparse saltuariamente tra 29 novembre 1896 e 7 aprile 1901. Cfr: L. PIRANDELLO, Saggi e interventi, pp. 343-442 e p. 1557.
nemico dellʼarte» 151
. È quindi certo che dietro ai giganti vi è il fascismo e di conseguenza una critica proprio al regime. Addirittura anche la stessa Marta Abba chiarifica la questione:
Luigi Pirandello e la vita di Luigi Pirandello fu senza compromessi con i giganti di quellʼepoca, purtroppo ancora vivi adesso, imperanti nel teatro italiano, fino a distruggerlo. Distruzione materiale dei teatri: patrimonio nazionale; distruzione morale degli attori e distruzione quasi completa dei commediografi italiani 152.
Il problema politico si collega chiaramente allʼarte: Pirandello in unʼintervista del 1 giugno 1930 aveva affermato che lʼopera era «una tragedia dʼuomini che non si intendono» e il motivo dellʼincomprensione sta proprio nellʼarte; i giganti (cioè i poteri) sono «chiusi e conchiusi nella ragion pratica del vivere», mentre gli attori «sono lo spirito che agisce e costruisce oltre la materia». Il dramma nasce, quindi, dal loro scontro. Lʼarte è definitivamente sacrificata: le persone come i giganti hanno costretto, ad esempio, gli Scalognati allʼisolamento. Questi strani esseri, però, si presentano come àncora di salvezza per Ilse: Cotrone offre alla povera girovaga, incapace oramai di rappresentare la sua opera, la salvazione, la Scalogna può essere il loro nuovo palcoscenico; ma questo tentativo non viene preso in considerazione da Ilse, come si è visto. È implicito, quindi, il rifiuto di costringere lʼarte in un luogo ristretto (come invece vorrebbero i giganti e per estensione i “poteri forti”), in qualcosa per pochi che sono stati relegati in un mondo a sé stante. Pertanto, se si rifiuta il nido protettivo, ecco che vi è lo scontro acerrimo con i giganti, con il potere. Viene meno così la libertà dellʼartista. Alcuni pensano addirittura a una sovrapposizione tra la Compagnia di Ilse e la
151 N. CHIAROMONTE, Pirandello e dopo, in “Tempo presente”, vol. 12, n° 2, febbraio 1967, pp. 62-64.
152 M. ABBA, Prefazione a “I Giganti della Montagna” in “Il Dramma”, 42° anno, n. 362-363, nov.-dicembre 1966, p. 15
Compagnia di Pirandello: le due organizzazioni non hanno un loro teatro (il progetto del “Teatro dʼArte” pirandelliano fallisce) e quindi entrambi devono errare per portare al mondo la loro opera 153
. Si oppone, quindi, un mondo di fondatori – quello dei giganti – a un mondo dedito alla “creazione” (ossia Cotrone e i suoi) 154
. È possibile notare che Ilse tenta ad ogni costo di andare avanti, portare in giro la sua arte facendola entrare a contatto con la vita. Cotrone, invece, si è ritirato – solo nella villa può far vivere la sua arte. Siamo così nuovamente nellʼopposizione “arte e vita” già analizzata sia per Diana e la Tuda che per i Sei
personaggi: vi è un filo rosso, arte e vita non possono stare insieme, cʼè
unʼopposizione netta tra le due; lʼesasperata ricerca di portare lʼarte nella vita crea la morte di chi ha dato tutto per un unico scopo: lʼarte. Questo accade infatti tanto a Sirio Dossi in Diana e la Tuda, quanto a Ilse. Entrambi, infatti, hanno tralasciato tutto il resto per lʼarte. Se Sirio e Ilse possono essere speculari, allo stesso modo lo sono Nono Giuncano e Cotrone, che invece si sono ritirati.
Stefano, nel più volte citato schema in cui ricostruisce lʼazione del quarto momento, afferma che nellʼepisodio della morte e del caos finale:
Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita,