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SECONDA PARTE

III. Attorno all’universo religioso: una duplice rappresentazione di sé

III. 2 Celarsi per apparire

Qualora ci si appresti ad affrontare in modo sistematico la tematica ritrattistica a cavallo tra Quattro e Cinquecento, e quindi nel momento di massima diffusione e affermazione del genere, ci si troverà inevitabilmente spesso davanti a delle catalogazioni, chiamate a fornire risposte adeguate alle traiettorie di analisi messe in campo, nel tempo, da studiosi e scuole diverse. Le differenti prospettive d’indagine hanno infatti aperto varchi e suggerito letture e interpretazioni originali sulla base delle questioni poste di volta in volta intorno all’oggetto ritratto. Mettendo in luce – se ancore ve ne fosse bisogno – la fertilità di un tema che non ha mai smesso di suscitare interesse se interrogato da punti di vista sempre nuovi.175

Balsamo (Milano) 2009, p. 43 nota 11.

174Per la definizione di decorum, in età umanistica, si veda M. BAXANDALL, Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori della pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica, 1350-1450, Milano 1994, pp. 32-33: “Decor è quel tipo di bellezza (applicabile sia alle cose che alle persone) che deriva dal comportarsi in modo adatto e confacente a seconda delle circostanze, sia temporali che di luogo, e sia nell’agire che nel parlare; se si applica anche alle virtù allora si chiama decorum: e non consiste tanto in ciò che è giusto in sé, quanto in ciò che sembra giusto, bello e adatto alla gente e all’opinione comune”. Sul medesimo concetto, applicato alla ritrattistica e in bilico tra le indicazioni di Leon Battista Alberti e le direttive in merito al comportamento enunciate da Baldassarre Castiglione, si legga anche G. PATRIZI, La visibilità della norma: il ritratto e il cortigiano, in Il ritratto e la memoria. Materiali 3, cit., pp. 91-101.

175La bibliografia sul ritratto è, com’è noto, assai ampia. Per tale ragione invece che riportarla qui per esteso si è preferito fare dei rimandi precisi in nota – a corredo di alcuni ritratti nascosti, per segnalarne la presenza (anche con nomi diversi) all’interno di trattazioni più ampie o quando è apparso utile contestualizzare l’ambito sul quale si stava ragionando – rimandando alla bibliografia

Se a queste branche della ricerca e ai risultati cui sono pervenute si sommano, spesso intrecciandosi, le definizioni e le classificazioni esaminate in apertura ma anche i primi apporti provenienti dalle fonti in relazione alle immagini velate, ci si rende subito conto di come molteplici e varie possano essere le categorie, sulla carta tutte valide, atte a ordinare e organizzare il corpus ritrattistico nel segmento storico che va dagli inizi del Quattrocento agli albori del Barocco.

Tutte queste riflessioni si sono rivelate preziose nell’immaginare una sistemazione

alla fine del lavoro il compito di fornire gli strumenti per affrontare la tematica in età moderna. In questa sede si intende solo ricordare, anche sinteticamente, le principali direzioni prese dalla ricerca per capire se e quale posto, in tale universo, spetti al criptoritratto e quali categorie sono state approntate dagli studiosi nell’ultimo secolo per organizzare il corpus dei dipinti. Sistematizzazioni sul genere ritratto sono nate infatti in seguito a letture di natura critica in grado di ripercorrere le posizioni e le teorie messe in campo da storiografi ed eruditi del genere – dall’antichità fino ai giorni nostri – interessati soprattutto a definire le coordinate “letterarie” del fenomeno. Costoro, come detto, hanno dovuto spesso muoversi tenendo nella giusta considerazione, al contempo, manifestazioni nate dal richiamo al decorum (d’ispirazione classica) e altre frutto del fascino irresistibile dato dal desiderio di lasciare memoria di sé. Categorie che, benché affini, rivendicano una loro peculiarità sono state invece approntate da chi ha affrontato la ricerca cercando di delineare una linea di sviluppo "organica" della consuetudine, all’interno della quale rintracciare nuclei significativi succedutisi nel tempo uno accanto all’altro. Lungo i secoli, è noto, si sono studiati i ritratti anche da una prospettiva “filosofica”, che ha sovente messo l’accento sul rapporto fondamentale tra individuo e ritratto inteso in questa sede come doppio, sostituto, simulacro del soggetto; quando non, esplicitamente, ’maschera’ (diversa da quella criptica), atta a tramandare la propria effige. Al pari non sono mancate interpretazioni e ricostruzioni di natura iconografica in grado non solo di isolare specifici sottogeneri all’interno del sistema ’ritratto’, ma di istituire rimandi tra un’opera e l’altra: il tutto in virtù di innegabili tangenze che vanno dal dispiegarsi di simboli sulla tela all’immancabile teatralità allegorica del soggetto. Chi si è occupato di gestualità e linguaggio muto non ha potuto che eleggere quale focus ideale di analisi la presenza o meno delle mani, ben visibili in tanti ritratti nati in età moderna, al fine di riscoprirvi messaggi e rimandi chiari inviati dal soggetto/committente al proprio spettatore. Disamine affini, a partire da questioni inerenti la "messa in posa" del ritrattato (basti qui ricordare solo le implicazioni sottese alla resa di profilo, con tutti i rinvii colti all’antico, nel segno della medaglistica e della numismatica), si riagganciano alle conseguenze di un’opzione che ha saputo esprimersi , di volta in volta, a favore di un ritratto a figura intera, o di tre quarti, in piedi oppure seduto, quando non di uno strettissimo close up sul volto del protagonista. Anch’esse svelano molto di che cosa e come s’intenda comunicare sulla tela. Atteggiamento, gestualità adottata, ritualità della posa e, al pari, del portamento sono tutti indici che, allargando il campo, contribuiscono a definire il carattere complessivo del “ritratto” calandolo nella giusta prospettiva di una piattaforma culturale molto ben strutturata e intessuta di convenzioni, per molti aspetti, lontane dalla nostra cultura.

Talvolta si è scelto invece di inseguire sviluppi e caratteri del ritratto in grado di ambire a valenze più universali, anche solo analizzando la produzione di un singolo artista, fosse egli uno specialista del genere o un pittore a tutto tondo. A integrare il quadro si sono succedute naturalmente mostre a tema che, ripercorrendo il fenomeno da un punto di vista cronologico o geografico, hanno evidenziato le peculiarità del genere e dato vita a locali, ma non per questo meno valide, classificazioni. Una particolare attenzione ha goduto, com’è lecito attendersi, quel settore di studi che elegge il volto e le espressioni che lo connotano quale ideale specchio della personalità dell’effigiato: alla fisionomica è spettato un ruolo da protagonista e ad essa va riconosciuto il merito di aver delineato e chiarito le dinamiche insite alla nascita di un fenomeno – l’interesse per i moti dell’animo – che tanta parte ha avuto nella ritrattistica moderna. Ricerche di storia dell’arte in senso “allargato” – abili nel rievocare ampi scenari in cui si situano le opere all’interno del contesto storico-culturale in cui videro la luce e nell’evidenziare al contempo il ruolo di committenti, ispiratori e promotori del genere – hanno saputo

relativa al criptoritratto e a esse si è, giocoforza, attinto per istituire un’originale catalogazione del fenomeno. Nessuna si è tuttavia rivelata coincidente con il presente argomento di ricerca. Il travestimento criptico è infatti, per sua natura, trasversale e va a toccare molteplici aspetti della pratica ritrattistica, coinvolgendo verosimilmente tutti i soggetti e le iconografie dispiegate nel tempo. Con le ricerche precedenti si condividono quindi campi d’azione che si è tentato d’inglobare in un discorso che non più settoriale – atto cioè a sviscerare una specifica tipologia di ritratto – si presti a un discorso a largo spettro: è possibile infatti rintracciare immagini velate pressoché in ogni categoria ipotizzata dagli studi nel tempo. Accanto a motivi di sovrapposizione degli ambiti vi sono poi considerazioni che pertengono alle ragioni ultime che hanno visto la nascita del ritratto e, parallelamente, del criptoritratto. Ogni analisi non ha potuto infatti esimersi dall’interrogarsi su questioni relative alla somiglianza e alla caratterizzazione del soggetto coinvolto nel dipinto. La natura stessa del genere lo reclama da qualsiasi prospettiva – iconografica o filosofica, antropologica o critica – si intenda leggere il fenomeno.

Nello specifico articolarsi delle varie categorie pensate per il criptoritratto ci si rende subito conto di quanto la questione, che ruota proprio attorno alla somiglianza e quindi all’identificazione, sia stata declinata sempre in modo diverso. Ogni occorrenza, benché vicina e prossima a quelle con cui condivide un medesimo sottogenere, fa storia a sé proprio in virtù delle particolari circostanze che ne stanno alla base. Per la medesima ragione alcuni casi, inseriti in un reticolo di ragionamento costruito per prossimità e affinità semantiche quando non di natura altra, potrebbero agevolmente trovare posto altrove in nome di differenti, ma non meno valide, valutazioni. La fluidità e la ricchezza dell’argomento consentono e incoraggiano continui aggiustamenti del tiro e letture pressoché infinite. La ragione di ciò è semplice e coincide con la circostanza per cui ogni contesto ha saputo eleggere una maschera ideale, idonea a quel determinato

tracciare quadri, articolati e vivi, dello sviluppo e della traiettoria della consuetudine ritrattistica in età moderna. Studi sulla storia del costume, al pari di quelli dedicati alla regolamentazione del lusso tramite leggi suntuarie, hanno restituito l’orizzonte normativo di volta in volta rispettato o violato in nome della necessità di apparire e far “mostra di sé” in una determinata occasione. Dalla prospettiva del fruitore, e dello spettatore in ogni epoca, sono infine scaturite utili considerazioni per comprendere a quale pubblico ci si riferisse nel momento in cui si concepivano e poi si realizzavano tali effigi: quali fossero le aspettative, i luoghi deputati ad accogliere i ritratti, gli usi che si voleva (o ci si auspicava di) fare di un manufatto, la visibilità riservata ad ognuno di essi.

frangente storico, atta a tramandare una facies di sé ben chiara e per questo insostituibile. In una società nella quale dominavano le logiche legate a specifiche tattiche dell’apparire, suggerendo e favorendo esse stesse la produzione di immagini “convenzionali e idealizzate”, il senso profondo del farsi ritrarre – mantenendo i propri lineamenti fisionomici – in vesti altrui non sfocia paradossalmente in alcun capovolgimento. Lo sdoppiamento, che nasce nel momento in cui l’effigiato diventa attore sulla scena, non porta a nessun reale celarsi o nascondersi.176 Anzi: la maschera

diviene un formidabile alleato per amplificare e restituire profondità al proprio profilo. Ed è fenomeno di metariflessione sul genere che fa sì che la narrazione in atto sulla tela non solo funzioni alla perfezione ma ne esca innegabilmente arricchita. Un’occasione di eloquenza figurativa unica, declinata sempre in modo originale ed eclettico, che finisce per restituire non due personalità, ma una sola al tempo stesso ridondante e potenziata al massimo dal punto di vista semantico. In quanto in grado di incarnare alla perfezione oltre ai tratti (quindi ai segni esteriori) della propria biografia personale anche virtù e prerogative di chi si va a re-interpretare.

Friedrich Polleross qualifica il ritratto identificativo (ma allude alle realizzazioni criptiche) “nella sua forma ideale come rappresentazione della recezione dell’exemplum virtutis da parte della persona ritratta”.177 Se tale osservazione risulta applicabile al

fenomeno nel suo complesso, ben più pregnante, com’è logico attendersi, diventa nel momento in cui viene calata sulle immagini velate religiose. Travestirsi da santo o personaggio delle vicende sacre significava poter alludere, all’epoca, al desiderio di identificarsi con quella figura: l’effigiato in tal modo finiva per reclamare per se stesso virtù e qualità possedute in origine dal modello. Che tale pratica di accostarsi alle

176Il punto di partenza per queste riflessioni – e per certi versi guida alla comprensione del fenomeno nel suo insieme – resta il contributo di “antropologia storica” di BURKE, La rappresentazione di sé nel ritratto del Cinquecento, cit. (strettamente integrato con l’analisi presente nel saggio dedicato a Il ritratto veneziano nel Cinquecento), in cui si ragiona non solo in prospettiva “larga” sul genere, ma immaginandolo quale forma di comunicazione ideale atta a offrire di sé la miglior rappresentazione possibile. In ultima istanza, secondo lo studioso, tramite il ritratto si poteva “fare bella figura in una società d’età moderna in cui il mondo è visto come palcoscenico”: un universo sociale in cui ogni individuo era invitato a vestire una maschera, che spesso veniva a coincidere con la facciata “dipinta”. L’ulteriore maschera indossata in un ritratto nascosto rappresenta quell’elemento nuovo che, potenzialmente rivoluzionario, non ribalta le convenzioni del genere ma, paradossalmente, le rinsalda in modo del tutto inaspettato e singolare.

immagini, le quali “attraverso gli occhi vengono impresse al cuore”178al fine di favorire

una sacra imitazione, fosse diffusa fin dal Medioevo lo testimoniano alcuni passi esemplari. Il primo, rinvenibile nel vasto repertorio di fonti raccolte da Michael Baxandall, spetta a Johannes Balbus.179 Predicatore conosciuto anche come Giovanni

Balbi, o Giovanni di Genova (la sua città natale), visse nella seconda metà del XIII secolo vestendo l’abito domenicano. Solo in età avanzata entrò nell’ordine dei frati predicatori.180 Fu grammatico e teorico ma soprattutto autore del Catholicon, un grande

trattato-dizionario dato alle stampe nel 1286 la cui eco sarà lunga anche nei secoli successivi. In poche righe vi si trova riassunta, dal punto di vista della Chiesa, quella che doveva essere la funzione dei dipinti religiosi.

Item scire te volo quod triplex fuit ratio institutionis imaginum in ecclesia. Prima ad instructionem rudium, qui eis quasi quibusdam libris edoceri videntur. Secunda ut incarnationis mysterium et sanctorum exempla magis in memoria nostra essent dum quotidie oculis nostris representantur. Tertia ad excitandum devotionis affectum, qui ex visis efficacius excitatur quam ex auditis.181

La prospettiva è triplice e coinvolge l’aspetto educativo, la pratica della memoria ma soprattutto la creazione di immagini che fossero vivide al fine di risvegliare uno slancio devoto in colui che si fosse trovato di fronte a un dipinto sacro (le parole chiave dalla prospettiva figurativa sono, ovviamente, i comparativi giocati sia sugli “oculis nostri” che tramite “ex visis”).182 La vista si pone come il più recettivo dei

sensi atto a suscitare sensazioni di devozione che nascono più facilmente da qualcosa che si vede rispetto a qualcosa che si sente.183 Allo spettatore-credente

veniva chiesto, grazie un processo interiore, di rappresentarsi e visualizzare i temi

178Ivi, p. 13.

179BAXANDALL, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit., pp. 52-56.

180Si veda il profilo steso da Alessandro PRATESI nel Dizionario biografico degli italiani, V, Roma 1963, pp. 369-370.

181BAXANDALL, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit., p. 52 (Il corsivo è suo). 182Il passo, tradotto in tedesco, compare anche in POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit.,

I, p. 14.

183Così BAXANDALL, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit., p. 53, le cui osservazioni rappresentano il punto di partenza anche delle riflessioni sull’argomento di P. SANVITO, Imitatio: l’amore dell’immagine sacra. Il sentimento devoto nelle scene dell’imitazione di Cristo, Pescara 2009, in particolare pp. 13-34, 120-121.

sacri al momento della preghiera per meditare e arrivare a una comprensione più piena dei misteri della fede.184

Il teologo luterano Jakob Andrae tornerà, all’incirca due secoli dopo, sull’argomento arrivando a usare, in merito alle effigi dei santi, l’espressione di “immagini viventi”, suggerendo a tutti gli effetti pertanto un passaggio tra le due sfere di realtà, quella sacrale e quella reale, da realizzarsi verosimilmente sia nella vita di tutti i giorni così come su tela. All’interno della sua predicazione infatti i santi sono dei modelli in quanto

hanno accolto la parola di Dio con vera fede, hanno vissuto e agito secondo la sua parola e l’hanno professata con gioia e senza timore, e con fermezza e tantissima pazienza hanno sopportato e superato diversi tormenti, cosicché ci vengono presentati per la vita, la fede, la costanza e pazienza nella sofferenza, come immagini viventi per seguire le loro orme e il loro esempio.185

Da questa prospettiva, anche il rischio adombrato nelle direttive emanate dagli uomini di Chiesa veniva, se non scongiurato, minimizzato e l’imitatio pietatis aveva la meglio su una presuntuosa asserzione di meriti. L’azzardo poteva viceversa, e piuttosto ovviamente, risultare più lampante se valutato in base alla collocazione pubblica dell’opera, nel caso in cui cioè il criptoritratto trovasse posto in chiesa, all’interno, o nella forma, di una pala d’altare o di un affresco. La destinazione finale dell’opera – e quindi la fruizione da parte dello spettatore – ha influito in parte anche sulla sua forma: le realizzazioni destinate a una audience più intima e ristretta, commissionate spesso dalle stesse persone ritratte o da familiari premurosi, hanno assunto spesso il carattere di opere devozionali mettendosi al contempo al riparo da ogni genere di accusa.186

184Sul tema – con il celebre esempio tratto dal Zardin de Oration – BAXANDALL, Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento, cit., pp. 52-64. Sul ruolo delle immagini, e in particolare dei dipinti devoti, nel primo quarto del Cinquecento anche A. GENTILI, I giardini di contemplazione. Lorenzo Lotto, 1503-1512, Roma 1985, pp. 218-219.

185Ricavo il passo da POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, p. 59, in cui si precisa che la predica, contenuta in Ein Christliche Predig auff den tag S. Joannis des Tauffers, venne stampata a Francoforte nel 1577.

186Si è occupato di tale aspetto anche S. RINGBOM, Icon to narrative. The rise of the dramatic close-up in fifteenth-century devotional painting, Doornspijk (Netherlands) 1984, pp. 11-71. Malgrado la maggior parte delle immagini a corredo del testo facciano riferimento al contesto tedesco, le considerazioni sulle opere devozionali, sul taglio ravvicinato e, soprattutto, sul passaggio/rapporto tra immagini narrative e ritratti (o persino icone) risultano valide anche per il contesto criptico italiano.

Alla luce di tali considerazioni e dal punto di vista dei soggetti coinvolti (di nuovo, doppi: reali e dipinti), rivendicare per sé o quanto meno aspirare alle virtù di un santo o di uno specifico profilo sacro fu prerogativa sia di alcuni religiosi che di moltissimi laici, fossero essi di nascita aristocratica o di provenienza borghese e mercantile. Al contempo, se a prevalere sono innegabilmente i mascheramenti che coinvolgono uomini, vi sono stati casi nei quali alcune figure femminili, che hanno saputo emergere per status sociale o cultura, sono diventate protagoniste delle tele e a volte anche responsabili in prima persona della committenza. In talune occasioni, pure favorite – o penalizzate, a seconda delle circostanze – dalla scelta iconografica come nel caso delle rappresentazioni di Salomè e Giuditta. A riguardo, va registrato come le effigi della vedova di Betulia (alle quali vanno immancabilmente affiancate quelle del coraggioso David) occupino da una prospettiva meramente quantitativa un posto minore all’interno della ricerca: in età moderna il travestimento criptico investe di prevalenza i personaggi del Nuovo Testamento, forse perché percepiti più vicini, cronologicamente e spiritualmente, alle proprie esigenze di devozione.187

Al netto di una varietà su cui non si smetterà mai di richiamare l’attenzione e di innegabili e spesso misteriose ragioni di natura personale sottese a tali realizzazioni, è possibile a questo punto rinvenire, sulla scorta di quanto osservato e raccolto, dei criteri comuni alla base della decisione di vestire i panni di un determinato personaggio sacro. Inutile ribadire come tali parametri vadano considerati, a posteriori, alla stregua di utili linee guida atte a organizzare il materiale rinvenuto; a priori – per quanto si può presumere – quali spunti che mescolati sovente ad altre ragioni fornivano ai committenti o agli ispiratori iconografici un primo principio di scelta in direzione criptica. La spinta iniziale in grado di orientare, in linea con le parole dei predicatori del tempo, un’opzione decisa pare vada riscontrata in una speciale ’empatia’, che diventa analogia su tela, in nome della virtù (in generale) o di una virtù (in particolare) che si sentiva di condividere con una specifica figura sacrale di riferimento.188 I criptosanti, per esempio,

sono da questa prospettiva ben più che semplici intermediari e intercessori tra il mondo

187Il territorio italiano d’età moderna restituisce tuttavia un numero di occorrenze molto maggiore alla media (in relazione all’Antico Testamento) se considerato nella prospettiva europea in cui si muove la ricerca di POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, pp. 77-120.

188Muove dalle stesse premesse anche POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, pp. 55- 63.

umano e quello religioso – funzione già svolta da secoli nelle pale d’altare dai santi raccolti, in “sacra conversazione”, attorno alla Vergine col Bambino – ma modelli senza macchia di una vita cristiana virtuosa. Alcuni di loro, in particolare i martiri guerrieri ma