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SECONDA PARTE

III. Attorno all’universo religioso: una duplice rappresentazione di sé

III.1 Il punto di vista della Chiesa

Se fino ad ora si è evocato a più riprese, sul piano della trattatistica, l’importante prontuario elaborato a fine secolo dal Lomazzo in merito al ritratto, ai suoi sottogeneri e alle sue prerogative – sottolineando l’accento che l’autore pone soprattutto sul necessario decoro e sulle “convenienze” proprie a questo tipo di realizzazioni – va da sé che prima di addentrarsi nell’analisi di alcuni casi specifici di criptoritratto in veste religiosa, e delle relative problematiche, si impone obbligatoria una riflessione preliminare che ascolti voci provenienti anche da altri ambiti.

Se da un lato infatti, e i casi specifici lo dimostreranno, si avvertiva all’epoca una spinta decisa in direzione di un tipo di religiosità che fosse più partecipata e quindi verso un processo che aveva nell’immedesimazione nei protagonisti della storia sacra uno dei suoi fini più alti (che nella tela si traduce, giocoforza, spesso in un’immagine “nei panni di”), parallelamente non poteva sfuggire a un occhio attento, o essere ignorato, l’aspetto “subdolo”, per certi versi pericoloso, insito in tali opzioni velate. Il confine tra autentico ardore devoto e possibili scivolamenti nel campo della vanagloria, se non nella blasfemia (come nel caso di Pinturicchio),162 poteva presentarsi sottile e non sempre ben

chiaro a committenti e artisti alle prese con i ritratti nascosti. Ed è qui che interviene, in linea con il proprio ruolo e le competenze riconosciutele, una serie di voci impegnate a ricordare come, di fatto, non si dovesse osare troppo: il fine a cui si aspirava era la capacità di far convivere personale militanza religiosa e convenzioni che si ritenevano secolari, o quanto meno ben precise, in merito alle immagini che coinvolgevano la storia sacra.

Si tratta di autori autorevoli, a diverso titolo membri della Chiesa di Roma, e di testi molto noti al tempo i quali, coprendo un segmento temporale che va dalla fine del Quattrocento alla metà del Seicento, testimoniano di come non si sia mai smesso di

tentare di legiferare sul tema ad arginare possibili deragliamenti. Lo si è fatto in maniera apparentemente costante attraversando un secolo fitto di snodi religiosi cruciali – quali la riforma luterana, la diffusione delle eresie, il Concilio di Trento, le mai sopite istanze di rinnovamento interne alla Chiesa – indice di come la spinta a calarsi nelle vesti di un santo o di un personaggio sacro cui si era particolarmente devoti non venne, con gradi e intensità diverse, mai meno. Conviene partire leggendo di seguito, uno dopo l’altro, tali interventi solo in apparenza chiari, efficaci e compatti per comprendere come viceversa la consuetudine, e di conseguenza la pratica, si muovessero sovente in direzione opposta.

Apre la serie uno dei grandi protagonisti della scena religiosa a cavallo tra la fine del XV secolo e l’inizio del successivo, ma la cui predicazione godette di un riverbero lunghissimo, anche dopo la morte. È il 1496 e Girolamo Savonarola, all’interno di una delle sue Prediche sopra Amos e Zaccaria, così si scaglia contro quello che ai suoi occhi aveva tutti i caratteri di un ennesimo e rovinoso fenomeno artistico.

Voi fate dipingere le figure nelle chiese alla similitudine di quella donna o di quell’altra, il che è molto male fatto e in grande dispregio delle cose di Dio […] Che voi sapessi lo scandalo che ne segue, et quello che so io, voi non le dipingeresti. Voi mettete tutte le vanità nelle chiese. Credete voi che la Vergine Maria andasse vestita a questo modo come voi la dipingete? Io vi dico che ella andava vestita come poverella, semplicemente, et coperta che appena se gli vedeva il viso: così sancta Elisabetta andava vestita semplicemente. Voi fareste un gran bene a scancellare queste figure che sono dipinte così disoneste. Voi fate parere la Vergine Maria vestita come meretrice. Or sì che il culto di Dio è guasto. […] Questi sono gli idoli vostri, I quali havete messo nel mio tempio. L’imagine de’ vostri dei sono le imagini et similitudini delle figure che voi fate dipingere nelle chiese; et gli giovani poi vanno dicendo ad questa et quella: costei è la Magdalena; quell’altra è sancto Giovanni.163

Il tono, come sempre, è acceso e individua come bersagli ideali lo sfarzo e la vanità che derivano dall’inserire figure “disoneste” – in quanto ri-conoscibili perché tratte dal vero – di individui reali chiamati a impersonare i protagonisti dei racconti sacri. I soggetti

163G. SAVONAROLA, Prediche sopra Amos e Zaccaria, a cura di P. Ghiglieri, 3 voll., II, Roma 1971, pp. 25-26.

riprovevoli agli occhi del ferrarese non sono solo quelli che coinvolgono i santi, ma la prassi di compromettere pure l’effige della Vergine nel momento in cui si aveva l’ardire di presentarla “vestita come meretrice”. L’attacco, proprio in virtù di questa insistenza sulla ricchezza delle vesti messe in mostra, non può paradossalmente dal punto di vista del presente studio configurarsi come un semplice rimprovero alla pratica di servirsi di modelli.

All’apparenza tutto tace per quasi un secolo fino a quando, nel 1577, ad alzarsi è la voce di san Carlo Borromeo, cardinale e grande promotore della riforma cattolica, nonché campione del Concilio di Trento.164

In illis autem sicut sancti, cuius imago exprimenda est, similitudo, quoad eius fieri potest, referenda est, ita cautio sit, ut ne alterius hominis viventis vel mortui effiges de industria rapraesentetur.165

Il cortocircuito con quanto realizzato ottant’anni prima da Raffaello su commissione papale, proprio sulle pareti vaticane, è tanto reale quanto lampante.

Gli fa eco, solo alcuni anni dopo, la stessa Curia Papale nel medesimo sforzo di guidare o quanto meno orientare, chiamando in causa proprio il principio di somiglianza, le rappresentazioni dei santi.

La rappresentazione di un Santo deve assomigliare all’immagine originale – se è possibile – ma non deve avere somiglianze con i tratti di un’altra persona morta o viva.166

Ben più articolato l’affondo di Gabriele Paleotti, anch’egli cardinale e parimenti figura

164Sulla sua figura poliedrica si veda G. SOLDI RONDININI, Carlo e Federico Borromeo: due cardinali principi nella Lombardia spagnola, in Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, Catalogo della mostra (Milano, Museo Diocesano 2005), a cura di P. Biscottini, Milano 2005, pp. 33-66.

165“Inoltre, per quanto nella rappresentazione di un santo si debba ricercare, si avrà cura di non riprodurre abella posta l’effige di un altro uomo vivente o morto.” Il passo è parte del cap. XVII (De sacris imaginibus picturisve) delle Instructiones fabricae ecclesiasticae uscite a Milano nel 1577; lo si può leggere in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, 3 voll., III, Bari 1962, pp. 42-43. La fortuna e l’autorità del testo all’epoca lo fecero diventare quasi “il Codice della Chiesa per l’arte sacra” (ivi, p. 404).

166Leggo il passo, che traduco dal tedesco, in POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, p. 17.

chiave della Controriforma. Lo stende all’interno del Discorso sopra le immagini sacre e profane, in un capitolo espressamente dedicato ai ritratti dei santi. Dopo la clausola sulla necessità di optare per figure la cui santità fosse universalmente riconosciuta, annota quanto segue.

Di poi, che siano ritratti con l’effige propria, se si può sapere, o verisimile, o almeno con quella che dai buoni et intelligenti suole essere figurata e che porta seco probabile apparenza che così fosse. Ma in nessun modo mai siano ritratti con faccie de particolari e di persone mondane e dagli altri conosciute; perché, oltre l’essere cosa vana et indignissima, verrebbe a rassomigliare un re posto nel trono della sua maestà con la maschera al viso d’un cerettano o d’altra persona ignobile e conosciuta dal volgo per privatissima, tal che chi la riguardasse, subito si movesse a riso, oltre molt’altre inconvenienze.167

Non può che stupire l’uso del termine “maschera”, qui usato quale deterrente, al fine di evitare di cadere nella realizzazione di immagini ridicole o causa di “molt’altre inconvenienze”.

Si appella invece all’antichità, onde scongiurare vendette criptiche su tela (che, come si vedrà, non erano insolite all’epoca), il cugino di Carlo Borromeo, quel Federico che fu arcivescovo di Milano a partire dal 1595. Il testo in questione risale al 1624, e trova posto nel De Pictura sacra.

Mentre lodiamo e raccomandiamo l’usanza e la premura di ritrarre le fisionomie dei vivi, non possiamo poi non rimproverare quegli artisti che scelsero persone di fama perduta per appioppare i volti e gli aspetti loro alle immagini dei Santi, e ciò fanno così squisitamente che tosto vengono riconosciuti. Ricordando in altro campo una simile profanazione degli artisti, Plinio narra che vi fu un pittore che ritraeva i corpi delle sue 167BAROCCHI, Scritti d’arte del Cinquecento, cit., III, 1977, p. 2735, il testo risale al 1582 e al suo

interno si affronta il tema del ritratto nei cap. XIX-XXIII (il cap. XXIII, nello specifico, si occupa Dei ritratti de’ santi). Sul clima controriformistico che si respirava all’epoca, con un focus proprio nella bologna del Paleotti, si leggano H. JEDIN, Il significato del periodo bolognese per le decisioni dogmatiche e l’opera di riforma del Concilio di Trento, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Atti del convegno (Bologna, 2-6 settembre 1958), a cura di M. Maccarrone, G.G. Meersseman, E. Passerin d’Entrèves e P. Sambin, Padova 1960, pp. 1-16, e P. PRODI, Lineamenti dell’organizzazione diocesana in Bologna durante l’episcopato del card. G. Paleotti (1566-1597), ivi, pp. 323-394.

donne sotto figure di Dee. E non mancheranno neppure di quelli che vorranno sfogare le proprie ire e i propri rancori prendendo occasione di cose sacre: è nota la malignità di un celebre artista che, dipingendo Giuda il traditore, lo rappresentò simile ad un suo nemico. Un altro ancora rappresentò un demonio col volto e con l’aspetto di uno che gli era molesto. Io esorto quindi caldamente gli artisti a non effigiare alcuno al vivo se non di fama costumata ed onesta, e a far in modo che non siano maledetti per il loro pennello, non tocchino cioè loro i biasimi e i danni che sogliono guadagnarsi le penne velenose degli scrittori.168

L’uso di condannare la contaminazione delle pitture sacre con l’innesto di tratti profani torna anche nelle ultime due occorrenze, che si devono entrambe al gesuita Gian Domenico Ottonelli.169

La prima, di carattere più generico, trova posto nel Trattato della pittura e scultura. Uso e abuso loro, uscito nel 1652.

So, che’l prudente Lettore intende, che io qui voglio significare, che il soggetto rappresentato sia di cosa sacra: e che poi le sue accompagnature possono essere di persona, o cosa profana; purché il tutto, e ciascuna parte corrisponda con bella convenienza al sacro decoro. Ma quelli, che fanno dipingere se stessi ne’ Quadri delle Chiese, possono avvisarsi, che si guardino di non seguitare l’allettamento della vanagloria, o di non havere un’animo alieno dalla Pietà, e dalla Religione.170

Lo scontro, che ha per campo di battaglia la superficie della tela, è tra il “sacro decoro” e la temuta “vanagloria”.

È tuttavia in un passaggio di una lettera inviata nello stesso anno proprio a un prolifico realizzatore di immagini di santi e sante come Guido Reni, che il religioso sembra

168T. MONTANARI, L’età barocca. Le fonti per la storia dell’arte (1600-1750), Roma 2013, pp. 222- 223, cui si rimanda anche per un inquadramento generale sulla problematica ritrattistica nel Seicento dal punto di vista delle fonti (pp. 47, 217-226). Su Federico Borromeo e il suo rapporto con le arti si legga invece F. BUZZI, Federico Borromeo uomo di cultura, vescovo e principe mecenate, in Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano spagnola, cit., pp. 81-90.

169 Sui rapporti e i debiti tra l’Ottonelli e il Paleotti, si leggano le considerazioni nei Trattati d’arte del Cinquecento, cit., II, 1961, pp. 666-667.

170G.D. OTTONELLI-P. BERRETTINI, Trattato della pittura e scultura. Uso et abuso loro (1652), a cura di V. Casale, Treviso 1973, p. 360, cui si rimanda anche per un inquadramento generale sull’autore e lo spirito dell’opera (cfr. pp. XV-CXLI).

individuare il nodo centrale della questione, inserendosi a pieno titolo nella breve rassegna qui riunita.

Non meno riprovevole è l’utilizzo dei tratti di donne amate nelle immagini di Sante; già l’utilizzo di certi modelli maschili o modelli per la rappresentazione di personaggi santi è pericoloso; la cosa migliore è attenersi alla realtà e utilizzare gli esistenti ritratti autentici dei Santi come modelli.171

Se il bersaglio di tali ammonizioni, o quanto meno accorate raccomandazioni, sono in primo luogo le figure dei santi, non sfuggirà come il timore si allargasse anche a profili religiosi ben più impegnativi e “delicati”. E che tale paura fosse fondata lo testimoniano il numero di casi e la grande diffusione in genere di cui godettero nel Cinquecento le immagini velate. Un fenomeno che, se registrato solo dal punto di vista delle voci contrarie, si sviluppò lungo tutto il territorio nazionale, qui esemplificato da alcuni dei suoi centri principali (oltre a Roma anche Firenze, Bologna e Milano). Per certi versi sembra di assistere, con modalità ovviamente diverse, alla mole di provvedimenti emanati dalla Serenissima, sotto forma di “Leggi suntuarie”, contro l’espansione sfrenata del lusso: anche in quel frangente il numero di interventi rifletteva, meglio di ogni altro dato, il polso reale della situazione e se ne rendeva, suo malgrado, testimonianza attendibile.172

Sarebbe sbagliato considerare tali esortazioni alla stregua di imposizioni dogmatiche. Al contempo – se l’accento cade molto spesso su una condanna dello sfarzo (e quindi soprattutto dell’abbigliamento) o di immagini poco consone che coinvolgono individui precisi del tutto sprovvisti della statura morale per impersonare le sacrae personae – tali moniti, proprio per la loro insistenza sulle possibili conseguenze, non sono generici. Malgrado non le si citi mai espressamente, essi toccano molto da vicino, con tutte le cautele del caso, anche le immagini “in veste di”.173

171Leggo di nuovo il passo della lettera in POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, p. 17. 172Una riflessione su quello che fu realmente il peso dell’intervento della Controriforma e la sua

incidenza sulla produzione artistica dopo il 1563 – anno dell’approvazione del Decreto che riguardava da vicino le “immagini di culto” – si può leggere in ZERI, Pittura e controriforma. L’«arte senza tempo» di Scipione da Gaeta, cit., pp. 19-22.

173Di diversa opinione, proprio a commento del passo del Savonarola, è F. FRANGI, Come “li pastori semplici et puri”. Ritratti nascosti nell’Adorazione di Lorenzo Lotto, in Lorenzo Lotto. La Natività, Catalogo della mostra (Milano, Museo Diocesano, 2009-2010), a cura di P. Biscottini, Cinisello

L’episodio più eclatante, e forse noto in virtù del suo essere tanto contraddittorio, è di certo il passo di Savonarola. Il ferrarese, infatti, se da un lato pare condannare con vigore tale genere ritrattistico, ne fu egli stesso, e in più occasioni, protagonista sia in veste di oggetto vero e proprio della tela che, non meno significativo, di ispiratore diretto di una serie cospicua di opere nate sulla scorta delle sue predicazioni. Anche in questo frangente, e alla luce della delicatezza e dell’estrema varietà insita all’argomento, si potrebbe ipotizzare che, ad altezze cronologiche diverse e in risposta ai tumulti religiosi che scossero il secolo, si sia cercato da più versanti di raggiungere un equilibrio. Più che di deroghe, pertanto, sarebbe forse corretto parlare di compromessi, in grado di convogliare su tela sincere spinte devozionali e norme proprie al decorum, guardandosi al contempo dal rischio di cadere nel peccato di vanagloria.174