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SECONDA PARTE

III. 3.5 “Guardala, guardala, scioglie i capelli ”

III.4 Ritratti in disguise con Sacra Famiglia

III.4.1 Discretamente Nicodemo

Un ruolo di primo piano all’interno dell’universo del “criptoritratto” non poteva non essere ricoperto da Nicodemo, il discepolo nascosto per antonomasia. A lui può essere ricondotta la formula, delineata in apertura, che invita all’immedesimazione in seno a composizioni in cui la carica emozionale investe immancabilmente l’opera di rimandi personalissimi, soprattutto quando è il pittore stesso a vestirne i panni. Se la cifra distintiva dei ritratti mascherati appena presi in considerazione era la vicinanza

478G. MORIANI, Le fastose Cene di Paolo Veronese nella Venezia del Cinquecento, Crocetta del Montello (TV) 2014, pp. 110-113.

479Per contestualizzare la tematica della tela, alla luce della spiritualità del tempo e del contesto in cui venne alla luce, si rinvia a MARIANI CANOVA-SPIAZZI, Il tema di Emmaus nella pittura veneziana e veneta, in Incontrarsi a Emmaus, cit., pp. 117-143.

significativa e partecipe di colui che si mostrava velato a uno dei membri della Sacra Famiglia, con Nicodemo si va oltre, perché egli, al pari del san Gerolamo-Tiziano della Pietà delle Gallerie dell’Accademia, entra in contatto diretto con il corpo di Cristo. Lo fa con un compito tutt’altro che secondario: sorreggere la spoglia terrena ormai priva di vita del Salvatore calandosi in una parte da protagonista sia negli episodi che mettono in scena un momento di riflessione personale sulla condizione dell’uomo (come accade in scultura) che nel frangente del pietoso seppellimento del cadavere nella tomba. E si presta, e si presenta, all’apparenza come l’unica figura in grado di svolgere tale “mansione” in un contesto in cui solitamente dominano le lacrime e la commozione (della Vergine, di Maria Maddalena e del giovane Giovanni).480

Va precisato subito come il suo profilo si confonda e si mescoli talvolta con quello del suo aiutante, Giuseppe d’Arimatea, giudeo benestante vicino a Cristo durante tutta la sua esistenza il quale, dopo la crocifissione, si recò personalmente da Pilato per poter dare degna sepoltura al corpo.481 È lui che, assieme a Nicodemo, si occupò di avvolgere

nelle bende il corpo servendosi anche degli unguenti portati dal compagno. Tra i due, dal punto di vista dell’immedesimazione sacra, vi è tuttavia un notevole scarto. Al fariseo, che di giorno si piegava al culto profano per scappare di notte al cospetto di Cristo e delle sue parole, va riconosciuto un ruolo ben più significativo nelle immagini “in veste di”. Alla sua figura si è soliti ricondurre tutti quegli atteggiamenti, esecrabili, di dissimulazione in virtù dei quali si rinunciava a professare pubblicamente la propria fede religiosa.482 Se tale condotta poteva giustamente definirsi più pavida che prudente –

nel momento in cui permetteva di sfuggire alla condanna e magari pure al martirio – al contempo, in un’epoca di disciplinamento delle coscienze e ferreo controllo del

480Per le tipologie e i significati assunti dall’episodio della Deposizione si veda BELTING, L’arte e il suo pubblico. Funzione e forme delle antiche immagini della passione, cit., pp. 177- 191.

481Sulla figura ricorrente di Giuseppe d’Arimatea, all’interno delle scene della Deposizione, si legga ancora SANVITO, Imitatio: l’amore dell’immagine sacra. Il sentimento devoto nelle scene dell’imitazione di Cristo, cit., pp. 198-199.

482Carlo Ginzburg definisce il fenomeno “la dottrina della liceità religiosa” e ne suddivide i rappresentanti in tre categorie precise: gli opportunisti, i mediatori e i neutrali. Lo studioso opera una distinzione successiva tra nicodemiti veri e propri e “criptoriformati”: questi ultimi si riconoscevano in particolare in virtù di una pratica che non era solo paura del martirio ma che aveva saputo articolarsi e precisarsi in una presa di posizione religiosa chiara, insofferente alle chiese ufficiali, distaccata da ogni manifestazione di esteriorità e orientata a una fede più autentica; cfr. C. GINZBURG, Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell’Europa del ’500, Torino 1970, pp. 182-205.

contegno morale, si presentava come l’unica in grado di garantire una certa libertà personale anche al cospetto della religione. Dall’altro lato, questa scelta si pagava spesso con l’isolamento, la solitudine e con l’inquietudine, frutto di una crisi che non era solo individuale. In Nicodemo si delinea pertanto l’essenza di un uomo combattuto che sceglie comunque, sebbene solo in extremis, di mostrarsi: l’immedesimazione nei suoi panni comportava, giocoforza, una presa di posizione più impegnativa rispetto all’invito all’imitazione profilata nelle occorrenze viste in apertura di capitolo.483

Conviene prendere le mosse da alcuni casi in cui in tale mascheramento non appare coinvolto direttamente l’artista, e il ruolo da comprimario d’eccellenza che si va a re- interpretare è, all’apparenza, quello di Giuseppe d’Arimatea. Tra il 1546 e il 1548 Paolo Veronese realizzò per il convento dei Gerolamini della sua città natale la tela con la Deposizione di Cristo, ora al Museo di Castelvecchio (fig. 90).484 Attorno al corpo

esangue del Salvatore – che si sovrappone emblematicamente alla diagonale sinistra del dipinto – si assiepano una serie di figure caratterizzate da atteggiamenti mesti e disperati. Una, in particolare, alle spalle di colui che è incaricato di sorreggere il corpo (quindi verosimilmente Nicodemo) è non solo particolarmente espressiva ma all’evidenza un ritratto. Un uomo anziano, con le braccia aperte, la folta barba bianca, e nello sguardo una compita desolazione del tutto consona al momento. La collocazione sull’estrema sinistra non permette di cogliere la fattura dell’abito, di cui s’intravede solo una macchia marrone (forse parte d’una tunica). È stato suggerito che tale profilo, estremamente caratterizzato, coincida con quello di Lorenzo Busti, priore del convento di Santa Maria della Vittoria Nuova all’epoca della realizzazione della tela (più precisamente in carica dal 1542 al 1548), ma soprattutto responsabile, in sinergia con Bernardo Torlioni, del ben più prestigioso complesso di San Sebastiano, non solo sede veneziana dell’ordine ma palcoscenico per la grandiosa decorazione dispiegatavi di lì a

483È interessante sottolineare come, in relazione al contesto italiano, Polleross citi quasi esclusivamente esempi tratti da gruppi di “compianto” in terracotta, o “sacre rappresentazioni” a essi affini: cfr. Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, pp. 228-233.

484Accanto a PIGNATTI-PEDROCCO, Veronese, cit., I, pp. 44-45, n. 9, si leggano anche la scheda di Alessandra ZAMPERINI in Paolo Veronese. L’illusione della realtà, cit., p. 46, n. 1.5, e quella curata da Paola MARINI in Museo di Castelvecchio. Catalogo generale dei dipinti e delle miniature delle collezioni civiche veronesi. II. Dalla metà del XVI alla metà del XVII secolo, cit., pp. 138-139, n. 141. L’opera non trova posto nell’articolato contributo di S. MASON, La “presenza” dei committenti nei dipinti di Paolo Veronese, cit., pp. 153-163, al quale tuttavia si rimanda per la presenza di altri possibili criptoritratti rinvenibili all’interno del catalogo del pittore.

qualche anno da Paolo.485 L’abate potrebbe quindi essersi ritagliato un posto in una pala

che rispecchiava in pieno le indicazioni dell’epoca sul corretto atteggiamento da tenere di fronte agli episodi salienti dalle Sacre Scritture (ri-vissute, in questo caso, da accorato protagonista in una tela “che combina una Pietà con una Deposizione nel sepolcro”)486.

Al contempo le idee, che si suppongono condivise tra committente e pittore, collimavano in pieno con le posizioni teorico-religiose del vescovo Giberti, in quel frangente guida spirituale della città, ad auspicare anche iconograficamente un ritorno, con un accento deciso, proprio alla figura del Cristo.

All’incirca una ventina d’anni prima, mentre si trovava in laguna, Giovan Gerolamo Savoldo si impegnava ufficialmente col priore del convento domenicano di Pesaro per la realizzazione di una grande pala da collocarsi nell’altar maggiore della chiesa di San Domenico nella stessa città marchigiana. L’opera, dall’inizio dell’Ottocento a Brera, è l’imponente Madonna col Bambino in gloria e i santi Pietro, Domenico, Paolo e Gerolamo (conosciuta anche come Pala di san Domenico di Pesaro) che viene datata, proprio sulla base della testimonianza scritta risalente al 15 giugno 1524, intorno al 1525-1526.487 Il contratto diceva tuttavia di più: il pittore avrebbe dovuto realizzare al

contempo pure “una pietà de Nostro Signore Yhesu Cristo” da collocarsi “sopra il cornisone” e altri pannelli a completare una predella e integrare così il quadro di devozione domenicana che doveva spirare dalla realizzazione nel suo complesso.488 La

critica, per ragioni cronologiche e stilistiche, è sostanzialmente concorde nell’identificare tale cimasa con la tela oggi al Cleveland Museum of Art che

485“Giuseppe d’Arimatea che indica il calvario in lontananza, è senza dubbio un ritratto del priore dei Gerolomini di S. Maria della Vittoria a Verona: il committente che affidò al Veronese l’incarico di dipingere per la sua chiesa questa tela.” Così W.R. REARICK nella scheda in Paolo Veronese. Disegni e dipinti, Catalogo della mostra (Venezia, Fondazione Giorgio Cini,1988), Vicenza 1988, pp. 92-93, n. 51. Nella scheda di M. REPETTO CONTALDO (in Veronese e Verona, cit., pp. 184-185, n. 2) si puntualizza invece che all’epoca il Busti era troppo giovane per calarsi nel profilo di Giuseppe d’Arimatea.

486MARINI in Museo di Castelvecchio. Catalogo generale dei dipinti e delle miniature delle collezioni civiche veronesi, cit., p. 138.

487Discute la pala Giuliana PASQUINI in Lorenzo Lotto nelle Marche. Il suo tempo, il suo influsso, cit., pp. 227-228. Va segnalato come all’opera sia stato negli ultimi anni dedicato un volume specifico (Brera. Giovan Gerolamo Savoldo. La pala di Pesaro, a cura di M. Olivari, Milano 2008) dalla Pinacoteca di Brera.

488Sulla possibile cimasa si veda la scheda curata da N. COE WIXOM in The Cleveland Museum of Art. Catalogue of paintings. 3. European paintings of the 16th, 17th, and 18th century, Cleveland 1982, pp.

411-413, n. 180, e più in sintesi anche FRANGI, Savoldo. Catalogo completo dei dipinti, cit., p. 62, n. 14.

rappresenta, come da indicazioni iconografiche precise contenute nell’atto, l’immagine di un Cristo morto sorretto da una figura maschile (fig. 91). Più problematica, invece, si presenta la corretta lettura dell’uomo che, in linea con quanto osservato in merito alla possibile contaminazione tra le due figure storiche, viene riconosciuto talvolta in Giuseppe d’Arimatea e in altre occasioni come Nicodemo. Se gli abiti eleganti – in particolare la vistosa pelliccia che cade dalle spalle – depongono in favore del ricco giudeo, l’atmosfera intima e “patetica” dell’opera lascia supporre che possa in realtà trattarsi proprio del discepolo nascosto.489 Impegnato qui a sorreggere con fermezza, ma

al contempo umanissima empatia (denunciata dal contatto/non contatto tra le mani dell’uomo, il sudario e la pelle del Cristo), la spoglia priva di vita del Salvatore già adagiato sulla pietra sepolcrale. La tela, che per ovvie ragioni ha un formato oblungo, si sviluppa infatti lungo due precise direttrici tra loro ortogonali: il cadavere di Cristo (in particolare le gambe) è incaricato di tracciare quella orizzontale mentre il binomio tra i busti di entrambi i protagonisti ne delinea lo sviluppo in altezza. Le figure monumentali si stagliano contro un cielo azzurro solcato da molte nubi e non c’è spazio per altro. Il close up conferisce all’immagine le stigmate di un’icona, in cui condensare tutto l’afflato religioso. Proprio tale vicinanza tra i volti ha permesso di scorgere un’indubbia distanza, che si fa antitesi stilistica, tra la resa esanime, ma ideale, del viso del Cristo e quella desolata, eppure viva e pulsante, del suo soccorritore.490 Un volto quest’ultimo

dalle guance scavate e la fronte stempiata, in egual misura terreno, stanco e addolorato. Come suggerito da Pope-Hennessy, verosimilmente “a single portrait” inserito, per la prima volta, in una composizione che si era soliti riconoscere come decisamente più affollata.491

489Così viene letto in The Cleveland Museum of Art. Catalogue of paintings. 3. European paintings of the 16th, 17th, and 18th century, cit., p. 411. Si era espresso a favore del nome di Nicodemo anche

POPE-HENNESSY, The portrait in the Renaissance, cit., pp. 296-297.

490“Non può esserci dubbio che lo splendido Giuseppe d’Arimatea che regge il corpo di Cristo sia un ritratto, e che del personaggio venga data una lettura di spessore concreto, acuta e insieme estremamente analitica.”, cfr. M. OLIVARI, “Vnam chinam pingendam ad altare maius ecclesie Sancti Dominici”: la pala di Pesaro di Savoldo attraverso il contratto, in Brera. Giovan Gerolamo Savoldo. La pala di Pesaro, cit., pp. 10- 39: 18.

491POPE-HENNESSY, The portrait in the Renaissance, cit., p. 297, in cui si sottolinea la precocità di una soluzione a sole due figure. L’autore dedica pagine piuttosto ispirate ai ritratti nascosti che hanno come co-protagonisti Giuseppe d’Arimatea e, soprattutto, Nicodemo (citando molti dei casi di cui si tratterà a breve che coinvolgono Tiziano, Michelangelo e Baccio Bandinelli). È interessante segnalare in questa sede il parallelo che istituisce tra occorrenze “nazionali” e alcune realizzazioni tedesche e fiamminghe coeve, a ribadire una volta di più come lo scambio tra Nord e Sud sia avvenuto anche sul

L’ipotesi di un’identificazione nei panni del discepolo nascosto (così come in quella, parallela, di Giuseppe d’Arimatea) appare ben più fondata di una semplice attualizzazione, tramite vesti cinquecentesche, dell’episodio sacro, soprattutto alla luce degli indiscutibili rimandi al personaggio che si andava a re-interpretare su tela. Non è dato sapere chi possa aver prestato i tratti del proprio volto per l’occasione, forse lo stesso Innocenzo (de’ Bacchi) da Pesaro, priore all’epoca e in contatto diretto con il pittore, o qualcuno dei confratelli impegnati attivamente nell’ideazione e realizzazione dell’opera.492 Che si inserisce, non a caso, in un contesto di committenza domenicana

che richiama in campo da più prospettive l’esperienza artistica e religiosa di Lorenzo Lotto.493 Prima fra tutti la circostanza per cui il pittore aveva anch’egli realizzato tra il

1506 e il 1508 un grande polittico per la chiesa, dello stesso ordine, di Recanati che doveva in origine essere coronato, nella parte superiore, da una Pietà.494 Come si è visto

la componente domenicana svolse un ruolo importante nella produzione di Lotto e, dal punto di vista della presente ricerca, si palesa alla base di ben due immagini “in veste di” che, sebbene si datino più tardi, coinvolgono in prima persona proprio esponenti di quell’ordine. Se a tali osservazioni si somma una consuetudine ritrattistica, di natura criptica, già riscontrabile in più circostanze nel catalogo di Savoldo non stupisce rilevarla anche in questo frangente in cui istanze provenienti verosimilmente dai committenti hanno trovato nel pittore una figura sensibile e preparata per dar vita a un’immagine velata tanto sentitamente umana.

Il palcoscenico torna a farsi affollato invece nella Deposizione realizzata, tra il 1602 e il 1604, da Caravaggio per la chiesa di Santa Maria in Vallicella e ora conservata presso la Pinacoteca Vaticana (fig. 92).495 Attorno al corpo senza vita di Cristo si assiepano cinque

terreno del criptoritratto, cfr. ivi, pp. 289-300.

492Sui rapporti tra il pittore e alcuni esponenti dell’ordine si veda FRANGI, Savoldo. Catalogo completo dei dipinti, cit., 62. Per un riassunto delle diverse ipotesi avanzate per un’identificazione dell’uomo si legga OLIVARI, “Vnam chinam pingendam ad altare maius ecclesie Sancti Dominici”: la pala di Pesaro di Savoldo attraverso il contratto, cit., pp. 18-20. In merito alla consuetudine, intenzionalmente ’empatica’, di inserire una Pietà a coronamento di una pala d’altare (dimostrata tramite alcuni confronti con casi coevi alla tela di Savoldo) invece The Cleveland Museum of Art. Catalogue of paintings. 3. European paintings of the 16th, 17th, and 18th century, cit., 413. Vi aveva già

riconosciuto sullo sfondo la città di Pesaro PASQUINI in Lorenzo Lotto nelle Marche. Il suo tempo, il suo influsso, cit., p. 227, a rinsaldare il rapporto con la città e la committenza domenicana (di cui fa fede anche la presenza sulla tela proprio di san Domenico).

493Infra, pp. 103-109.

494Per il polittico, e la sua malinconica cimasa, si rinvia a HUMFREY, Lorenzo Lotto, cit., pp. 27-30. 495CALVESI, Le realtà di Caravaggio, cit., pp. 312-318, in cui si anticipa la realizzazione, sulla base di

figure: tre donne (tra cui l’espressiva Maria di Cheofa che alza le braccia al cielo ricalcando la posa sulla croce) e due uomini, un giovane e addolorato san Giovanni, chino sul corpo del Maestro, e un più anziano e pragmatico Nicodemo.496 Proprio tale

figura, avvolta solamente in un saio marrone e resa in una posa “angolare” dettata dal compito pratico di sorreggere il cadavere, ha attirato in più di un’occasione l’attenzione della critica. In quel volto quasi ’rustico’, stempiato, barbuto e solcato dalle rughe, a denunciare fatica (la bocca è socchiusa), l’unico che si volge verso lo spettatore, è stato intravisto un chiaro intento indagatore di natura fisionomica, assente o meno accentuato negli altri protagonisti di contorno.497 Anche in questo caso si è pensato che tali

lineamenti nascondano quelli reali del primo committente del dipinto, Piero Vittrice, scomparso all’inizio del Seicento. Il nipote Girolamo si sarebbe infatti occupato della conclusione dei lavori e della conseguente dedicazione della tela alla sua memoria: da questa prospettiva potrebbe essergli stato assegnato un ruolo da protagonista nell’episodio narrato in veste, per l’appunto, niente meno che di custode del Corpus Christi. Tale suggestiva ipotesi non collima in pieno con gli anni in cui si colloca la realizzazione del dipinto e con quanto è dato ricostruire in merito alla religiosità di Girolamo.498

Sulla scorta di alcune osservazioni iconografiche e stilistiche, un’altra parte della critica è invece propensa a chiamare in causa un diverso nome, ben più noto, convocato non a caso a vestire i panni di Nicodemo. La pala d’altare è una delle poche opere di Caravaggio che godette di un plauso quasi unanime da parte della letteratura artistica coeva e pure biografi come Baglione e Bellori, solitamente molto critici, si espressero positivamente a riguardo.499 Secondo Mina Gregori tale favore si deve, innanzitutto,

una diversa lettura delle fonti documentarie, al 1600-1601. 496VODRET, Caravaggio. L’opera completa, cit., pp. 114-118.

497Che il volto in questione fosse destinato a non passare inosservato lo testimonia l’osservazione mossa da B. BERENSON, Caravaggio. Delle sue incongruenze e della sua fama, cit., p. 31: “ La Deposizione vaticana, che ai miei tempi era considerata, col San Gerolamo di Domenichino, uno dei massimi capolavori dell’arte pittorica, è a mio vedere leggermente deturpata dalla testa di Nicodemo, sproporzionatamente grossa, e tanto più sgradevole in quanto sta in evidenza proprio al centro della scena.”

498CALVESI, Le realtà di Caravaggio, cit., pp. 317-318.

499Cfr. BAGLIONE, Le vite de’ pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, cit., p. 130, e BELLORI, Le Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, cit., p. 221 (“Ben tra le migliori opere che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritamente in istima”). Sulla fortuna della tela, già in epoca antica, ritorna anche VODRET, Caravaggio. L’opera completa, cit., p. 118.

all’adesione da parte del pittore a modelli antichi e rinascimentali, conosciuti e apprezzati all’epoca. Tra questi, ineludibile, è il richiamo alle realizzazioni di Michelangelo, in particolare la Pietà vaticana: il gesto del braccio di san Giovanni, fermato su tela da Caravaggio, replica quello della Madre impegnata a cingere e sorreggere il corpo senza vita del Cristo; il quale, a propria volta, esibisce in primo piano, e completamente illuminato, lo stesso arto esangue realizzato dal Buonarroti (a propria volta debitore nei confronti dell’arte antica).500 Ciò non stupisce se si considera

che la cappella a cui la tela era destinata era, per l’appunto, intitolata alla Pietà e che il dipinto stesso, benché si presenti come una “deposizione” dalla croce atta a concludersi nella tomba (di cui si vede lo spigolo abilmente scorciato in basso), in realtà alluda al contempo, per mezzo del contrasto accentuato tra luce e buio, alla Passione. Lo stesso gruppo che emerge dal fondo scuro ha una chiara impronta plastica, quasi scultorea, che denuncia il debito contratto dal Merisi con l’illustre predecessore.501 Debito che

potrebbe essersi tramutato in omaggio qualora fosse corretto rinvenire nei lineamenti del viso di Nicodemo proprio quelli di Michelangelo, in questo caso non solo discepolo ’nascosto’, ma figura umile e dimessa (si notino i piedi scalzi ben piantati per terra) destinataria prima del messaggio dei Vangeli. Non è possibile esprimersi con certezza in merito a tale suggestiva ipotesi (intorno alla quale “tanto, e tanto a vuoto, si è speculato”)502; la quale potrebbe giovarsi tuttavia di confortevoli riscontri sul piano delle

effigi note dello scultore fiorentino a legare assieme, nell’arco di un secolo, due dei massimi artisti della Roma del Cinquecento. È invece vero che se questa identificazione