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SECONDA PARTE

III. 3.5 “Guardala, guardala, scioglie i capelli ”

III.3.6 Tra santità e autopromozione

La promozione della statura professionale dell’artista è passata sovente anche attraverso la pratica dell’autoritrarsi e, come si è già avuto in parte modo di vedere, di frequente si

319Sulle indicazioni in nome del “decoro”, cfr. PIZZORUSSO, Ricerche su Cristofano Allori, cit., pp. 66-68. Baldinucci prosegue il suo racconto narrando di come della tela, giudicata fra altre “eccellentissima”, venne commissionata a Jacopo Ligozzi una copia destinata al Cardinale Carlo de’ Medici. La sua nudità tuttavia risultava non ’idonea’ per la stanza che avrebbe dovuto ospitarla e si provvide a coprila con “un certo panno”, cfr. BALDINUCCI, Notizie de’ Professori del Disegno da Cimabue in qua, cit., III, pp. 728-729.

320Di aspetto da “cortigiana” si parla nella scheda curata da Anna FABRE e Marilena MOSCO in La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, cit., p. 75.

321Carlo Del Bravo vi coglie “il valore di simbolo del tremore indomito e commovente della sensualità perseguitata dalla ragione”, cfr. DEL BRAVO, Su Cristofano Allori, cit., p. 75. Va peraltro precisato come le immagini “in veste di” Maddalena avranno una lunghissima eco, soprattutto a Firenze per mano di Carlo Dolci e Justus Sustermans, per tutto il Seicento.

è scelto di farlo celati, ma ben riconoscibili, in panni altrui. Non sono sfuggiti a tale tentazione, tra gli altri, diversi pittori (e alcune pittrici), che hanno optato per prestare i propri tratti ai profili di santi presenti nelle loro opere. Purtroppo, e va sottolineato subito, in molti casi non è stato possibile risalire alle ragioni profonde alla base di tali mascheramenti: se a prevalere sia stata cioè l’occasione legata a una particolare committenza o, viceversa, sia riscontrabile e documentata una spiccata devozione manifestata dall’artista verso una determinata figura di martire, tanto da sentire l’esigenza di ibridare il proprio vissuto a quello, ben più alto, che si stava fermando sulla tela.

A differenza dei tantissimi autoritratti attestati in età moderna in cui, in nome di un’auspicata elevazione del proprio paradigma professionale, vengono esibiti – accanto al volto riconoscibile – gli strumenti di lavoro, in queste occorrenze non compaiono mai segni distintivi legati al mestiere (pennelli, tele, ambientazione nello studio, uno specchio da intendere sia come medium che, al contempo, quale attestato di verosimiglianza per una resa “al naturale”).322 Fa eccezione in questo panorama e merita

quindi di essere richiamata in apertura la consuetudine di autoritrarsi nei panni di san Luca, che fu secondo la leggenda il primo pittore a cui venne concesso d’immortalare la Vergine, sebbene non mediante una visione diretta ma tramite apparizione miracolosa. Il desiderio di omaggiare l’illustre predecessore, e al

tempo stesso di nobilitare la propria statura artistica, si fondeva alla circostanza per cui a partire dal Cinquecento in Italia, ma già nel Quattrocento in terra fiamminga, all’evangelista – a cui era riconosciuto, per ovvie ragioni, anche il ruolo di patrono dei pittori – venivano intitolate associazioni e confraternite artistiche. È il caso per esempio della “Compagnia e Fraternità dei Pittori” che sorse a Firenze nel 1530 nel nome, per l’appunto, di san Luca.323 Al tempo di Vasari la congregazione si trasferì nel chiostro

della Santissima Annunziata dove, a partire dal 1564 lo stesso aretino iniziò ad

322Sul tema si leggano le considerazioni (che includono anche alcuni casi criptici) di WOODS- MARSDEN, Renaissance self-portraiture. The visual construction of identity and social status of the artist, cit., pp. 149-154, e CONTI, L’evoluzione dell’artista, cit., pp. 117-223.

323A riguardo si leggano C. LIMENTANI VIRDIS, Qualche considerazione sull’iconografia di san Luca, in Luca evangelista. Parola e immagine tra Oriente e Occidente, Catalogo della mostra (Padova, Museo Diocesano 2000-2001), a cura di G. Mariani Canova, Padova 2000, pp. 111-121: 116, e il recente contributo di J. CHIPPS SMITH, Tra san Luca e Apelle: l’arista rappresenta se stesso, in Dürer e il Rinascimento tra Germania e Italia, Catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 2018), a cura di B. Aikema e A.J. Martin, Milano 2018, pp. 57-65.

affrescare un’immagine dell’evangelista impegnato a ritrarre la Madonna (fig. 50).324

Come da tradizione, e come è logico aspettarsi, la Vergine non figura come una modello “al naturale” (per usare le parole delle fonti) ma appare quale visione su una nuvola circondata da angeli. Se il pittore è vestito all’antica, moderno, nel senso di cinquecentesco, è invece il contesto in cui ha luogo la seduta di posa. Due altri personaggi, forse pittori anche loro, osservano il gruppo sacro e la sua riproduzione sulla tela. Sullo sfondo qualcuno è impegnato in occupazioni diverse, ma sempre attinenti con i compiti di bottega. Sembra quindi a tutti gli effetti un atelier del Rinascimento se non fosse per il profilo altissimo della modella che vi ha fatto garbatamente irruzione.

Se si confronta però il viso del santo con le effigi che ci sono rimaste di Vasari, come ad esempio l’Autoritratto datato all’incirca agli stessi anni che si conserva ora agli Uffizi, ci si rende facilmente conto di come sotto le sembianze di san Luca ci siano buone ragioni di ritenere che si celi il pittore in persona (fig. 51).325 E malgrado il silenzio

dell’aretino stesso in relazione all’affresco, questo è travestimento, per certi versi, ’scontato’, nel momento in cui si scelgono i panni di colui che, a tutti gli effetti, era il pittore per antonomasia.326

Tale identificazione tra l’altro fungeva anche da legittimazione profonda, giocata su di un doppio binario: per il pittore, cui veniva così permesso di accostarsi ai soggetti sacri come aveva osato fare l’evangelista; ma anche per la Chiesa stessa nel momento in cui – in piena Controriforma e con lo spettro incombente e mai sopito dell’iconoclastia – poteva vantare e mettere in campo un argomento di autorità, a proprio favore, nel giustificare la realizzazione e la fruizione di immagini sacre.327 Nella figura di Luca- 324Sull’affresco si veda BALDINI, Giorgio Vasari pittore “senza stento”, cit., pp 187-188.

325Il merito del riconoscimento del volto spetta a P. BAROCCHI, I complementi al Vasari pittore, in «Atti dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere ’La Colombaria’”», XXVIII, 1963-1964, pp. 253- 309: 267; contestualizza l’autoritratto “programmatico” in figura di san Luca ora anche M. SFRAMELI, “Consacrati all’eternità dalle loro stesse mani”. La collezione di autoritratti di Leopoldo de’ Medici, in I volti dell’arte. Autoritratti dalla collezione degli Uffizi, cit., pp. 27-37: 27- 28. Per un confronto con l’opera agli Uffizi si veda la scheda di Alessandro CECCHI in Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, Catalogo della mostra (Arezzo, Casa Vasari-Sottochiesa di San Francesco, 1981), a cura di L. Corti, M. Daly Davies, Firenze 1981, pp. 311-312, n. 4.

326Per certi versi affine a quelli che John Shearman definisce ritratti astratti “nel loro atto creativo”: cfr. SHEARMAN, Arte e spettatore nel Rinascimento italiano. Only connect, cit., pp. 130-131.

327Sulla fortuna della figura di san Luca dopo il concilio di Trento e l’utilizzo che venne fatto della sua effige contro la condanna, da parte dei Riformatori, dell’uso delle immagini (e più in generale come

Vasari si incarna quindi in modo indelebile il sodalizio tra l’arte e la fede, in persona di Luca Evangelista “prototipo del pittore devoto”.328 Se si rileggono, in controluce, i passi

dello storiografo disseminati all’interno delle Vite in relazione alla statura dell’artista, definito a più riprese “novello creatore”, vi si può scorgere, in ultima istanza, anche una giustificazione a poterle trattare entrambe. La maschera dell’evangelista si presentava perfetta pure dal punto di vista dell’emancipazione del ruolo dell’artista all’interno della società: identificarsi nella figura di un individuo che oltre che pictor era anche doctus (e in tali vesti intellettuali si era presentato già Taddeo di Bartolo) – in quanto autore di uno dei Vangeli – significava rivendicare per se stessi il ruolo dell’umanista conoscitore delle lettere e per la propria professione lo status di arte liberale (e non solo, quindi, manuale).329

L’esaltazione e il desiderio di emancipazione professionale, che non vengono mai a mancare in queste realizzazioni criptiche, passano tuttavia nella maggior parte dei casi attraverso forme di auto-esposizione che coinvolgono principalmente l’uomo e la sua

argomento contro l’iconoclastia) si vedano M. BACCI, Il pennello dell’Evangelista. Storia delle immagini sacre attribuite a san Luca, Pisa 1998, pp. 329-355; ID., San Luca: il pittore dei pittori, in Artifex bonus. Il mondo dell’artista medievale, a cura di E. Castelnuovo, Roma 2004, pp. 3-11; A. NANTE, Luca evangelista. Fatti iconografici nella pittura italiana dal Tre al Settecento, in Luca evangelista. Parola e immagine tra Oriente e Occidente, cit., pp. 187-204, e O. CALABRESE, L’arte dell’autoritratto. Storia e teoria di un genere pittorico, s.l. 2010, pp. 85-90.

328Tesi ribadita in NANTE, Luca evangelista. Fatti iconografici nella pittura italiana dal Tre al Settecento, cit., p. 193. In merito però si legga anche A. GHIRARDI, Lavinia Fontana allo specchio. Pittrici e autoritratto nel secondo Cinquecento, in Lavinia Fontana. 1552-1614, Catalogo della mostra (Bologna, Museo Civico Archeologico 1994), a cura di V. Fortunati, Milano 1994, pp. 37-51: 41. Così Lomazzo, nel 1584, all’interno del Trattato: “E doppo Cristo abbiamo da riverire Santo Luca Evangelista, che ci ha lasciato scolpito di sua mano il ritratto della Vergine Maria col suo figliolo in braccio a Roma” (cfr. BAROCCHI, Scritti d’arte del Cinquecento, cit., III, p. 2747).

329L’iconografia del ’cripto-san Luca’, come detto, non nasce in Italia ma in quei Paesi, per esempio le Fiandre, nei quali si arrivò prima a forme di confraternite come quella fiorentina (o la successiva che si organizzò a Roma). A tal riguardo non pare errato pertanto poter scorgere un ritratto nascosto in tale ambito in quello che può essere considerato il capostipite della serie. Si tratta del San Luca che dipinge la Vergine di Rogier van der Weyden ora al Museum of Fine Arts di Boston ma ideato per la cappella di san Luca nella chiesa in cui in seguito il pittore venne sepolto. Dell’opera, datata tra 1435 e 1450, esistono diverse varianti ma in tutte si replica l’interno domestico (allo studio dell’artista sembra essersi sostituita una dimora cittadina con grandi finestre che aprono sul paesaggio) e la posizione di tre quarti del pittore il cui volto tradisce piuttosto chiaramente istanze ritrattistiche. Non compare mai, ma la sua assenza non si percepisce, l’aureola a coronare il capo del santo in quanto la dimensione extra-umana dell’evento viene già convogliata dalla presenza modesta della Vergine “in posa”. Per una panoramica di tali realizzazioni al Nord delle Alpi si leggano LIMENTANI VIRDIS, Qualche considerazione sull’iconografia di san Luca, cit., p. 116; CALABRESE, L’arte dell’autoritratto. Storia e teoria di un genere pittorico, cit., pp. 86-88, e CHIPPS SMITH, Tra san Luca e Apelle: l’arista rappresenta se stesso, cit., pp. 57-65.

interiorità. Il palesarsi del pittore sulla scena poteva, e doveva, nel caso di un autoritratto mascherato, servirsi di una nuova immagine di sé, molto spesso creata ad hoc per l’occasione. I casi sono molteplici e tutti piuttosto celebri. Vale però la pena ripercorrerne alcuni, meno battuti dalla critica o pregevoli in virtù della loro singolarità, per sondare come anche in questo frangente le opzioni e le soluzione adottate siano, a loro modo, tutte originali.

Stando alle fonti, Pordenone colse al volo l’opportunità di fissare i tratti del proprio volto nell’imponente immagine di san Rocco chiamata a decorare una delle facce del pilastro ottogonale che, nel duomo della sua città natale, immette nella cappella Montereale-Mantica (fig. 52).330 Lo spazio a disposizione era prestigioso e le

architetture alle spalle del profilo del martire, di stampo classicheggiante, oltre alla posa “fotografica” con gli occhi rivolti verso lo spettatore, offrivano al pittore la stessa opportunità di autopresentarsi che avrebbe consentito un più tradizionale pannello laterale di polittico. La voce narrante dell’episodio è Ridolfi il quale, stranamente sintetico (“Evvi in altra parte la figura di San Rocco in cui si ritrasse il Pittore, come dicono egli facesse in molte simili imagini”):331 purtroppo – escluso l’accenno a una

pratica ritrattistica non estranea al Pordenone, ma non per questo sempre in abiti criptici – non fornisce dati ulteriori che aiutino a comprendere le motivazioni sottese a tale travestimento sacro.

È Vasari stesso invece in due occasioni diverse, e distinte da quella miniera inesauribile di informazioni che sono le Vite, a ricordare il doppio mascheramento che lo vide protagonista, assieme alla giovane moglie Niccolosa Bacci, sull’altare della cappella di famiglia nella pieve di Santa Maria ad Arezzo (fig. 53). L’opera, ora nella badia delle Sante Flora e Lucilla, venne completata, assieme al resto della decorazione pittorica, nell’aprile del 1563.332 Trattandosi di un altare commemorativo della casata, accanto ad

alcune pale con soggetti consueti per una chiesa – quali immagini della Carità, una

330“Nel San Rocco affrescato su uno dei pilastri ottogonali del Duomo di Pordenone si riconosce, per tradizione, l’autoritratto del pittore”, cfr. C. FURLAN, Il Pordenone, Milano 1988, pp. 68-69:68, n. 13.

331RIDOLFI, Le maraviglie dell’arte, cit., I, p. 117.

332Dopo un breve, ma corretto, accenno alla chiave criptica in T.S.R. BOASE, Giorgio Vasari. The man and the book, Princeton 1979, p. 172, fig. 111, dell’opera si sono occupati M. DALY DAVIES in Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, cit., pp. 309-310, n. 2c e Alessandro CECCHI in Giorgio Vasari. Disegnatore e Pittore. “Istudio, diligenza et amorevole fatica”, cit., p. 210, n. 55.

Vergine Assunta e un San Giorgio a cavallo (soggetto non scontato anche per altri motivi) – vi avevano trovato posto alcuni ritratti degli avi del pittore frammezzati ad altri richiami simbolici alla famiglia.333 Per se stesso e la consorte Vasari optò per un

criptoritratto a figura intera (di profilo lei, frontale lui), con tanto di aureola a cingere i loro volti. Niccolosa Bacci interpreta il ruolo di Maria Maddalena ed esibisce, per l’occasione, il consueto vaso con gli unguenti; per sé lo storiografo scelse invece i panni di san Lazzaro. Un confronto con gli autoritratti che ci sono pervenuti dell’aretino, tra tutti quello già richiamato ora agli Uffizi, non fa che confermare quanto la destinazione dell’opera già indicava chiaramente:334 i capelli arruffati e una folta barba contornano il

volto del pittore così come siamo ormai abituati a (ri)conoscerlo, lasciando in vista gli occhi acuti e la fronte alta.335

In questo caso la parola scritta viene in soccorso all’osservatore favorendo la corretta lettura di un’iconografia (almeno quella relativa a san Lazzaro) tutt’altro che immediata, e facendo al contempo luce sulle ragioni, in prima battuta piuttosto oscure, alla base di tali opzioni ritrattistiche. La presenza tra gli antenati di Vasari di un Lazzaro pittore – ricordato nelle Vite come molto amico di Piero della Francesca e seppellito, così come poi sarà per Giorgio e la moglie Cosina, nella medesima chiesa – può giustificare la convocazione proprio di tale santo.336 Al pari, il fatto che le ossa della madre del pittore,

che si chiamava Maddalena, avessero anch’esse trovato sepoltura nello stesso edificio potrebbe chiarire il travestimento ideato per la moglie. All’interno della grandiosa macchina d’altare, progettata con precisione e cura dall’aretino, veniva così messo in scena un triplo omaggio incrociato: la famiglia Vasari poteva infatti vantare ed esibire, accanto ai ritratti “palesi” riservati ai suoi membri più eminenti, un’allusione simbolica attraverso i soggetti sacri scelti con cura a decorare l’altare (e il San Giorgio è rimando al nome di battesimo di più di un componente maschile del casato). Ma poteva giovarsi anche di un altro richiamo, da realizzarsi per il tramite delle figure dei santi protettori di

333Per una descrizione completa della macchina d’altare allestita dall’aretino e portata a termine con l’aiuto del Poppi e dello Stradano si vedano L. CORTI, Giorgio Vasari. Catalogo completo, Firenze 1989, pp. 109-110 e BALDINI, Giorgio Vasari pittore “senza stento”, cit., 185-187.

334Sull’opera agli Uffizi basti la scheda di Alessandro CECCHI in Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, cit., pp. 311-312, n. 4.

335“La sua effige appare viva e brillante”, cfr. CECCHI in Giorgio Vasari. Disegnatore e Pittore. “Istudio, diligenza et amorevole fatica”, cit., p. 210.

336A cui lo storiografo dedica una delle sue biografie: cfr. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, cit., II, pp. 553-559.

cui si portava il nome, adombrate nelle effigi mascherate. Il tutto nel solco di una tradizione artistica orgogliosamente familiare, protrattasi di generazione in generazione. A cui forse non era estraneo, adombrato nella scelta di calarsi nei panni di colui che torna in vita dopo la morte, un personale (e devotissimo) auspicio da visualizzarsi lì dove avrebbero riposato le proprie ossa.

Pare invece essersi orientata verso l’effige di santa Caterina Barbara Longhi, allorquando – verosimilmente sul finire degli anni ’70 del Cinquecento – approntò il proprio autoritratto (fig. 54). Della tela esistono numerose versioni. Oltre a quella ricordata nella presente occasione, che si conserva presso la Pinacoteca Nazionale di Bologna,337 ve ne sono almeno altre due: una a Ravenna e l’altra a Bucarest.338 In tutte le

varianti, che differiscono per l’angolazione del volto e la posizione delle mani, la santa si presenta di profilo con il capo però significativamente girato di tre quarti in modo da poter fissare negli occhi lo spettatore. La ruota uncinata, sotto la mano sinistra, e la palma del martirio esibita nella destra la connotano inequivocabilmente come la martire di Alessandria.

Che dalla tela traspiri un chiaro intento ritrattistico è apparso palese sin dall’Ottocento quando si è messa in relazione la silhouette della santa con il profilo femminile della pittrice verosimilmente inserito dal padre, Luca Longhi, nell’episodio delle Nozze di Cana per il refettorio dei monaci camaldolesi di Classe (fig. 55). Nel brano pittorico, un singolare olio su muro, il Longhi – fondatore della celebre bottega emiliana nella quale si formò anche la figlia – diede mostra della propria maestria inserendo nell’opera i volti di alcuni personaggi dotti e di rilievo nella Ravenna di fine secolo.339 Tra i quali 337Per la versione di Bologna si leggano le schede di Giordano VIROLI in Pinacoteca Nazionale di Bologna, Catalogo generale. 2. Da Raffaello ai Carracci, cit., pp. 214-215, n. 153, e quella curata per il catalogo della Pinacoteca comunale di Ravenna, a cura di N. Ceroni, Roma 1993, pp. 97-98. Lo studioso la discute poi in I Longhi. Luca, Francesco, Barbara. Pittori ravvenati (sec. XVI-XVII), Ravenna 2000, pp. 194-195, n. 112.

338 Sulle tele a Ravenna e Bucarest, cfr. VIROLI, I Longhi. Luca, Francesco, Barbara. Pittori ravvenati (sec. XVI-XVII), cit., rispettivamente alle p. 196 (n. 115) e pp. 197-198 (n. 117).

339Le abilità di ritrattista del Longhi sono ricordate pure da Vasari: “Maestro Luca de’ Longhi ravignano, uomo di natura buono, quieto e studioso, ha fatto nella sua patria di Ravenna e per di fuori molte tavole a olio e ritratti di naturale bellissimi”: cfr. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, cit., VII, p. 420. Sull’affresco ravennate si legga ancora VIROLI, I Longhi. Luca, Francesco, Barbara. Pittori ravvenati (sec. XVI-XVII), cit., pp. 92-93, n. 57. Verosimilmente il pittore stesso realizzò un ritratto della figlia in veste di santa Caterina come attesta la tela che si conserva alla Pinacoteca Comunale di Ravenna (attribuitagli), cfr. ivi, p. 92, n. 56. Si ribadisce infine un’identità tra le due donne nella scheda curata sempre da Viroli in Pinacoteca comunale di Ravenna, cit., p. 99, n. 131.

compaiono significativamente anche la propria effige e quella dei figli. La posa della giovane, che si sporge dalla tavola imbandita come se fosse stata improvvisamente chiamata (il consueto “mettersi in posa” già visto per la dama di Savoldo e, in misura minore, la Maddalena del Pontormo), sembra quasi sovrapponibile a quella realizzata dalla figlia, che volge allo stesso modo il proprio volto nella piccola tela bolognese (all’apparenza destinata a devozione privata).

Se il confronto fisionomico tra le due effigi sembra avvalorare tale suggerimento identificativo, viene spontaneo a questo punto chiedersi perché Barbara abbia deciso di calarsi nei panni di Caterina invece di quelli della santa omonima, sottraendosi in tal modo un riconoscimento più immediato che avrebbe aggiunto parimenti un ulteriore motivo di elogio alla sua statura di artista. In realtà il mascheramento funziona, come è stato giustamente osservato, anche in virtù della “meraviglia” e dello stupore che doveva suscitare un’immagine di questo tipo, nel momento in cui veniva associata alla singolare presenza di una pittrice talentuosa nell’Italia di fine Cinquecento.340 La quale

qui lavora, tramite codice agiografico altro, per similitudine colta: come santa Caterina