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SECONDA PARTE

III. 3.5 “Guardala, guardala, scioglie i capelli ”

III.3.9 È tutta devozione?

Sebbene tutti con tipologie e sfumature proprie – autentica cifra distintiva del fenomeno del criptoritratto – gli esempi riportati a corredo della categoria delle rappresentazioni “in veste di” santi parlano la stessa lingua. Con oscillazioni diverse ogni caso è un’occasione per mettere in luce, di volta in volta, parte del proprio abisso interiore, in un rapporto con la fede che aspira a essere vivo, autentico e partecipato. Ovvero, per dare visibilità a un sentimento che può essere rubricato immancabilmente sotto la cifra della devozione. Anche quando, all’interno di tali creazioni, si registra una spinta verso l’autopromozione, anche solo la circostanza di far cadere la scelta su di un soggetto religioso invece che mitologico, svela caratteri e orizzonti di pensiero di chi fu, a vario titolo, coinvolto nella commissione e nella realizzazione dell’opera.

A fronte di tale consapevolezza, che restituisce il polso di una consuetudine tanto diffusa, vi sono tuttavia delle occorrenze in cui risulta arduo scorgere un sincero anelito religioso in coloro che scelsero la maschera criptica, e nello specifico i panni di un santo, per eternare la propria immagine. Sono realizzazioni che per ragioni di collocazione (l’interno di una chiesa), di rilevanza iconografica (di nuovo si è di fronte a martiri di cui si portano vesti e attributi) nonché contesti interni ed esterni all’opera aspirano a trovar posto in questa categoria. Al contempo però si qualificano come altro, irrimediabilmente diverso da quanto sin qui visto.

Se potevano sorgere dei dubbi più che legittimi sulla natura devota sottesa a un’opera quale il San Sebastiano di Bronzino, questi paiono invece cadere di fronte al Ritratto di uomo in veste di san Sebastiano di Bernardino Luini all’Ermitage (fig. 84).447 Ancora

una volta, l’iconografia è quella del martire trafitto dalle frecce, conseguenza del suo strenuo diniego ad abbandonare la fede cristiana. E ben tre dardi compaiono sulla tela a ferire il corpo atletico e seminudo dell’uomo (non così giovane come l’adolescente fiorentino) che si appoggia, invece che alla consueta colonna, al tronco di un albero. Gli elementi a favore di una lettura della tela in senso “religioso” finiscono però qui, lasciando spazio a un’interpretazione, giocoforza, di segno diverso. Al tempo stesso, se

447Sul dipinto si vedano A. OTTINO DELLA CHIESA, Bernardino Luini, Novara 1956, p. 82, n. 78; E. DAL POZZOLO, Colori d’amore. Parole, gesti e carezze nella pittura veneziana del Cinquecento, cit., p. 142, e la scheda redatta da T. KUSTODIEVA in Leonardeschi. Da Foppa a Giampietrino: dipinti dall’Ermitage di San Pietroburgo e dai Musei civici di Pavia, Catalogo della mostra (Pavia, Castello Visconteo, 2011), a cura di T. Kustodieva, S. Zatti, Roma 2011, p. 62, n., I.16.

non vi possono essere incertezze in merito all’identità del santo rappresentato, pare altrettanto innegabile lo spunto ritrattistico ravvisabile nel volto: dai capelli corti alla presenza della barba, i lineamenti sono tutt’altro che standardizzati.

L’albero che funge da sostegno, e dal quale scende un grosso frutto, non è di limoni ma un cedro, simbolicamente leggibile – soprattutto nel contesto della ritrattistica privata – come frutto d’amore, dalle forti tinte dolci-amare.448 Il fiore d’aquilegia ai piedi del martire

alluderebbe invece alle proprietà curative della pianta, in particolar modo nelle relazioni amorose.449 Già grazie a questi due elementi, parte integrante del “corredo” emblematico

allestito ad hoc (e si consideri la preminenza data al frutto nell’economia generale dell’opera), l’esegesi del dipinto si avvia verso un binario nuovo. Che, per fugare ogni residua impasse, viene esplicitato con eloquenza dai gesti delle mani, entrambe chiamate a indicare un punto ben preciso. Se la sinistra invita a fissare l’attenzione sull’unica freccia che ha come bersaglio direttamente il cuore, rimando lampante al sentimento amoroso, alla destra è riservato il compito di attirare lo sguardo su di una tabula ansata. Qui vi si legge un passo di Ovidio, tratto dalle Metamorfosi (“QVAM LIBENS / OB TVI AMOREM / DULCES IACVLOS / PATIAR MEMENTO”, ovvero: “Ricorda, con quanto piacere per amor tuo sopporto le dolci frecce”) il quale, alla luce del contesto delineato, a tutto allude fuorché a un’invocazione devota.450

Riassumendo. L’orizzonte è laico e intriso di sentimento, e mette in scena un dialogo silenzioso che l’anonimo barbuto, in veste di san Sebastiano, intreccia con l’amata a cui esplica le fatiche e le gioie del loro rapporto. L’uomo si serve di un doppio codice: quello simbolico – l’amore è dolce-amaro come il cedro e gli provoca dei tormenti che al pari delle frecce, armi reali e metaforiche di Cupido, colpiscono lì dov’è la sede del suo ardore – e quello invece più diretto legato alle parole prese a prestito da Ovidio. A ben vedere però, il codice si fa triplo, nel momento in cui entra in gioco il travestimento, ovvero l’uso dell’effige del martire, che estrapolata dal suo contesto mantiene alcuni dei suoi elementi fondamentali di cui si veicola tuttavia con forza una lettura in chiave allegorica.

448Il corretto riconoscimento del frutto, e pertanto delle virtù che gli sono associate, lo si può leggere in DAL POZZOLO, Colori d’amore. Parole, gesti e carezze nella pittura veneziana del Cinquecento, cit., pp. 141-142.

449KUSTODIEVA in Leonardeschi. Da Foppa a Giampietrino: dipinti dall’Ermitage di San Pietroburgo e dai Musei civici di Pavia, cit., p. 62.

450Al contempo, tuttavia, non pare corretto leggervi richiami “non solo omoerotici, ma forse sadomasochistici” come avviene in POLLEROSS, Das sakrale Identifikationsporträt, cit., I, p. 291.

Dipanato il quadro generale, sarebbe suggestivo riuscire a dare un nome all’uomo e in tal modo ritessere la trama amorosa che sostanzia l’opera. Risalire cioè all’individuo a cui ascrivere un passione così forte da meritarsi un dipinto, al contempo, tanto denso e singolare. Le ipotesi avanzate a riguardo non sciolgono l’interrogativo e sono destinate, per ora, a rimanere tali: il nome di Massimiliano Sforza, duca di Milano, preso in considerazione a più riprese, sembra dover essere accantonato per motivi cronologici; potrebbe forse trattarsi del figlio di Ludovico il Moro (Francesco Sforza), ma anche qui mancano elementi per un confronto iconografico in grado di dissipare una volta per tutte le riserve.451 Va sottolineato altresì come il motivo decorativo del panno che cinge i

fianchi del santo ritorni anche nelle frecce e tra le corde utilizzate per fissare le braccia all’albero. In una tela così ricca di segni e segnali chiari rivolti allo spettatore, tale dettaglio non è certo imputabile al caso.452 Al contrario palesa la volontà di agevolare

un’identificazione anche per il tramite della stoffa, vero e proprio rimando araldico: viene tuttavia spontaneo chiedersi se fosse particolare legato alla figura di lui o, viceversa, all’altrettanto misterioso profilo di lei. Sintomo e conferma, ancora una volta, di come alla base di siffatti ritratti in disguise non si celasse mai la volontà di occultare bensì quella di mettere il più possibile in mostra se stessi. E, malgrado il (o grazie al) mascheramento, essere puntualmente riconosciuti.

Resta da sottolineare una circostanza. Non si conosce la data esatta in cui cade la realizzazione della tela, precedente tuttavia al San Sebastiano Thyssen di Bronzino, al pari del quale verosimilmente condivide un’analoga lettura e impostazione di stampo amoroso. Due ambiti completamente diversi, due stili distanti, due committenti che forse non si sono mai conosciuti tra loro alle prese con altrettanti artisti culturalmente lontani sono giunti nondimeno a trovare nella medesima maschera la soluzione più congeniale alle proprie aspirazioni e necessità ritrattistiche.

451Riporta ora, argomentandoli, i vari tentativi d’identificazione KUSTODIEVA in Leonardeschi. Da Foppa a Giampietrino: dipinti dall’Ermitage di San Pietroburgo e dai Musei civici di Pavia, cit., p. 62. Già OTTINO DELLA CHIESA (in Bernardino Luini, cit., p. 82) escludeva potesse trattarsi del figlio di Ludovico Sforza, pensando tuttavia non a Francesco ma a Massimiliano.

452KUSTODIEVA in Leonardeschi. Da Foppa a Giampietrino: dipinti dall’Ermitage di San Pietroburgo e dai Musei civici di Pavia, cit., p. 62.

Molte più informazioni sono invece reperibili in relazione al secondo caso ’curioso’ di ritratto “in veste di” santo. L’opera si trova tuttora nel luogo per cui venne ideata e realizzata, tra il 1577 e il 1578: è infatti la pala che orna l’altare dedicato a sant’Antonio (ma significativamente noto anche come altare Milledonne) nella veneziana chiesa di San Trovaso (fig. 85).453 Autore del dipinto e committente sono ricordati da Ridolfi,

all’interno del ricco resoconto intorno alla vita di Jacopo Tintoretto.

Et in gratia di Antonio Milledonne, Secretario del Senato, fece ad un suo Altare la tavola di Santo Antonio Abbate tentanto da’ Demoni, trasformati in forma di donne gentili & ornate, comparendole il Redentore in uno splendore, in cui fissando gli occhi il Santo par si consoli.454

La descrizione è precisa dal punto di vista iconografico ma tace un dettaglio significativo. Lo storiografo, per altri versi piuttosto attento alla consuetudine criptica, verosimilmente non era informato in merito alle vicende che portarono alla realizzazione della tela; e forse non era nemmeno a conoscenza della biografia del Milledonne, la cui tomba si trovava proprio presso quell’altare. Tale testo – ricco d’informazioni che spaziano dalla politica agli interessi religiosi passando tramite i momenti salienti del suo impegno a favore della Serenissima – aggiunge quel tassello in più, in grado di aprire spiragli suggestivi alla lettura dell’opera.

Havea la verità sempre in bocca, mai adulava, fu molto elemosiniero; lo sa in particolare la Parochia sua di san Gervaso, che nella restauratione di quel tempio demolito, e corroso dall’antiquità, e di cui era protettore, e sborsò molti centenara di ducati, & morendo gli ne lasciò ancora. È sepolto ivi in una Cappella à piedi dell’Altare, che ha una palla in cui è dipinta di mano di Misser Jacopo Tentoretto la tentazione fatta dal Demonio, al beatissimo santo Antonio rappresentato nella sua effige.455

453Sulla tela, si legga P. ROSSI in PALLUCCHINI-ROSSI, Tintoretto. Le opere sacre e profane, cit., I, p. 208, n. 370.

454RIDOLFI, Le Maraviglie dell’arte, cit., II, p. 39-40. Malvasia (Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, cit., I, p. 76), nel suo lungo elenco di stampe dei Carracci ne ricorda una di Agostino – l’anno è il 1558 – verosimilmente tratta da questo dipinto: “Lo smanioso Sant’Antonio tentato del Tintoretto”; lo stesso fa Bellori (Le Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, I, p. 127) allorquando annota “Santo Antonio combattuto da demoni in forma di donne ignude, il Signore gli apparisce, stampa in foglio, Tintoretto”. Entrambi, nella loro estrema sintesi, tacciono l’inserto criptico.

Antonio Milledonne aveva fatto più che commissionare la tela: era giunto a chiedere al pittore di immortalarlo nei panni di sant’Antonio Abate tentato, sotto diverse forme, dal demonio.456 Come illustra brevemente il passo – e la biografia ne fa fede in modo più

esteso – egli fu uomo devoto e fervido credente che ricoprì durante la sua lunga esistenza anche ruoli e cariche in ambito religioso. Fu a capo, per esempio, dell’importante Segreteria degli Esecutori alla bestemmia che doveva occuparsi del decoro e della moralità.457 Ma, naturalmente, non si tratta solo questo: lo si ricorda

anche quale alto funzionario della Repubblica, in più occasioni eletto alla carica di segretario del Consiglio dei Dieci. Ciononostante quello che viene raffigurato, con toni accesi e vivaci, non è l’uomo Antonio, semplice credente che, al pari del santo di cui portava il nome, deve sopportare e far fronte alle lusinghe del Male. Le diavolesse, eloquenti nel loro essere tanto svestite e provocanti se si pensa alla collocazione dell’opera in una chiesa, alludono a episodi ben precisi dell’esistenza del protagonista che nulla hanno a che vedere con la sua fede. Più che alla mancata elezione al ruolo di Cancellier Grande (che avvenne di lì a qualche anno) esse verosimilmente incarnano le “diaboliche” mosse e le “tormentose” azioni intraprese contro di lui in merito alle cariche ricoperte.458 Come sant’Antonio, egli si era trovato a un certo punto nella

situazione spiacevole dell’uomo virtuoso in balia delle tentazioni (le menzogne dei detrattori), impegnate (con successo) a spogliarlo e a farlo patire. Nella concitazione del momento tutti i suoi attributi – il rosario frantumato, il libro della Regola con i fogli strappati, il campanello, la borsa e il fido maiale – vengono abbandonati in primo piano e all’asceta resta addosso solo un minuto panneggio bianco, strattonato da più parti. Una circostanza senza dubbio di grande pathos che giustifica la consueta chiusa devota del Ridolfi a ricordare come nella parte alta del dipinto, con impeto plastico, il Redentore faccia capolino per offrirgli conforto.

Il legame del committente con Tintoretto è saldo e testimoniato da diversi episodi,

1618), p. 39.

456Di “forte caratterizzazione unita all’intensità espressiva” parla ROSSI in PALLUCCHINI-ROSSI, Tintoretto. Le opere sacre e profane, cit., p. 208, n. 370.

457Ripercorre tratti esistenziali ed esperienze professionali del Milledonne M. GALTAROSSA, La formazione burocratica del segretario veneziano: il caso di Antonio Milledonne, in «Archivio Veneto», V, 2002, 158, pp. 5-64.

458Tale ipotesi, sostenuta da Gentili, non collima con le date di realizzazione del dipinto ma soprattutto con l’estremo cronologico associato alla mancata elezione al ruolo di Cancellier Grande: cfr. GENTILI, Tintoretto. Ritratti, miti, storie, cit., pp. 36-37.

durante i quali verosimilmente i due si trovarono a discutere di religione e pittura così come del corretto uso delle immagini devote. Ciò avvenne, per esempio, in occasione dell’abbozzo presentato da Jacopo per il telero del Concilio di Trento, a una delle cui sessioni partecipò pure Antonio.459 La soluzione adottata dai due a San Trovaso è

spregiudicata (la collocazione nell’altare di una chiesa) e al contempo indovinata (la dinamicità orizzontale, con i demoni disposti a chiasmo intorno al Milledonne, si stempera in verticale con la discesa del Cristo che, lungo la diagonale opposta, replica il gesto del santo). Un vero e proprio ex-voto abile a fondere insieme istanze religiose e ricadute politiche, carattere sensuale e ardore nel segno della fede, in cui la maschera gioca di nuovo un ruolo da protagonista.

Questa carrellata – atta a restituire le stimmate di una consuetudine multiforme per modi, predilezioni e scelte, anche per quanto concerne l’opzione “in veste di” santo – non può che chiudersi idealmente con colui che optò per la scelta più drastica e, al tempo stesso, più pregnante tra tutte quelle già viste. In questo caso non sussistono dubbi sull’aspetto devoto sotteso a tale realizzazione in disguise, ma si rimane stupiti al cospetto della declinazione, tanto personale quanto unica, che seppe infondervi l’artista. Se fino ad ora si è discusso per lo più di santi martiri, e di come di costoro si sono vestiti i panni, lo si è sempre fatto andando a scovare all’interno delle singole opere, al di là dello spunto ritrattistico, la presenza di determinati attributi che combinati assieme restituissero, rendendola leggibile, l’iconografia di volta in volta adottata. Si tratta ovviamente dei consueti “oggetti di scena”, qui nella variante agiografica, che riuniti sulla tela possono rievocare per immagini le circostanze del martirio, al fine di consegnare alla memoria l’effige di un santo che, malgrado le sofferenze (pugnali, ruote dentate, frecce) è ancora vivo, o quanto meno in procinto di lasciare l’esistenza terrena per ricongiungersi a quel Dio che, con forza e convinzione, non era mai stato abiurato. L’iconografia di san Bartolomeo presenta già di per sé alcuni problemi. Secondo la tradizione il supplizio avvenne per scuoiamento e il modo più semplice per visualizzarlo è sempre stato quello di presentare il martire o con un coltello in mano o un attimo prima che abbia inizio il martirio. Si tratta di una soluzione, per così dire, allusiva che

459A riguardo si veda A. PALLUCCHINI, L’abbozzo del «Concilio di Trento» di Jacopo Tintoretto, in «Arte Veneta», 24, 1970 (1971), pp. 93-102.

ferma il tempo in un intervallo che precede di poco l’evento principale, per sua natura estremamente cruento. Il pugnale, come la ruota di santa Caterina, fanno presagire il seguito.

Nell’affrescare la Cappella Sistina, e in particolare nel grande brano del Giudizio Universale, Michelangelo cambiò le carte in tavola: non realizzò una sola immagine del santo bensì due, una prima del supplizio e l’altra dopo e, paradossalmente, riuscì a celare in entrambe due criptoritratti (fig. 86). Non vi è dubbio che si tratti di due modelli differenti (e quindi di due persone distinte): uno è palesemente calvo mentre l’altro esibisce dei ricci scuri. È possibile, va detto, che si tratti del carnefice e della vittima malgrado una rappresentazione di questo tipo si connoti come ancor più inusuale in relazione all’iconografia del santo. La critica ha ravvisato nel profilo arcigno che brandisce il coltello un possibile ritratto nascosto di Pietro Aretino che sarebbe stato così “punito” dal pittore per le critiche avanzategli dopo aver visto rifiutata la propria candidatura al ruolo di consulente dell’impresa romana.460 Ben più suggestiva è tuttavia

l’ipotesi di poter riconoscere nella pelle (quindi nel poi) esibita dal Bartolomeo (prima) un possibile cripto-autoritratto di Michelangelo stesso.461 Se l’escamotage

dell’anamorfismo restituisce un’immagine del volto maggiormente leggibile, già così la fronte stempiata, la mandibola accentuata, i capelli crespi e scompigliati sul capo richiamano irresistibilmente le fattezze che si è soliti riscontrare all’interno dei ritratti che si sono conservati dell’artista.462

Tra la versione vestita del prima, uno pseudo-Aretino in panni altrui, e quella svestita

460I rimproveri di Pietro Aretino, nel contesto della concezione artistica di Michelangelo, sono ripercorsi da C. MALTESE, Sul problema «Michelangelo», in «Arte Lombarda», 10, 1965, II, pp. 105-114: 105- 106. Secondo Frederick Hartt anche in questo caso, per certi versi tanto crudele, una questione “nominale” avrebbe avuto la meglio sulla scelta dei personaggi in cui calarsi (o calare il proprio nemico). Il nome di famiglia di Pietro Aretino era infatti Bacci; Baccio (variante semplice) è il diminutivo di Bartolomeo; san Bartolomeo era pertanto il santo patrono della famiglia di Aretino, cfr. F. HARTT, Michelangelo in Heaven, in «Artibus et Historiae», 13, 1992, 26, pp. 191-209. Per una lettura che vede nello scuoiamento una forma di penitenza auto-inflitta e quindi, di conseguenza, di purificazione (e si parla infatti di autoritratto “penitenziale”) si rimanda invece a HALL, L’autoritratto. Una storia culturale, cit., pp. 110-111.

461L’ipotesi è stata avanzata per la prima volta, quasi un secolo fa, da F. LA CAVA, Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio finale. Un dramma psicologico in un ritratto simbolico, Bologna 1925. Colpisce, a quell’altezza cronologica, scoprire l’autore impegnato a illustrare “le ragioni per cui Michelangelo volle, quasi criptograficamente, rappresentarsi nel «Giudizio», e gli artifizi a cui ricorse.” (cfr, ivi, p. 48).

462Una rassegna che include molti volti del maestro, dai ritratti singoli ai visi inseriti all’interno di composizioni narrative, si può leggere in A. DONATI, Michelangelo Buonarroti, Jacopino Del Conte, Daniele Ricciarelli. Ritratto e figura nel Manierismo a Roma, San Marino 2010, pp. 259-274.

del poi, l’artista opta deciso verso la seconda e il volto provato, chiamato a dargli visibilità, esprime al contempo tutto il suo travaglio interiore. Michelangelo, che all’epoca del cantiere in San Pietro viveva una lacerante crisi religiosa, tocca qui uno degli apici della rappresentazione sub specie sanctorum e lo fa non vestendo i panni di qualcun altro, ma calandosi – fuor di metafora – nella pelle stessa del santo con cui evidentemente sentiva una particolare affinità.