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SECONDA PARTE

III. 3 “Sub specie sanctorum”

III.3.3 Declinazioni al femminile

Calarsi nei panni del santo a cui si era, per determinate e sempre diverse ragioni, particolarmente devoti ovviamente non fu prerogativa solo maschile. In un’epoca in cui commissionare il proprio ritratto, con tutti gli accorgimenti e le aspettative delineate, era prassi diffusa, anche le dame non rifiutarono di posare all’interno di dipinti nei quali l’escamotage criptico consentisse di personalizzare l’opera al massimo grado.269

Nell’inventario che porta la data 1641 dei beni presenti nella collezione del cardinale Carlo Emanuele Pio di Savoia si scova questa curiosa annotazione: “Ritratto d’una donna al naturale, quale tiene incatenato un drago in tela” (fig. 42).270 Verosimilmente a

un secolo di distanza dalla realizzazione, da parte di Giovan Gerolamo Savoldo, del Ritratto di dama in veste di santa Margherita d’Antiochia (ora a Roma, presso la Pinacoteca Capitolina) si era persa completamente ogni possibile informazione in grado di sciogliere il nodo circa l’identità dell’effigiata, ma non il curioso particolare per cui la donna tiene al guinzaglio un educatissimo drago.271

Se non ci fosse lui, a far capolino dal margine sinistro, non vi sarebbero dubbi sulla funzione ritrattistica della tela: una donna aristocratica, seduta composta di tre quarti, immortalata mentre regge un libro sul quale tiene il segno, verosimilmente distratta dalla lettura dall’urgenza di mettersi in posa davanti all’artista.272 Il suo profilo elegante

e imponente occupa tutta la parte sinistra del dipinto mentre sulla destra, al pari di altre soluzioni compositive del maestro, si apre una grande finestra. Seppur in mancanza di

269Apre uno spiraglio sui caratteri e le prerogative della ritrattistica femminile, in relazione al ruolo giocato dalla donna nella società, E.J. CAMPBELL, Prophets, Saints, and Matriarchs: Portraits of old Women in Early Modern Italy, in «Renaissance Quarterly», 63, 2010, 3, pp. 807-849; con un focus sul caso emiliano invece si veda C.P. MURPHY, Il teatro della vedovanza. Le vedove e il patronage pubblico delle arti visive a Bologna nel XVI secolo, in «Quaderni storici», n.s., 35, 2000, 104, pp. 393-421.

270L’inventario viene citato, tra gli altri, nella scheda di Sergio GUARINO in Pinacoteca Capitolina. Catalogo generale, a cura di S. Guarini, P. Masini, Milano 2006, p. 184, n. 75.

271Sulla tela si vedano A. BOSCHETTO, Giovan Gerolamo Savoldo, Milano 1963, tav. 48; POPE- HENNESSY, The portrait in the Renaissance, cit., p. 239; BURKE, Il ritratto veneziano nel Cinquecento, cit., p. 1110; le schede curate da Pier Virgilio BEGNI REDONA in Giovanni Gerolamo Savoldo tra Foppa, Giorgione e Caravaggio, cit., p. 182, n. I.33; da Francesco FRANGI in Le siècle de Titien. L’age d’or de la peinture à Venise, Catalogo della mostra (Paris, Grand Palais, 1993), a cura di M. Laclotte, Parigi 1993, pp. 401-402, n. 75; da Sergio GUARINO in El retrato del Rinacimiento, cit., p. 270, n. 59, e in Tiziano e il ritratto di corte da Raffaello ai Carracci, cit., p. 332, n. C82; da ultimo, il contributo di Francesco FRANGI in Tiziano e la pittura del Cinquecento tra Venezia e Brescia, cit., p. 158, n. 46.

272In relazione alla lettura interrotta si legga N. MACOLA, Sguardi e scritture. Figure con libro nella ritrattistica italiana della prima metà del Cinquecento, Venezia 2007, pp. 120-125.

informazioni ulteriori sulla committenza e l’ambiente in cui vide la luce l’opera, è tuttavia lecito avanzare ipotesi sul nome di battesimo della donna ritratta, anche solo sulla base di alcuni elementi dispiegati ad hoc sulla tela. Come in molti dipinti dell’epoca il pittore ha disseminato infatti una serie di indizi chiari, incaricati di svelare qualcosa dell’effigiata: dai fiori ricamati sul corpetto trasparente alla collana, fino alla cintura guarnita di perle, tutto ricorda il nome ’Margherita’, e con esso i tradizionali valori che venivano associati a queste gemme (margarites appunto in greco). L’inserto dell’elemento fantastico, malgrado l’assenza di aureola a cingere il capo della donna, permette di cogliere il riferimento mascherato e conferma quanto si era fin qui solo potuto intuire. La dama, che portava quindi verosimilmente il nome di Margherita, si fa qui rappresentare nelle vesti di santa Margherita d’Antiochia che ha appunto nel drago il suo attributo iconografico più riconoscibile. Malgrado l’assenza di dati che consentano di chiarire il contesto della committenza, resta da annotare tuttavia come l’inserimento della figura della martire nei dipinti si legasse spesso al suo essere anche patrona delle partorienti.273

Purtroppo quasi nient’altro è dato sapere su questo curioso ritratto muliebre.274 La

critica, che in passato aveva proposto – senza motivi apparentemente fondati – d’identificare la donna nella duchessa Eleonora d’Urbino, vi vede ora, in modo più convincente, delle significative somiglianze fisionomiche con il volto della donatrice dipinta, sempre da Savoldo, nella tela con l’Adorazione del Bambino con due committenti che si conserva ad Hampton Court.275 Circostanza che farebbe pensare a 273Come altre sante provenienti dall’Oriente, anche Margherita veniva considerata una sorta di “specialista universale” invocabile dai fedeli. Seguiamo di nuovo Mitterauer: “Ovunque si invocasse il suo nome, egli (il santo di riferimento) poteva esaudire l’orante, concedendo il suo aiuto. Conformemente a questa raggiungibilità universale, si giunse, tra questi santi, a una sorta di «divisione del lavoro». A seconda delle specifiche esigenze, risultava particolarmente efficace l’intercessione di questo o di quell’altro santo. Una di queste «specialiste universali» era, per esempio, santa Caterina d’Alessandria. Si credeva che ella avesse comunque la garanzia d’essere esaudita dal Cielo, dovunque, nel mondo, le partorienti la invocassero nel travaglio del parto. Ancor più importante, come soccorritrice delle partorienti, era santa Margherita.” (cfr. MITTERAUER, Antenati e santi. L’imposizione del nome nella storia europea, cit. pp. 350-351).

274Stupisce prendere nota che del solo altro caso riscontrato di possibile ritratto “in veste di” santa Margherita si sa ancora meno, dal momento che l’unico riferimento in nostro possesso è letterario e piuttosto incompleto. Marcantonio Michiel annota infatti di aver visto nella casa padovana di Misser Pietro Bembo “il ritratto de Madonna Laura amica dil Petrarcha fu di sua mano di... tratto da una Santa Margerita, che è in Avignon sopra un muro, sotto la persona della qual fu ritratta Madonna Laura” (cfr. M.A. MICHIEL, Notizia d’opere del disegno, cit., p. 31, ripreso in E. DAL POZZOLO, Colori d’amore. Parole, gesti e carezze nella pittura veneziana del Cinquecento, Treviso 2008, p. 33). 275Per un confronto con il profilo della donatrice ad Hampton Court si veda la scheda di Elena

una plausibile coincidenza, in termini d’identità, tra le due dame effigiate e a un possibile rimando a un’unica, e per ora ancora misteriosa, famiglia responsabile della committenza di entrambe le tele.

La consuetudine al “travestimento” dei propri soggetti era tuttavia, a quanto pare, consona al pittore, se si considera che la Santa Margherita ha innegabilmente un parallelo – che parte della critica ritiene precedente, parte invece successivo – nel Ritratto di dama in veste di santa Caterina, ora di ubicazione ignota ma un tempo presso la collezione Pesenti a Bergamo (fig. 43).276 La composizione presenta lo stesso

taglio dell’opera analizzata in precedenza: un’elegante gentildonna in un interno con finestra che dà di nuovo su di un paesaggio, riccamente abbigliata e acconciata con cura. Nella sinistra ancora un libro, nella destra invece una vistosa spada. Anche qui non paiono esservi dubbi sull’intento ritrattistico presupposto al dipinto: colpiscono, come per la santa Margherita, l’introspezione psicologica al pari del piglio deciso stampato sul volto della donna che suggeriscono di scartare la prima denominazione dell’opera come Allegoria della giustizia.277 Titolo che se da un lato, proprio in virtù

dell’inserimento dell’attributo in primissimo piano e dell’assenza di aureola, rimanda giustamente ad altro, arricchendo il quadro di significati che esulano dalla semplice messa in posa allusiva del proprio soggetto, non tiene conto del catalogo dell’artista (e nello specifico del legame forte che salda quest’opera alla tela romana, che non è in alcun modo una personificazione).

Resta innegabile tuttavia la circostanza per cui – a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 del Cinquecento, tra Brescia e Venezia (in cui il pittore risiedette a lungo) – Savoldo avesse recepito e fatta propria questa consuetudine, verosimilmente applicata pure ad alcuni dei suoi ritratti maschili.278 Tale prassi gli permetteva di coniugare sulla tela, a un tempo, LUCCHESI RAGNI in Giovanni Gerolamo Savoldo tra Foppa, Giorgione e Caravaggio, cit., pp. 138-139, n. I.16.

276L’analogia tra le due opere viene ribadita in GUARINO in Pinacoteca Capitolina. Catalogo generale, cit., p. 184, così come in Tiziano e il ritratto di corte da Raffaello ai Carracci, cit., p. 332. Prima di Bergamo (alla collezione Pesenti) l’opera era segnalata a Venezia, presso la raccolta Bruini.

277Con questo nome – espresso tuttavia in modo dubbioso – compariva già in BOSCHETTO, Giovan Gerolamo Savoldo, cit., tav. 26. Sulla tela si legga F. FRANGI, Savoldo. Catalogo completo dei dipinti, Firenze 1992, pp. 111-112, n. 34, e per un accenno veloce, in cui si ricorda come si tratti di una delle poche opere firmate dell’artista, B. PASSAMANI, Architettura della mostra e sue vicende formative, in Giovanni Gerolamo Savoldo tra Foppa, Giorgione e Caravaggio, cit., pp. 13-25: 16. 278Si tratta di realizzazioni (come Il San Gerolamo, forse un autoritratto, di collezione privata

aspetti profani (l’eleganza dell’abito delle dame e la messa in scena parlano da sole) e devozione privata, in nome di una rinnovata sensibilità religiosa. Alla quale forse non risulta estraneo l’influsso di Pietro Contarini, modesto letterato ma esponente politico lagunare di primo piano all’epoca,279 il quale assieme alla sua cerchia fu tra i

committenti più in vista del pittore dopo il suo trasferimento nella Serenissima. Il rinnovamento morale di cui costui si fece ispiratore nella sua produzione scritta potrebbe forse stare alla base dell’opzione di Savoldo, e dei suoi accorti mecenati, in favore del “mascheramento” criptico che, al pari delle soluzioni viste in precedenza, non occultava ma metteva ancor più in risalto aspirazioni e punti fermi di chi, di volta in volta, scelse una specifica maschera.280

più significative) che si connotano per una profonda elusività iconografica, perennemente in bilico tra ritratti “in veste di” ed effigi di sapore allegorico. Per un inquadramento della questione si vedano A. GENTILI, Savoldo, il ritratto e l’allegoria musicale, in Giovanni Gerolamo Savoldo tra Foppa, Giorgione e Caravaggio, Catalogo della mostra (Brescia, Monastero di Santa Giulia-Francoforte, Schrn Kunsthalle, 1990), Milano 1990, pp. 65-70, e B. AIKEMA, Savoldo, la Città di Dio e il pellegrinaggio della vita, in «Venezia Cinquecento», III, 6, 1993, pp. 99-120.

279Per la figura di Pietro di Gian Ruggero Contarini si rimanda, per ora, alla voce curata da Paolo FRASSON nel Dizionario biografico degli italiani, 28, Roma 1983, pp. 263-264. Per ulteriori informazioni in merito alla sua produzione letteraria e agli orientamenti del suo gusto collezionistico, vedi infra pp. 209-211.

280I dipinti di Savoldo discussi nel testo, realizzati allo scadere degli anni ’30 del Cinquecento, non rappresentano gli unici casi di ritratti “in veste di” santa rintracciabili in età moderna. Sono stati scelti in quanto innegabile si presenta in entrambi una volontà ritrattistica mescolata sulla tela a un altrettanto chiaro travestimento. Vi sono tuttavia anche altre realizzazioni, ascrivibili alla medesima sottocategoria, che meritano attenzione sebbene le proposte avanzate in merito (relative al riconoscimento di una persona reale e, al contempo, alla presenza chiara di una maschera) al momento risultino più labili e incerte. È stato supposto che due tavole di Pietro degli Ingannati, una Giovane donna in figura di santa Caterina (al Museo Poldi Pezzoli di Milano) e una seconda Giovane donna in figura di martire (ora al Portland Art Museum), possano celare dei ritratti nascosti (per il dipinto a Milano si veda la scheda in Museo Poldi Pezzoli. I dipinti, Milano 1982, p. 125, n. 121; per quello a Portland P. CACCIALUPI, Pietro degli Ingannati, in «Saggi e memorie di storia dell’arte», 11, 1978, pp. 23-43: 32-33, fig. 8, e P. HUMFREY, Pietro degli Ingannati as a painter of mythologies, in «Arte Veneta», 73, 2016, pp. 162-167, pp. 162-163). Alla National Gallery di Washington si conserva invece un Ritratto di dama in veste di santa Caterina di Lorenzo Lotto, nel quale si mescolano, al pari delle tele di Savoldo, la ricchezza dell’abbigliamento alla presenza di attributi solitamente riferibili alla martire (l’aureola, la palma del martirio e l’immancabile ruota). Il volto pare tuttavia tradire una resa ideale, dalla quale non traspaiono particolari istanze ritrattistiche. Allude invece alla possibilità che si possa trattare di un’immagine in disguised A. GENTILI, Biografie di donne nel ritratto veneziano del Cinquecento, in Biografie difficili, Atti del convegno (Venezia, 2001), a cura di D.M. Ciani Forza, Venezia 2003, pp. 59-78: 67. A un anonimo pittore veneto, formatosi su modelli veronesiani, spetta la realizzazione di un Ritratto di dama in veste di santa Cecilia, ora al museo di Castelvecchio di Verona. Qui al contrario è viva l’impressione di trovarsi di fronte alle fattezze ben precise di una gentildonna al pari di tante altre ritratte all’epoca. La presenza della palma e delle canne di un organo sullo sfondo, oltre a giustificare la denominazione, fanno supporre che l’effigiata potesse effettivamente chiamarsi Cecilia e in tal modo rifarsi alla propria santa di riferimento. Per un confronto si veda la scheda redatta da Giulio Zavatta in Museo di Castelvecchio. Catalogo generale dei dipinti e delle miniature delle collezioni civiche veronesi. II. Dalla metà del XVI alla metà del