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Dalla chiusura all’apertura: il progressivo ritorno della Cina sulla scena globale

FONDAMENTI E PROIEZIONI IDEOLOGICHE E CULTURALI DEL NUOVO ORDINE CINESE: ARMONIA, ORDINE ED ASCESA PACIFICA

2.1 Dalla chiusura all’apertura: il progressivo ritorno della Cina sulla scena globale

Il presente capitolo sarà a dedicato ad una disanima di quelle che sono le principali caratteristiche delle narrazioni geo-culturali cinesi, alla base appunto delle strategie di coesione interna e di promozione degli interessi cinesi a livello internazionale. In precedenza è stata proposta una breve analisi dei cosiddetti cicli di sviluppo della storia cinese, unitamente ai principali fondamenti ideologici su cui è stata basata e giustificata nei secoli la coesione dell’universo cinese ed il suo rapporto con il mondo esterno, sia esso rappresentato dai barbari alle frontiere settentrionali o dall’arco dei paesi confuciani e del Sudest asiatico, sia dalle potenze occidentali più recentemente insediatesi soprattutto sulla fascia costiera. Gran parte del XX secolo è stata caratterizzata da una assenza o da una parziale presenza della Cina sulla scena mondiale definizione e creazione degli equilibri globali: in una prima fase questa assenza fu dettata dalla frammentazione e dal caos politico, mentre nella successiva, caratterizzata essenzialmente dal maoismo, a prevalere, fatte salve alcune eccezioni, è stata una proiezione molto più orientata verso l’interno, nel nome di una modernizzazione da attuarsi principalmente sul piano ideologico. La stessa presenza od azione a livello internazionale della Repubblica popolare Cinese era inserita, pur con alcune peculiarità, in un contesto in cui era l’ideologia o la contrapposizione ideologica a giocare un ruolo fondamentale. La visione culturale cinese non veniva proiettata verso l’esterno in una dimensione che mirasse ad essere competitiva sul piano culturale, puntando invece l’accento su un piano puramente ideologico104.

La fine del maoismo e l’inizio dell’epoca del gaige kaifang 改革开放 (riforme ed apertura) voluto da Deng Xiaoping ha profondamente mutato la prospettiva dei decenni maoisti, garantendo alla Repubblica Popolare Cinese un vantaggio strategico che avrebbe sostanzialmente permesso al paese una situazione di sostanziale stabilità anche nel corso delle tensioni e dei cambiamenti che nel 1989 avrebbero radicalmente portato ad una ridistribuzione dei ruoli sulla scena globale: una stabilità che può essere interpretata come il segno dell’implementazione di una strategia politica, culturale ed economic in grado di contenere e contrastare le eventuali spinte alla frammentazione, che erano invece presenti in altre aree dello scenario internazionale.105 Nel 1989 da oltre un decennio, ed apparentemente










104 Roderick MacFarquhar, The Succession to Mao and the End of Maoism 1969-1982, in Roderick MacFarquhar (Ed.), The Politics of China – The Eras of Mao and Deng, Cambridge University Press, 1997 pp. 248-339. 105 Michael Ng-Quinn, Deng Xiaoping’s Political Reform and Politica Order, in Asian Survey, Vol. 22, No. 12, 1982, p. 1193.

senza soluzione di continuità, la Repubblica Popolare Cinese aveva iniziato il trapasso o meglio il superamento della visione maoista, nel nome di una visione strategica di lungo periodo il cui fine era quello di ricollocare il paese al centro della scena globale, facendone uno degli attori primari, non più limitato a ricoprire una dei ruoli di contorno. Quella che appare oggi come un’intuizione o un’impresa strategicamente vincente da parte della dirigenza cinese, presentava tuttavia all’inizio non poche incognite dovute non di rado anche ad alcune marcate forme di resistenza interna da parte di elementi filo-maoisti che avrebbero voluto il mantenimento del precedente ordine politico ideologico106. All’inizio delle riforme la Repubblica Popolare Cinese stava progressivamente uscendo da decenni di effettiva chiusura ed isolamento a livello internazionale, segnati internamente da tutta una serie di scontri ideologici che avevano assunto, in alcune fasi, una particolare intensità e che avevano profondamente spossato il paese, soprattutto nella celebrazione di una virulenza, di una violenza e di uno spirito bellico che venivano presentati come un elemento vitale e positivo: la rivoluzione culturale maoista fu probabilmente il momento in cui maggiormente questa visione aveva cercato di impossessarsi anche di quelle che erano le istituzioni ed il fondamentale ruolo dello stato.

Partendo da queste premesse si può comprendere meglio il cambiamento rappresentato dalla politica di riforma di Deng Xiaoping, che non solo proponeva tutta una serie di fondamentali riforme economiche ma, implicitamente, presupponeva una quasi radicale rifondazione della nazione e della cultura cinesi sulla base di equilibri del tutto inediti, e questo non solo in rispetto al periodo maoista107. Nel nome della continuità, quello che è stato portato avanti a partire dalla fine degli anni settanta è stato un radicale cambiamento, che anche dal punto di vista culturale ha radicalmente modificato le narrazioni, le immagini, gli slogan proposti dal potere sul territorio: dalla esaltazione della lotta e del conflitto, dalla celebrazione dello spirito bellico e dalle “tigri di carta” del capitalismo si è passati, progressivamente ma inesorabilmente, alla celebrazione della pace e dell’armonia, tanto sul piano interno, che internazionale. Una serie di narrazioni quindi che, pur venendo ufficialmente presentate come il compimento e la diretta conseguenza del Mao Zedong sixiang 毛泽东思想 (il “Mao Zedong pensiero”), ne sono invece un superamento se non una profonda pressoché totale messa in discussione. Questo è evidente soprattutto nel recupero di tutta una serie di concetti e di slogan che fanno chiaramente riferimento a quella visione confuciana che il pensiero maoista aveva cercato di sradicare dalla cultura cinese, in nome di un nuovo ordine culturale ed ideologico. Un salto di qualità in tal senso avvenne nel 1992, quando Deng Xiaoping - all’indomani dello stallo politico ed economico che aveva seguito la repressione del movimento studentesco di piazza Tian’anmen - lanciava da Singapore, in cui si trovava in visita ufficiale, la cosiddetta “seconda fase” delle riforme. In quella sede Deng










106 Frederick C. Teiwes, Warren Sun, The End of the Maoist Era: Chinese Politics During the Twilight of the Cultural Revolution, 1972-1976, East Gate, New York, 2007, pp.409.

107 Pur non apparendo inizialmente al primo posto dell’agenda riformista, la cultura assumerà un ruolo fondamentale nella riforma denghista, al punto tale da essere stata coniata la definizione wenhua re (febbre culturale) per indicare l’importanza strategica da essa assunta a partire dall’epoca delle riforme. A tal proposito si rimanda a Shiping Hua, Introduction: Some Paradigmatic Issues in the Study of Chinese Political Culture, in Shiping Hua (Ed.), Chinese Political Culture 1989-2000, East Gate, New York, 2001, pp. 4-5.

Xiaoping esaltò il sistema politico della città stato asiatica – caratterizzata dalla presenza di una attivissima ed economicamente vitalissima comunità cinese – elevando la a modello non solo per lo sviluppo economico cinese, ma anche culturale e politico. Il paternalismo confuciano sarebbe diventato da quel momento il nuovo collante ufficiale della nazione, abbandonando nei fatti tutta una serie di narrazioni precedenti ed ormai evidentemente superate108.

Da una Cina ideologicamente chiusa ed impermeabile a quanto avveniva all’esterno, si passa ad una Cina pronta ad entrare con un nuovo ruolo sulla scena globale: un ruolo imperniato sul recupero del confucianesimo inteso come collante interno, ma anche come ponte per ricucire tutta una serie di interrotti legami con le comunità cinesi del Sudest asiatico, per decenni dimenticate in nome della contrapposizione ideologica. Con la fine del bipolarismo, ed al fine di non soccombere culturalmente sul piano globale, la Repubblica Popolare Cinese ha iniziato una ridefinizione delle proprie strategie culturali: le quattro modernizzazioni proposte da Deng Xiaoping al di là dell’importanza economica e sociale implicano la definizione di una ben più ampia strategia dal punto di vista culturale, in grado di assicurare alla Repubblica Popolare Cinese anche un ruolo che non sia di primo piano unicamente dal punto di vista economico e/o finanziario. La cultura diviene un pilastro fondamentale per evitare che i cinesi si trovino ad essere consumatori e fruitori passivi di modelli e prodotti culturali di derivazione per lo più occidentale109.

Spesso in Occidente questi ultimi decenni della storia cinese vengono presentati come il periodo che ha comportato l’apertura della Cina nei confronti del mondo esterno. Si tratta tuttavia di una prospettiva occidentale, propria di quanti si trovano appunto al di fuori dei confini cinesi. Per il cinese medio invece l’apertura della Cina non significa solamente questo aver spalancato le porte alle imprese e hai capitali stranieri: significa soprattutto un’apertura che ha consentito l’uscita dalla Cina sia in senso fisico (la possibilità di viaggiare all’estero), ma anche economico (il famigerato “made in China”) e culturale (il tentativo sempre più consapevole di elaborare un soft power). Molte delle prese di posizione contro il “made in China” che si registrano in Occidente sembrano non voler cogliere il dato della proiezione, proprio di una Cina contemporanea che molti vorrebbero continuare a interpretare quale attore passivo sulla scena globale dal punto di visto economico, politico e culturale. Pare tuttavia irrimediabilmente finita l’epoca dell’esotismo e della lontananza110.

Il questo senso le “quattro modernizzazioni” denghiste rappresentano la ripresa, o forse il compimento, di un percorso iniziato molti decenni prima con i tre principi del popolo di Sun Yat-sen: un approdo della Cina, e della cultura cinese in senso lato, sui lidi di una compiuta modernità.










108 L’apprezzamento di Deng Xiaoping per il modello offerto da Singapore era comunque di ben più antica data, e si può far risalire al primo viaggio compiutovi nel 1978, all’indomani dell’ascesa al potere. Si rimanda a Michael Leifer, Singapore's Foreign Policy: Coping with Vulnerability, Routledge, New York, 2000, pp. 114-115. 109 Xudong Zhang, Chinese Modernism in the Era of Reforms: Cultural Fever, Duke University Press, 1997, pp. 66-67.

110 Zhijian Tao, Drawing the Dragon: Western European Reinvention of China, Peter Lang, Bern, 2009, pp.139-140.