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POTENZIALITA’ E LIMITI NELL’AFFERMAZIONE DI UN SOFT POWER CINESE

3.1 Un necessario salto di qualità

I capitoli precedenti sono stati dedicati alla trattazione dei pilastri dell’ordine e della strategia politica e culturale cinesi, riservando uno sguardo particolare al complesso percorso storico che ne ha favorito l’affermazione, insieme al processo di ripresa ed adattamento di tale visione ad un paese lanciato sulla via delle riforme e della modernità. Un peso ed uno spazio particolare è stato riservato al binomio unità frammentazione, che costituisce indubbiamente una chiave fondamentale per comprendere - anche nei decenni più recenti – l’evoluzione politica, sociale, economica e culturale della Repubblica Popolare Cinese. Nell’ultima parte del capitolo precedente, in modo particolare, si è trattato del revival confuciano e di come esso costituisca, anche dal punto di vista teorico, la base di un’ideologia unitaria che ha tuttavia profonda influenza su quella che è la generale visione del mondo secondo l’ottica cinese. A tal proposito si è visto come alla narrazione confuciana corrisponda l’affermazione di teorie geografiche e geopolitiche prettamente sino-centriche che aspirano ad assegnare uno specifico ruolo su scala regionale e globale alla Repubblica Popolare Cinese.

Questa sorta di nuova ambizione cinese appare strettamente legata al sempre più determinante ruolo esercitato dal colosso economico cinese sulla scena globale: pur in un periodo, come l’attuale, segnato da grave recessione la Cina è stata solo relativamente toccata dalla crisi finanziaria ed economica che ha invece messo a dura prova le maggiori economie del pianeta, Stati Uniti , Giappone ed Unione Europea in primis. Molti analisti hanno sottolineato il fondamentale ruolo di contenimento esercitato dalla Cina, che avrebbe consentito di limitare gli effetti negativi della crisi a livello globale. Il riconoscimento ufficiale della fondamentale importanza esercitata dalla Repubblica Popolare Cinese sulla scena economica globale può essere fatto risalire alla fine del 2001 quando, con la positiva conclusione dei negoziati per l’entrata nel WTO, l’economia cinese veniva a pieno titolo integrata nel complesso sistema economico alla base della globalizzazione207. Già negli anni immediatamente precedenti tuttavia la Cina aveva dato prova di essere ormai pronta ad assumere un ruolo di maggiore rilievo – nello specifico sullo scenario regionale – quando limitò, grazie ad un’adeguata politica










207 Pradeep Agrawal, Pravakar Sahoo, China's Accession to WTO: Implications for China and India, in Economic and Political Weekly, Vol. 38, No. 25, 2003, pp. 2544-2551. Si veda inoltre Hui Feng, The Politics of China's Accession to the World Trade Organization: The Politics of China’s Accession to the World Trade Organization, Routledge, London/New York, 2006.

monetaria, gli effetti della crisi dei mercati asiatici che nel 1998 costituì una sorta di anticipazione della crisi attualmente in corso208.

L’entrata nel Wto rappresentò in un certo qual modo un punto di arrivo delle riforme lanciate oltre due decenni prima da Deng Xiaoping: un percorso che aveva portato dal pressoché totale isolamento – economico oltre che politico - del 1978 all’integrazione con i flussi finanziari e commerciali globali, sancita appunto dall’ingresso nel WTO. In questo processo che è, in fondo ben lungi dal potersi dire concluso, si è assistito quindi all’affermazione di un ruolo geo-economico cinese che appare sempre più in grado di condizionare le scelte e le strategie globali, basti pensare al vitale nodo del rifornimento energetico e dell’approvvigionamento di materie prime in genere, che vede proprio i cinesi impegnati in prima linea sui maggiori fronti strategicamente più caldi del globo: dall’Asia centrale all’Iran, dall’Africa (Sudan in primis) al Sudamerica (con particolare attenzione al Venezuela), senza contare inoltre la progressiva avanzata cinese anche ai confini dell’Unione Europea, in aree come la Turchia e i Balcani. In molte delle questioni globali l’apporto, se non il consenso, cinese appare determinante nella risoluzione di molte delle questioni maggiormente dibattute: un caso assai significativo è dato dalle tematiche ambientali, con particolare riferimento al tema della riduzione delle emissioni di CO2, in cui è indispensabile il coinvolgimento e l’impegno cinese. Quest’ultimo è sovente fonte di forti contrasti in sede internazionale a causa del rifiuto cinese nel prendere misure che produrrebbero un inevitabile rallentamento nella crescita e nello sviluppo economico.

Come si può notare dagli esempi appena citati, l’apporto cinese nella gestione delle principali questioni e crisi a livello globale appare ormai ineludibile, indice di un potere che si è andato affermando anche dal punto di vista politico oltre che economico. Da una posizione sostanzialmente defilata e maggiormente concentrata sulle proprie problematiche interne - legate essenzialmente all’implementazione della politica riformista – la Repubblica Popolare Cinese è passata ad un ruolo maggiormente assertivo, come testimoniano in maniera evidente anche le prese di posizione di natura prettamente territoriale verificatesi recentemente, quali ad esempio la tensione con il Giappone circa la sovranità sull’arcipelago delle isole Diaoyu/Senkaku, oppure la centrale questione dello status del Mar della Cina Meridionale, dove Pechino appare intenzionata a risolvere a proprio favore molte delle dispute relative ai confini marittimi pendenti da svariati decenni209.

Considerando questo inedito ruolo cinese sulla scena globale, appare tuttavia inevitabile la questione relativa al modo in cui esso viene percepito e presentato a livello globale, con particolare riferimento al










208 Sulle implicazioni relativa alla ristrutturazione del sistema economico cinese ed al ruolo cinese nella crisi finanziaria del del Sudest asatico del 1998 si rimanda a Wang Mengkui (Ed.), China in the Wake of Asia's Financial Crisis, Routledge, London/NewYork, 2009.

209 Per una esaustiva trattazione degli aspetti storici e geografici legati al contenzioso sino-giapponese intorno alle isole Diaoyu/Senkaku, che hanno tra l’altro portato a notevoli tensioni tra i due paesi nel corso de 2010, si rimanda a Unryu Suganuma, Sovereign Rights and Territorial Space in Sino-Japanese Relations – Irredentism and the Diaoyu/Senkaku Islands, University of Hawai’i Press/Association for Asian Studies, 2000. Per una trattazione sull’origine storica e geografica delle dispute nel Mar Cinese meridionale si veda Stein Tønneson, the History of the Dispute, in Timo Kivimäki (Ed.), War or Peace in the South China Sea?, Nias Press, Copenhagen, 2002, pp. 6-23.

ruolo svolto proprio da Pechino nel promuovere un’immagine ed un’affermazione che vada oltre, il pur indispensabile e determinante, peso economico ed ormai anche militare. In riferimento a quest’ultimo punto vale la pena infatti sottolineare come il tema della spesa militare cinese, a dispetto di un’ascesa che si vorrebbe pacifica, costituisca uno dei punti su cui è maggiormente concentrata l’attenzione internazionale, e dell’amministrazione americana in modo particolare.

Nei primi decenni delle riforme lo sviluppo cinese, per quanto limitato all’assai dinamica fascia costiera, era essenzialmente percepito nei termini di uno sviluppo basato su una delocalizzazione produttiva da parte di aziende estere che, puntando sui vantaggi garantiti dall’apertura delle ZES promosse da Deng Xiaoping, avevano tratto vantaggio da tutta una serie di fattori altamente competitivi, primo fra tutti una posizione geografica in grado di inserire questa parte della Cina all’interno dei flussi commerciali globali. In tal senso particolarmente interessanti sono le ricerche condotte dalla geografa statunitense Carolyn Cartier, che ha effettuato quello che è probabilmente il più approfondito studio sull’impatto delle riforme sulla Cina costiera210. La scelta di Deng Xiaoping di lanciare la politica di riforme era basta sulla consapevolezza di poter puntare, dal punto di vista inizialmente geo-conomico, su un’uscita dai limiti dell’heartland, sfruttando appunto la tradizionale porosità del rimland costiero, un vantaggio su cui, pur sempre in una fase di transizione, non poté fare affidamento l’Unione Sovietica di Gorbacev vincolata da un territorio esteso su e contenuto in una dimensione continentale.

Dalla constatazione quindi di un vantaggio geografico parte il fenomeno del cosiddetto made in China che, nel corso degli ultimi decenni, ha contribuito a rafforzare la penetrazione cinese sui mercati globali. Una penetrazione che non ha tuttavia mancato di favorire la rivendicazione di misure protezionistiche atte a tutelare i vari mercati nazionali dall’“invasione gialla”. Se un tempo erano i flussi di immigrati cinesi a destare il pericolo di una “invasione gialla”, come testimoniava già nel 1882

il celebre China Exclusion Act211 varato dal congresso americano, un secolo dopo alle esportazioni è

stato affidato il compito di favorire la penetrazione economica cinese a livello globale, nell’ambito di quella che è può senza dubbio essere dipinta come una strategia geo-economica. Profondamente radicata anche alle specifiche caratteristiche territoriali, sociali e culturali del sud della Cina, il fenomeno delle esportazioni cinesi ha favorito la nascita sulla fascia costiera di quella che è stata definita un’economia export oriented, che ha potuto svilupparsi grazie alla presenza di una forza lavoro pressoché sterminata e dai costi irrisori. Costantemente nutrito da imponenti flussi migratori che, dalle










210 Carolyn Cartier, Globalizing South China, Wiley Blackwell, Oxford , 2002, pp. 176-259. Sulle proiezioni geografiche dei legami tra la fascia costiera il Sudest asiatico si rimanda inoltre, sempre ad opera della medesima autrice, a Carolyn Cartier, Origins and Evolution of a Geographical Idea: The Macroregion in China, in Modern China, 2002, No 28, pp.79-112.

211 Promulgato negli Stati Uniti nel 1882 il China Exclusion Act avevcome obiettivo quello di bloccare il flusso migratorio che dalle regioni costiere aveva portato in nord America migliaia di cinesi, che venivano impiegati essenzialmente negli impianti minerari o nella realizzazione di infrastrutture come strade e ferrovie. Più volte integrato e modificato, il China Exclusion Act sarebbe comunque rimasto valido fino al 1943 quando vennero ufficialmente rimosse le barriere per il trasferimento dei cinesi negli Stati Uniti.

zone più periferiche e povere del paese, hanno condotto e continuano a condurre nelle aree urbane o nei distretti industriali costieri milioni di operai ed operaie, questo sviluppo ha posto le basi dell’affermazione della Cina quale fabbrica del pianeta, proprio per sottolineare l’importanza data dal fattore produttivo e delle esportazioni. Proprio in questi fenomeni, che hanno garantito, soprattutto nei primi due decenni di riforme, il successo ed il decollo di tutta la fascia costiera è tuttavia insito il limite stesso della percezione riguardante la Cina livello globale. Se il made in China ha di fatto segnato l’ingresso della Cina sui mercati globali, esso ha anche contribuito a diffondere ed esportare un’immagine della Cina non sempre positiva e scevra da visioni stereotipiche e limitanti. Prima fra tutte emerge quella legata alla cosiddetta scarsa qualità del made in China, sovente associato alle scorrette pratiche del dumping e del mancato rispetto della proprietà intellettuale. Ciò ha fatto nascere in numerosi paesi occidentali dei veri e propri movimenti di opinione contro la produzione ed i prodotti cinesi, accusati inoltre di favorire, in epoca di crisi economica, il trasferimento di attività produttive proprie dei paesi occidentali nella Repubblica Popolare Cinese. Negli Stati Uniti nel vivo della campagna per le elezioni di mid-term del 2010, uno dei temi più cavalcati dall’opposizione repubblicana era proprio quello di una crisi economica americana di cui, in termini occupazionali, proprio la Cina veniva considerata la maggiore beneficiaria212. Certo si tratta di una visione limitata e parziale, che non coglie la complessità del processo di riforma e sviluppo cinese; si tratta tuttavia di considerazioni che, volutamente ed abilmente alimentate al di fuori della Cina, hanno cercato di contenere l’avanzata dell’economia cinese sui mercati internazionali.

Un altro punto particolarmente importante, pur non essendo direttamente dipendente dalla sfera economica, fa riferimento a quella che può essere definita l’esportazione di valori e concetti afferenti all’ambito più strettamente culturale. Molto spesso alla Repubblica Popolare Cinese viene associata l’immagine di un paese sottoposto ad un regime illiberale ed oppressivo, in cui vengono negate le libertà fondamentali ed a cui, proprio in virtù di questi ultimi aspetti, non può venire concesso il diritto a quell’esportazione di valori che rientra invece tra gli “obblighi” di un’Occidente, impegnato in talora discusse operazioni di esportazione della democrazia.

A partire dall’inizio del nuovo secolo il governo cinese sembra aver tuttavia colto appieno l’importanza di esercitare una politica che, a livello internazionale, presenti l’immagine di una Repubblica Popolare Cinese che superi gli stereotipi appena citati, iniziando a porre le basi per l’affermazione di un ruanshili 软实力, un soft power cinese adeguato alle aspirazioni di una potenza globale il cui ruolo mira ad andare ben oltre quello di fabbrica del mondo.

I lineamenti della rinascita culturale confuciana che si è visto in precedenza essere alla base della strategia di coesione interna cinese, sono anche alla base del tentativo compiere il fondamentale salto










di qualità nella diffusione di un soft power cinese in grado di cementare quel Beijing Consensus (Beijing Gongshi 北京共识)213 su cui Pechino intende puntare per la propria strategia a livello internazionale. Un’alternativa al Washington Consensus in cui, utilizzando le parole di Arif Dirlik ,“the most important aspect of the Beijing Consensus may be an approach to global relationships that seeks, in multinational relationships, a new global order founded on economic relationships, but which also recognizes political and cultural difference as well as differences in regional and national practices within a common global framework”214. Alla base del rafforzamento e della strategia del Beijing Consensus non è solamente una determinata visione economica ad essere coltivata, ma anche una visione culturale che rende fondamentale per il regime di Pechino un’esportazione di immagine che superi i tradizionali stereotipi che stanno portando alcuni autori a parlare della necessità di un effettivo salto di qualità nella strategia cinese215.

All’interno del discusso Beijing Consensus, che si pone come alternativa ad un superato Washington Consensus, la strategia culturale e l’esportazione di valori (nella più vasta accezione) giocano quindi un ruolo di grande importanza, portando la sfida della competizione cinese ad un livello più alto, implicando scelte e strategie che vanno ben oltre la pura e semplice sfera economica ma che sembrano destinate a provocare un mutamento profondo e di assai vasta portata. Stefan Halper, che al Beijing Consensus ha dedicato un testo approfondito ed a tratti provocatorio per l’Occidente, vede in questa sfida un punto fondamentale per la competitività del modello americano (e, si può aggiungere, occidentale in genere): “ Beijing’s challenge, if not met, will alter both the substance and the tones of global affairs for decades. The United States has no choice but to revitalize the American story to make the American values and the American brand again synonimous with innovation, progress and fairplay. Most importantly we must rekindle the drive among others to acquire and preserve democratic freedoms”216.