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La seconda fase delle riforme e la retorica dell’unità

FONDAMENTI E PROIEZIONI IDEOLOGICHE E CULTURALI DEL NUOVO ORDINE CINESE: ARMONIA, ORDINE ED ASCESA PACIFICA

2.5 La seconda fase delle riforme e la retorica dell’unità

I fatti e la repressione di piazza Tian’anmen costituiscono una cesura fondamentale nel processo di riforma, separando in maniera netta quella che viene definita la prima fase delle riforme dalla seconda. Nel primo decennio, compreso tra il 1978 e il 1989, la politica riformista aveva ottenuto un indubbio successo, imprimendo un cambiamento epocale al paese e modificando sensibilmente gli equilibri interni. Pur al di là di quanto inizialmente previsto o inteso, questo cambiamento non aveva esitato ad investire anche ambiti che oltrepassavano là della sfera prettamente economica, lasciando intravvedere proprio alla fine degli anni Ottanta la necessità di un salto di qualità che desse un nuovo impulso al cambiamento. Gli eventi verificatisi in piazza Tianan’men possono quindi essere considerati non come il punto di arrivo, ma una prima tappa nella complessa architettura della riforma. Una tappa indubbiamente assai complessa che ha creato non pochi problemi sia a livello interno che internazionale156. A livello internazionale la crisi della primavera del 1989 si era tradotta in un indubbio danno di immagine e credibilità per una dirigenza cinese che fino a quel momento era sembrata assai più abile e previdente delle controparti europee o sovietiche nel gestire una fine del bipolarismo che, a ragione, sembrava ormai inevitabile ed imminente. La condanna a cui andò incontro il governo cinese per la sanguinosa repressione del dissenso studentesco in piazza Tian’anmen aveva avuto, negli anni immediatamente successivi, tra le maggiori conseguenze la netta diminuzione del flusso di capitali ed investimenti stranieri nelle province e nelle ZES toccate dalla riforma157. Ad uno stallo politico e culturale si aggiunse quindi una fase di particolare incertezza economica, da inserire nel contesto di un profondo e talora drammatico riassetto degli equilibri internazionali. Pur avendo compiuto notevoli progressi per quanto riguarda le politiche di apertura e sviluppo, nel primo decennio delle riforme la Repubblica Popolare Cinese appariva ancora concentrata in un processo di generale ricostruzione e riequilibrio interno, per la cui realizzazione era indispensabile e strategico l’apporto finanziario della comunità internazionale.










moderno per indicare “politica” contenga proprio il carattere zhi 治: zhengzhi 政治. Si veda Anne Cheng, Histoire de la Pensée Chinoise, Seuil, Paris, 1997, pp. 75-79.

156 Alan P. L. Liu, Aspects of Beijing's Crisis Management: The Tiananmen Square Demonstration, in Asian Survey, Vol. 30, No. 5, 1990, pp. 505-521.

157 Taifa Yu, The Conduct of Post-Tiananmen U.S. China Policy: Domestic Constraints, Systemic Change, and Value Incompatibility, in Asian Affairs, Vol. 19, No. 4, 1993, pp. 229-247.

Osservando tuttavia l’andamento del processo di riforma, si può affermare come l’impatto negativo degli eventi del 1989 sia stato positivamente assorbito già a partire dai primi anni Novanta, periodo che coincide con il definitivo lancio della seconda fase delle riforme: una ripresa del percorso riformista che era nuovamente possibile proprio grazie alla ripresa del flusso di capitali stranieri. Ancora una volta un ruolo di primaria importanza fu giocato dagli Stati Uniti che, pur avendo duramente criticato la repressione del movimento per la democrazia, erano consapevoli dell’importanza di una Cina stabile e vincolata al peso economico americano, in un contesto caratterizzato dall’emergere di nuove minacce e sfide per la supremazia degli Stati Uniti.

È in questa seconda fase delle riforme che la fisionomia dello sviluppo cinese cambia sensibilmente assumendo una progressiva apertura verso l’esterno in larga parte ignota alla fase precedente. Uno dei motti che avevano fatto da corollare alla prima fase della riforma riprendeva la celebre espressione tao guang yang hui 韬光养晦,letteralmente “coprire la luce e nutrire nella penombra”, ossia “celare le proprie capacità/intenzioni”: questo stava ad indicare la necessità di uno sviluppo concentrato sulle priorità interne, rimandando ad un secondo momento una proattiva presenza sulla scena internazionale158. Con gli anni Novanta, e nonostante la crisi rappresentata dai fatti di piazza Tian’anmen, si inizia a parlare anche a livello interno, e con sempre maggiore, consapevolezza di heping jueqi 和平崛起, “ascesa pacifica”. Termine ancora una volta ereditato dalla teoria politica denghista, questo concetto rivela – per quanto attutito dall’aggettivo “pacifica” – la volontà e la necessità di compiere un salto di qualità che ponga la Repubblica Popolare al centro dell’arena internazionale con un ruolo da autentica protagonista. Un’ascesa basata sulla volontà di raggiungere uno status di riconosciuta potenza economica, unitamente ad una inevitabile ascesa sul piano militare e – a dispetto dell’aggettivo “pacifica” - culturale159.

Questo salto di qualità nel percorso riformista era dettato indubbiamente dalla necessità di tutelare e garantire la sfera degli interessi cinesi a livello internazionale, ma anche – e non secondariamente – dalla necessità di fornire una base di coesione interna che facesse da antidoto al virus del caos, della frammentazione e del decadentismo culturale che aveva portato alla grave crisi che si era consumata sul finire degli anni Ottanta. Gli anni Novanta sono quindi il decennio in cui si pongono le basi per una sorta di nuovo patto sociale tra il partito e la classe urbana in modo particolare la quale, riconoscendo il fondamento nell’egemonia politica del partito unico il perno di un nuovo sentimento nazionale cinese, richiedeva tuttavia in cambio un’accelerazione del processo di riforme, con un progressivo ampliamento della base sociale del partito e con una sempre più matura ed efficace tutela dell’iniziativa privata e dei vantaggi economici ad essa collegati.










158 Quansheng Zhao, China’s Foreign Policy in the Post Cold War Era, in Guoli Liu (Ed.), Chinese Foreign Policy in Transition, Transaction Publishers, New Brunswick, 2004, p. 296.

159 Guoli Liu, The Dialectic Relationship Between Peaceful Development and China’s Deep Reform, in Sujian Guo (Ed.), China's "Peaceful Rise" in the 21st Century: Domestic and International Conditions, Ashgate, Aderlshot, 2006, pp. 17-38.

Se a scuotere il dibattito culturale cinese nel corso degli anni Ottanta era stato un documentario come Heshang-River Elegy unitamente ad altre manifestazioni del cosiddetto decadentismo post-riforma, già i primi anni Novanta dimostrano un radicale cambiamento di prospettiva, come sembra testimoniare il caso dell’assai celebre pamphlet Zhongguo keyi shuo bu 中国可以说不,“La Cina può dire no”. Rivelatore forse più del titolo, il sottotitolo: “Scelte politiche ed emozionali del post-Guerra Fredda”160. Data alle stampe nel 1996, tale pubblicazione - caratterizzata da un tono alquanto divulgativo e lontano da un rigoroso approccio disciplinare - generò un acceso dibattito all’interno del paese, al punto da poter essere considerata il primo vero e proprio manifesto “di massa” del nazionalismo cinese post-moderno. In tal senso, questo non sarebbe stato che il primo di una serie di opere destinate a comparire sul mercato editoriale cinese, allo scopo di stimolare una maggiore consapevolezza ed orgoglio nazionali. Ultimo in ordine di tempo il testo sulla Cina infelice, a cui si è giò fatto cenno in precedenza. Volume contenente i saggi di un gruppo alquanto variegato di autori, “La Cina può dire no” consente di lanciare uno sguardo su un contesto in cui erano in atto fondamentali cambiamenti, ed in cui si stavano sapientemente promuovendo importanti ed innovative narrazioni di appartenenza geografica e culturale.

Il contenuto del testo rilanciava alcuni dei topoi più frequenti della vulgata nazionalista cinese, vale a dire quello di un paese orgoglioso in cerca di riscatto in seguito all’umiliazione inflitta, su diversi fronti, dall’Occidente ed in genere dalle potenze più sviluppate. Gli autori reclamavano la necessità per la Cina di elevarsi al rango di grande potenza, in grado di non subire passivamente i dettami provenienti dall’Occidente, ma attuando una politica economica, culturale e di sicurezza che potesse porsi quale alternativa al modello occidentale, culturalmente considerato inadatto alla Cina ed alla sua millenaria evoluzione storica.

Il volume in questione rivendicava quindi quella che può essere definita una sorta di rinascita asiatica, ancor più evidente se si pensa che il titolo stesso derivava in realtà da un’analoga pubblicazione che aveva riscosso un enorme successo in Giappone nel 1989: “Il Giappone può dire no”. Opera a quattro mani dell’ex ministro dei trasporti giapponese Shintaro Ishihara e del celebre imprenditore Akio Morita, il volume giapponese era divenuto nell’arco di breve tempo una sorta di manifesto delle nuove istanze del nazionalismo giapponese161. In esso si esprimevano posizioni fortemete critiche nei confronti della supremazia economica, politica e militare degli Stati Uniti e si reclamava da parte del Giappone un ruolo più attivo sulla scena internazionale, un ruolo che rispecchiasse il ruolo di primo piano raggiunto dal paese nell’ambito dell’economia globale. Veniva pertanto sollevato, con clamore,










160 Zhonnguo keyi shuo bu: Lengzhanhou shidai de zheng zhi yu qinggang jueze, Zhonghua gongshang lianhe chubanshe, 1996 (中国可以说不:冷战后时代的政治与情感抉择,中华工商联合出版社, 1996), [La Cina può dire no: scelte emozionali e politiche per il post Guerra Fredda].

161 A riprova della notorietà raggiunta dal testo, esso venne tradotto – per quanto in una versione alquanto edulcorata - anche in lingua inglese e commercializzato negli Stati Uniti. Si veda Shintaro Ishihara, The Japan That Can Say No: Why Japan Will Be First Among Equals, Touchstone Books, 1992.

il tema del riarmo giapponese e della necessità di superare il US – Japan Security Pact , in favore di una politica e strategia di difesa nazionale autonome. Non da ultima veniva la critica a quello che era considerato l’imperialismo culturale americano, che avrebbe indebolito e fiaccato l’autentico spirito e vigore della nazione giapponese.

Pur provenendo da un paese con il quale non mancavano periodici motivi di tensione - dovuti essenzialmente ai tragici eventi della prima metà del XX secolo - il testo giapponese esercitò una profonda di attrazione su alcuni elementi dell’elite cinese, fungendo da autentico modello, alcuni anni più tardi, per la stesura del testo cinese del quale, se non viene condiviso il contenuto, rimane pressoché analogo il tono fortemente critico e provocatorio.

Il testo cinese, come anticipato in precedenza, conteneva in maniera abbastanza scontata tutte quelle che erano le accuse e i motivi di insoddisfazione di una Cina che ambiva ormai apertamente all’ascesa sulla scena globale: un forte anti-americanismo legato a questioni di ormai lunga data come Taiwan, oppure la strategia di contenimento che, a partire dagli anni Novanta, il governo americano aveva iniziato a mettere in atto nei confronti di Pechino. Dall’altro lato veniva duramente attaccato il Giappone, non solo per i precedenti storici, ma per il ruolo “non asiatico” che esso si trovava ad occupare nella regione asiatica, quale client state al servizio degli Stati Uniti. All’interno del volume non mancarono tuttavia dei contributi che assumevano una visione più interna sui problemi cinesi, mettendo in secondo piano l’immagine alquanto inflazionata di una Cina quale “capro espiatorio” sacrificato agli altrui interessi a livello internazionale. Interessante è infatti notare come la questione culturale ed identitaria venisse ancora una volta sollevata e considerata fondamentale per definire il ruolo cinese nel mondo post-bipolare, unitamente ai successivi passi da compiere durante le riforme. Se in pochi anni si era auspicato l’annegamento o la diluizione della cultura cinese nella più vasta distesa liquida rappresentata dalla cultura occidentale, ora era proprio l’eccessiva occidentalizzazione a cui erano stata sottoposta l’ultima generazione cinese ad essere messa fortemente sotto accusa. Questa dipendenza culturale da modelli occidentali aveva finito, secondo gli autori, per favorire un processo di sradicamento e di allontanamento dai valori propriamente cinesi, instillando il virus di quell’individualismo occidentale antitetico rispetto alla tradizionale visione cinese. Non mancava in quest’ultima presa di posizione una critica nei confronti del partito - in particolare nel passaggio tra la seconda e terza generazione di dirigenti che aveva preso il potere in seguito alla riforma162 - che nel processo di riforma non avrebbe salvaguardato l’autentica eredità cinese. Come si può notare quindi il tema della strategia culturale della riforma assume una rilevanza di primo piano e, non stupisce, che il










162 Nella successione alla guida del Partito Comunista Cinese vengono individuate quattro generazioni: la prima generazione è quella dei fondatori della Repubblica Popolare Cinese, rappresentata da Mao Zedong ed altri leader storici come Zhou Enlai, Liu Shaoqi e Peng Dehuai; la seconda generazione, rappresentata da leader del calibro di Deng Xiaoping, Zhao Ziyang e Hu Yaobang, corrisponde alla generazione che traghettò la Cina nella prima fase delle riforme; la terza generazione corrisponde alla fase post-denghista, eda ha avuto come principali esponenti Jiang Zemin, Zhu Rongji, Li Ruihuan; la quarta generazione è al momento rappresentata da Hu Jintao e dal primo ministro Wen Jiabao. Nel 2012 dovrebbe verificarsi il passaggio delle consegne alla quinta generazione che, sembra assai probabile, troverà in Xi Jinping e Li Keqiang i principali esponenti, rispettivamente nella carica di presidente della repubblica e del partito e di primo ministro.

volume pur su posizioni totalmente antitetiche rispetto a Heshang – River Elegy sia stato poi fortemente avversato dal governo cinese, al punto tale da renderlo ancora oggi pressoché irreperibile163. A suscitare particolare interesse è soprattutto il fatto che alcuni degli autori de “La Cina può dire no” non provenissero dalla cerchia più radicale e tradizionalista della cultura cinese, ma fossero giovani esponenti della nuova cultura cinese che avevano, in alcuni casi, preso direttamente parte al movimento studentesco del 1989. In alcuni casi essi avrebbero pagato con il carcere o con l’espatrio entrambe queste, apparentemente inconciliabili, prese di posizione.

In tale breve lasso di tempo questa sorta di contraddizione o, nella migliore delle ipotesi, l’emergere di due visioni così alternative non è certamente casuale, testimoniando invece come proprio all’inizio degli anni Novanta un profondo cambiamento fosse intervenuto nell’indirizzo politico, economico e culturale della riforma. I fatti di Tian’anmen avevano indubbiamente messo in evidenza l’esistenza di linee contrastanti o quantomeno non omogenee all’interno del partito, ma allo stesso tempo avevano agevolato l’emergere di una fazione vincente ed il passaggio a quella che è stata definita la terza generazione, come evidenzia la progressiva ascesa di Jiang Zemin che, partendo proprio dalla fine del fatidico giugno 1989 ricoprirà progressivamente le cariche di Segretario Generale del Partito Comunista, Presidente della Commissione Militare Centrale, Presidente della Repubblica Popolare Cinese. Appare evidente quindi la scelta di Deng Xiaoping di preparare una successione ancora una volta nel segno della continuità, ritirandosi in una posizione sostanzialmente defilata, continuando tuttavia a giocare un ruolo fondamentale nelle successive riforme fino agli ultimi anni della propria esistenza.

Deng Xiaoping, insieme alla nuova generazione che progressivamente si stava avvicinando al potere, aveva fatto dell’imperativo della stabilità del regime il perno principale dell’azione politica, cercando tuttavia delle forme di compromesso con una società civile che si dimostrava disposta a riconoscere il ruolo egemone del partito solo qualora ad esso corrispondesse un effettivo rilancio della politica di riforme con i relativi vantaggi dal punto di vista economico. Al partito spettava quindi realizzare e garantire la stabilità fondamentale per le riforme. Unitamente a tutte le narrazioni che ad essa dovevano fare riferimento: questo spiega per esempio la sostanziale avversione nei confronti di un manifesto politico come “La Cina può dire no” che, pur contenendo elementi che in seguito sono stati indubbiamente presi in considerazione, proponeva un nazionalismo ed una coesione nazionale che non avevano trovato nel partito stesso l’officina di creazione.

Dopo i fatti di Tian’anmen che avevano imposto e diffuso a livello planetario l’immagine di una Pechino oppressiva ed oppressa dal regime, era quanto mai necessario trovare nuovi paesaggi, nuove sollecitazioni geografiche che rilanciassero l’idea delle riforme nel nome della coesione nazionale. In










163 Toming Jun Liu, Restless Chinese Nationalis Currents in the 1980s and in the 1990s, A Comparative Reading of ‘River Elegy’ and ‘China can Say No’, in C. X. George Wei, Xiaoyuan Liu (Eds), Chinese Nationalism in Perspective: Historical and Recent Cases, Greenwood Press, Westport, 2001, pp. 205-232.

tal senso fu ancora una volta l’intuizione di Deng Xiaoping a dimostrarsi vincente e particolarmente perspicace: a partire dal 1992 egli compì una serie di viaggi nel sud del paese, toccando tutte le zone toccate dalla riforma e apertamente ridando vigore allo spirito ed alla necessità della prosecuzione delle riforme per garantire la stabilità e la presa del partito sul paese. Tali viaggi nelle aree meridionali si risolsero in un autentico trionfo per Deng Xiaoping, che riuscì di fatto a guadagnare nuovamente al partito il sostegno di tutte quelle fasce che avevano tratto beneficio dalle riforme ed intendevano continuare sulla via dello sviluppo economico164. La scelta di Deng Xiaoping di compiere questi viaggi, pur in età avanzata, corrispondeva ad un’esigenza che andava ben oltre la semplice convenienza politica, traendo spunto dalle famose nanxun 南寻, ovvero le “ispezioni al sud”, che erano state compiute dai più importanti imperatori dell’ultima dinastia Qing, Kangxi (1654-1722) e Qianlong (1711-1799). Entrambi infatti compirono, all’apice del proprio potere, sei viaggi di ispezione nelle regioni meridionali allo scopo di consolidare il potere della dinastia mancese sull’intero territorio dell’impero. Tali viaggi sono inoltre rimasti nell’immaginario collettivo cinese grazie ad una serie di famosissimi dipinti su rotoli che avevano il compito di diffondere l’immagine dei due imperatori impegnati nella loro opera di ispezione e di controllo per il buon funzionamento del sistema imperiale: celeberrima è, a tal proposito, l’immagine che ritrae Qianlong dinnanzi agli argini costruiti per il controllo delle acque dello Huanghe, secondo il topos dell’imperatore quale supremo regolatore delle acque. Il viaggio di Deng Xiaping aveva quindi il compito di sancire nuovamente la corretta dimensione geografica dello spirito delle riforme, elevando di fatto l’ormai anziano leader cinese ad autentico imperatore e garante dello spirito della riforma. Ancora una volta sono le regioni meridionali, ed in particolare della fascia costiera, a rappresentare il fulcro del nuovo impulso di riforma, che individua a questo punto i due snodi fondamentali in Hong Kong e Shanghai, due metropoli destinate ad incarnare anche visivamente la Cina emergente degli anni Novanta, che intendeva scrollarsi di dosso la negativa immagine della repressione pechinese165.

Hong Kong, fondamentale centro della finanza globale, prima ancora di passare alla sovranità cinese nel 1997, aveva iniziato a svolgere nell’immaginario cinese l’immagine della metropoli cinese aperta al mercato ed al mondo esterno, in cui si sarebbe oltretutto compiuta una delle ultime tappe per il definitivo recupero all’integrità territoriale, rimanendo ancora esclusa Taiwan. Era stato lo stesso Deng Xiaoping ad augurarsi, in un celebre discorso la creazione in Cina (vale a dire sulla costa cinese) di decine di città simili ad Hong Kong, grazie alle quali la Repubblica Popolare avrebbe potuto irradiare il proprio prestigio e la proprie ambizioni di ascesa, per quanto pacifica: un estremo e ambizioso tentativo di conciliare la dimensione continentale con quella marittima. Poichè Hong Kong era una metropoli in cui era evidente e difficilmente minimizzabile l’apporto occidentale, a Shanghai sarebbe










164 Suisheng Zhao, Deng Xiaoping's Southern Tour: Elite Politics in Post-Tiananmen China, in Asian Survey, Vol. 33, No. 8 1993, pp. 739-756.

165 Sulla valenza strategica del viaggio compiuto nel sud della Cina si rimanda a John Wong, Yongnian Zheng (Eds), The Nanxun Legacy and China's Development in the post-Deng Era, Singapore University Press, Singapore, 2001.

spettato il compito di superare il maestro, diventando a tutti gli effetti la proiezione globale delle ambizioni urbanistiche - e non solo - della nuova Repubblica Popolare Cinese.

Nell’ambito della prima fase delle riforme Shanghai aveva svolto un ruolo alquanto defilato, certamente inferiore rispetto alle aspettative di un centro che aveva tradizionalmente occupato una posizione di grande importanza nell’incontro tra la Cina e l’Occidente. Molte delle idee e delle teorie