• Non ci sono risultati.

Nel 1949, con la proclamazione della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, Mao decretò la fine di una fase di decadenza, di frammentazione politica che - divenuta cronica a partire dai primi anni del Novecento - era durata per quasi un cinquantennio. È comprensibile quindi l’importanza e l’alto valore simbolico rappresentato dalla nascita della nuova Cina comunista: per la prima volta dopo decenni la Cina si presentava di nuovo nella sua integrità territoriale, dopo essere riuscita letteralmente espellere dal proprio territorio quel che rimaneva delle armate nazionaliste unitamente ai molti interessi delle potenze straniere che ne erano al seguito. Certamente la Cina comunista si trovava ad orbitare nella sfera ideologica sovietica, tuttavia la posizione di Mao si era fatta notare fin da principio per la

rivendicazione di una sostanziale autonomia dl punto di vista ideologico92. Ciò era sottolineato anche

dalla evidente constatazione di come il successo nella nascita della Cina comunista fosse da attribuirsi solo ed esclusivamente al sacrificio della dirigenza del partito e del popolo cinese. Non è un mistero che Stalin nutrisse fin dall’inizio consideravoli dubbi e sospetti circa l’affidabilità e l’ortodossia ideologica di Mao e del suo partito. A destare particolare sospetto era stata, già negli anni precedenti










92 Richard H. Solomon, Mao’s Revolution and the Chinese Political Culture, University of California Press, 1971, pp.268-288.

alla presa del potere, la volontà di Mao di mettere apertamente in discussione le direttive provenienti da Mosca, tramite gli emissari che operavano in pianta stabile a Shanghai93. Proprio a questa linea del tutto decontestualizzata rispetto alle esigenze della realtà cinese Mao aveva attribuito la causa delle gravi difficoltà incotrate dal partito nei primi anni della persecuzione nazionalista. Dalle aree urbane industrializzate e cosmopolite della fascia costiera era necessario passare a quella che Mao considerava la vera Cina: vale a dire le sterminate aree rurali, caratterizzate da una popolazione ancora fortemente ancorata alla cultura tradizionale che difficilmente avrebbe potuto accettare o sostenere l’applicazione di una narrazione ideologica concepita in un contesto culturale così distante rispetto a quello cinese.

Dopo la Lunga Marcia, nei cosiddetti anni di Yan’an94, Mao e la dirigenza maoista avevano posto le

basi dei fondamenti ideologici e culturali di quella che avrebbe dovuto essere la nuova Cina, cercando ancora una volta un compromesso tra quelle che erano le esigenze della ortodossia ideologica e della applicabilità nel contesto culturale cinese. È interessante notare una sorta di ambiguità di fondo che caratterizzerà, nel corso della sua parabola, tutta la politica e l’ideologia maoista: pur presentando i tratti di una forte critica alla cultura ed alla morale tradizionale – al punto da rasentare in alcuni casi eccessi iconoclasti – il comunismo in versione maoista era in realtà estremamente imbevuto della tradizionale cultura cinese, al punto da rimanere fortemente ancorato ad una visione strettamente sinocentrica, al di là del preteso e decantato internazionalismo delle narrazioni ufficiali. La narrazione maoista rimane quindi una narrazione affermatasi nel contesto più generale della una rinascita dello spirito nazionale e culturale cinese tra XIX e XX secolo.

L’accento posto sulla popolazione rurale, sulle campagne e su quella civiltà agricola, che aveva costituito fin dal nascere lo zoocolo della storia cinese, comportava nei fatti un nuovo riassetto geografico nella distribuzione del potere all’interno della nuova Cina. La fascia costiera che, soprattutto in virtù della presenza delle concessioni occidentali, aveva giocato un ruolo di primo piano nella diffusione della modernizzazione e delle idee occidentali, si trovava ad essere relegata in una sorta di limbo ideologico, proprio a causa del legame con i regimi imperialisti che avevano occupato parte del territorio cinese. Trattandosi comunque delle aree più sviluppate e ricche della nazione, particolarmente complesso fu il rapporto del nuovo potere con la borghesia e i ceti elevati delle città costiere, Shanghai in primo luogo. Dopo i primi anni caratterizzati da un sostanziale stallo politico, con l’inizio del processo di nazionalizzazione a larga parte della borghesia imprenditoriale della fascia costiera non restò aperta che la via dell’emigrazione, che andò ad ingrossare il flusso dei cosiddetti










93 Dieter Heinzig, The Soviet Union and Communist China 1945-1950 – The Arduous Road to Alliance, East Gate Books, 2004, pp.3-50,

94 Yan’an è una piccola città nella centrale provincia dello Shaanxi in cui il Partito Comunista Cinese sotto la guida di Mao pose la propria centrale operativa alla fine della Lunga Marcia, a partire dal 1936. Fu proprio a Yan’an che si consolidò definitivamente la leadership maoista, mentre sempre a Yan’an vennero ufficialmente espresse le linee del partio in materia di politica estera e di egemonia culturale. Si veda Jun Niu, From Yan’an to the World: The Origin and Development of Chinese Communist Foreign Policy, East Bridge, 2005.

d’oltremare, soprattutto verso il Hong Kong, Taiwan, il Sud-est Asiatico95. In nome dell’ideologia comunista la Cina maoista aveva scelto di interrompere ufficialmente i propri rapporti con le numerosissime comunità di cinesi sparse in ogni parte dell’Asia: una interruzione che sarebbe durata svariati decenni, la cui tendenza sarebbe stata invertita solo con la politica di apertura e riforme varata alla fine degli anni Settanta.

Nello sviluppo industriale, anche dal punto di vista geografico, l’obiettivo maoista era quello di ricalcare le tendenze che tradizionalmente avevano caratterizzato lo sviluppo della storia cinese: ossia favorire proprio nella Cina rurale ed arretrata la nascita di impianti industriali che avrebbero dovuto rappresentare un indubbio salto di qualità nel processo di sviluppo delle aree rurali. Si assiste quindi una doppia direzionalità nella strategia di sviluppo maoista: da un lato lo spostamento del baricentro produttivo e dell’innovazione dalla costa verso l’interno, dall’altro la sostanziale uscita dalla città verso le campagne. La prima tendenza appare un evidente ritorno alla continentalità della cultura cinese e viene definita proprio nei primi anni successivi alla fondazione della Repubblica Popolare, corrispondenti tra l’altro alla cosiddetta fase della cooperazione sino-sovietica. Mao nel 1950, all’indomani della presa del potere, compì il suo primo viaggio al di fuori dei confini cinesi proprio in Unione Sovietica. Nel corso di questa visita vennero firmati fondamentali accordi di cooperazione economica e di trasferimento tecnologico tra L’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare. Anche dopo la rottura del trattato di cooperazione sino-sovietico alla fine degli anni Cinquanta, l’attenzione strategica rimarrà per lo più concentrata sul confine continentale, come testimoniano le ripetute tensioni in ambito confinario con la stessa Unione Sovietica, oltre che con l’India. Nella tendenza, che privilegia ideologicamente l’aspetto rurale a scapito di quello urbano, molti studiosi individuano delle ragioni legate anche al dato biografico maoista. Nato in una famiglia di contadini di condizioni abbastanza agiate, Mao aveva vissuto per lungo tempo in prima persona la difficile condizione delle campagne nutrendo altresì una profondo sospetto, se non avversione, nei confronti della cultura urbana da cui negli anni giovanili, proprio a causa della sua origine contadina, si era sentito escluso ed emarginato. Questo potrebbe almeno in parte spiegare il frequente ricorso, nei decenni del potere maoista, alla contrapposizione tra ambiente rurale e campagna, secondo il celebre slogan che recitava “imparare dai contadini”.

Questa visione politica non era esente da punti di notevole contraddizione, che emergeranno in tutta evidenza nel corso del cosiddetto Grande Balzo in Avanti, negli anni tra il 1958 e il 196096. Quest’ultimo si proponeva di realizzare una radicale trasformazione del sistema rurale cinese in nome della collettivizzazione e tramite la creazione delle cosiddette comuni popolari. Tristemente noto fu la campagna per la produzione dell’acciaio, che aveva promosso la creazione di decine di migliaia di fornaci improvvisate in tutti i più sperduti angoli della campagna cinese, allo scopo di superare la










95 Laurence J.C. Ma, Space, Place and Transnationalism in Chinese Diaspora, in Laurence J.C. Ma, Carolyn Cartier (Eds), The Chinese Diaspora, Rowman & Littlefield, 2003, pp.1-50.

96 Alfred L. Chan, Mao’s Crusade, Politics and Policy Implementation in China's Great Leap Forward, Oxford University Press, 2001.

produzione di acciaio della stessa Gran Bretagna. Il risultato fu l’impossibilità, da parte dei contadini, di attendere ai lavori agricoli, cosa che provocò una disastrosa carestia il cui numero di vittime rimane ancora un quesito irrisolto nella storiografia dell’odierna Repubblica Popolare.

Copiosissimi sono gli studi dedicati alla figura di Mao ed alle sue controverse scelte politiche ed ideologiche e sarebbe impossibile renderne conto nelle poche righe qui a disposizione. In questa sede è tuttavia interessante notare alcune delle caratteristiche della narrazione geografica, culturale e strategica maoista che rientrano pienamente all’interno di un percorso evolutivo dalle caratteristiche prettamente cinesi. Questo consente di lanciare uno sguardo inedito sull’interno periodo maoista, identificandolo come una fase di un articolato e ben più ampio processo di evoluzione politica, sociale e culturale. La loss of China citata in apertura, e cruccio di ampi settori della politica occidentale, faceva infatti proprio riferimento alla Cina maoista che è stata per lungo tempo interpretata, sia nelle accezioni positive che in quelle negative, come un dato di fatto pressoché immodificabile ed immutabile del quadro interno ed internazionale. Frutto questo della indubbia abilità di Mao nell’aver imposto sulla Cina una sorta di eterno ed immodificabile presente ideologico, in nome di quello che veniva presentato come un rifiuto di larga parte della tradizione storica precedente bollata come feudale e retrograda. Dalla prospettiva odierna tuttavia il maoismo comincia a presentarsi con un profilo alquanto diverso, soprattutto in considerazione del fatto che ci troviamo di fronte ad una Cina che ha vissuto un periodo di riforme oramai cronologicamente più lungo della stessa fase maoista: quest’ultima inizia ad apparire, pur nella sua importanza, come una parentesi, una transizione all’interno di un percorso storico ben più complesso, che necessita di essere colto in una dimensione ben più ampia.

Dal punto di vista culturale l’ideologia maoista tentò di mettere in atto un radicale processo di modernizzazione della cultura tradizionale, imperniato sul rifiuto dei principali pilastri su cui si era basata l’ideologia unitaria delle epoche precedenti. Primo fra tutti ad essere messo in discussione fu il confucianesimo, di cui veniva contestato l’aspetto anti-egualitario, in netto contrasto con il supposto egualitarismo proprio dell’ideologia maoista97. Alla critica di Confucio e dei valori confuciani furono dedicate innumerevoli campagne e movimenti della propaganda del partito con lo scopo, in verità quasi utopico, di sradicare in via definitiva l’etica e la tradizione confuciana dalla cultura cinese. Quest’ultima veniva vista come un ostacolo alla realizzazione dell’ideale sociale e politico perseguito dal partito, nella sua tendenza a favorire una concentrazione del potere secondo direzioni alternative o contrarie: basti pensare al peso del confucianesimo nelle relazioni familiari o nelle gerarchie sociali proprio all’interno di quel mondo rurale che costituiva il centro dell’interesse ideologico del partito. Ad un’analisi più approfondita appare tuttavia chiaro come l’ideologia maoista tentasse di sostituirsi a quella confuciana su cui per secoli si era basata la coesione dell’impero cinese. L’ideologia comunista in versione maoista aspirava a svolgere e ad occupare quella posizione che in precedenza era stata










97 Joseph R. Levenson, The Place of Confucius in Communist China, in The China Quarterly, No 12, 1962, pp.1-18.

propria dell’ideologia confuciana: pur contrastato in sede ufficiale come il peggiore dei mali, il confucianesimo continuò a costituire se non altro l’esempio di come dovesse essere impostata un’ideologia che garantisse nell’orbe cinese centralità e coesione territoriale98. Molti sono i commentatori che hanno sottolineato le tendenze confuciane che in epoca maoista, e a più riprese, sarebbero sorte all’interno del partito comunista: in questo senso non stupisce quindi la progressiva, ma inesorabile riaffermazione, del confucianesimo nella cina post-maoista, segno di uno sradicamento mai avvento e, forse, solo apparentemente avviato. Da questo punto di vista un’altra consistenza assumono molti degli eventi che caratterizzarono il periodo maoista, soprattutto nella fase successiva al Grande Balzo in Avanti, in particolare nel corso della celebre Rivoluzione Culturale che dal 1966 ha caratterizzato, con alterna intensità, l’ultimo decennio del potere maoista.

Anche a proposito della Rivoluzione Culturale abbondano resoconti degli eventi e studi assai dettagliati, che non è fondamentale riprendere dettagliatamente in questa sede, se non per richiamare il concetti chiave che ne furono alla base. Da un lato vi era la fede in quella che si potrebbe definire come una rivoluzione permanente, in grado di contrastare la riaffermazione degli elementi ed equilibri borghesi o confuciani. Dall’altro lato veniva portata avanti una sorta di celebrazione, in termini quasi futuristi, dello spirito giovanile e del cosiddetto “caos ordinatore” che avrebbe dovuto garantire alla Cina maoista una eterna primavera rivoluzionaria99.

Particolarmente interessate è l’aggettivo “culturale” utilizzato per definire nel dettaglio lo scopo e le ambizioni di tale rinnovamento perseguito dalla dirigenza maoista. Esso può infatti essere inteso anche come un richiamo a quelle che erano le dinamiche che hanno caratterizzato numerose fasi della storia e delle narrazioni cinesi. Particolarmente interessate fu nella fase acuta della Rivoluzione Culturale il richiamo al caos, alla rivolta, alla contestazione nei confronti dell’ordine, secondo modalità che erano tipiche delle rivolte per il geming 革命, vale a dire la rottura del mandato celeste che, concretamente, era solita decretare la caduta di una dinastia e la fine dell’ordine imperiale. È interessante notare come proprio geming 革命 sia il termine utilizzato in cinese moderno quale corrispettivo di “rivoluzione”, termine presente quindi nella stessa definizione cinese di Rivoluzione Culturale (wenhua da geming

文化大革命)100.

L’incitazione alla rivolta o al caos che caratterizza l’ultimo decennio maoista risulta più comprensibile nelle sue dinamiche culturali se si tiene conto dei fattori “instabilità” e “disordine”, quali strutturali all’interno della visione cinese che, pur rifiutando ufficialmente il disordine ed il caos, vede in esso una indispensabile funzione di ridefinizione e rifondazione. Come si avrà modo di sottolineare in seguito, questa continua ambivalenza od oscillazione tra ordine e disordine, tra unità e frammentazione è










98 Tong Zhang, Barry Schwartz, Confucius and the Cultural Revolution – A Study in Collective Memory, in International Journal of Politics, Culture and Society, Vol.11, No 2, 1997, pp. 189-212.

99 Joseph Esherick, Paul Pickowicz, Andrew George Walder (Eds), The Chinese Cultural Revolution as History, Stanford University Press, 2006.

100John Bryan Starr, Continuing the Revolution, The Political thought of Mao, Princeton University Press, Princeton, 1979.

rappresentata, a livello culturale e filosofico, dalla contrapposizione/combinazione tra il confucianesimo e taoismo, le due scuole di pensiero cinesi per eccellenza, le cui visioni spesso vengono, e a ragione, presentate come alternative e contrastanti, ma che non di rado possono essere viste come complementari l’una all’altra101. È evidente quindi nella strategia maoista un fermo ancoramento a quelle che erano le dinamiche proprie della civiltà cinese, nel suo tentativo, certamente non esente da una vena di populismo, di scatenare una rivolta che sancisse il 革命 geming, la rottura del mandato, in nome di un nuovo ordine che avrebbe dovuto garantire la rivoluzione permanente. Questo approccio può aiutare a spiegare i limiti della visione e della politica maoista la quale, pur di impedire quello che può essere definito un processo di stabilizzazione e confucianizzazione del partito, aveva preferito giocare la propria vicenda politica e di statista sul sottile confine tra stabilità e instabilità, tra ordine e caos, tra unità e frammentazione. È noto infatti come a fermare gli eccessi ideologici della Rivoluzione Culturale sia stato ad un certo punto la costatazione di come il caos in cui era precipitato il paese stesse favorendo la nascita di nuove forme di potere locale che avrebbero potuto portare ad una nuova frammentazione. Conseguentemente la valutazione sulla politica, sull’operato e sull’eredità di Mao nella Cina contemporanea risulta segnata da questa sorta di ambiguità di fondo che vede colui che per primo è riuscito a realizzare la coesione nazionale aver giocato, in alcuni casi con rischio estremo, al gioco della frammentazione. La vulgata ufficiale ancora oggi promossa dal partito attribuisce a Mao un settanta per cento di azioni positive, contro un trenta per cento di azioni negative: queste ultime totalmente concentrate nel periodo successivo alla presa del potere nel 1949. A Mao viene riconosciuto ancora oggi l’indiscusso merito e ruolo fondamentale di aver saputo unificare per la prima volta nella storia la nazione cinese, portando a compimento un processo iniziato molto tempo prima il cui obiettivo era tuttavia stato mancato in innumerevoli occasioni. È comprensibile quindi il ruolo che, al di là del dato ideologico, gli viene attribuito quale effettivo realizzatore dell’unità e dell’orgoglio nazionale dopo i decenni dell’umiliazione, dell’occupazione e della guerra civile. Tuttavia la pratica del maoismo quale ideologia fondante della nazione cinese ha finito indubbiamente col mostrare dei limiti di natura culturale e politica, come testimoniano nel corso l’emergere di visioni alternative che progressivamente inizieranno a farsi strada, pur nel ferreo tentativo delle gerarchie maoiste di contrastarle ed eliminarle. Esemplare in tal senso è la teoria delle “quattro modernizzazioni” elaborata da Deng Xiao Ping (1904-1997), di cui si avrà modo di parlare ampiamente nel capitolo successivo e che rappresentò fin dal suo apparire una strategia culturale e politica fortemente alternativa rispetto al maoismo. Ironia della sorte volle che tale teoria fosse per la prima volta compiutamente espressa proprio nel corso del confino a cui fu sottoposto Deng Xiaoping negli anni della Rivoluzione Culturale. I semi della Cina post-maoista furono quindi seminati proprio all’apice del tentativo di Mao di realizzare la propria visione politica, culturale e sociale della nuova Cina. È evidente come il potere maoista abbia riconosciuto i tratti radicalmente alternativi della visione










denghista, di cui tentò di impedire e contrastare la realizzazione con ogni mezzo, anche grazie ad un contesto di generale chiusura ed isolamento del paese, favorito appunto da un sistema bipolare che per lungo tempo aveva considerato la Repubbica Popolare Cinese, a dispetto delle peculiarità e delle dispute ideologiche, come un mondo a sé stante. In epoca maoista la peculiarità culturale della Cina poteva rimanere confinata per lo più all’aspetto ideologico mentre la sua strategia internazionale rimaneva per lo più ancorata al movimento dei non allineati, come testimonia il ruolo di primo piano avuto da Zhou Enlai (1898-1976) nel corso della conferenza di Bandung del 1955.

Il raggiungimento di una compiuta unità nazionale e la definitiva affermazione di uno spirito nazionale moderno in seguito all’affermazione del potere maoista ha lasciato aperte, fino all’epoca attuale, alcune questioni di fondamentale importanza circa il carattere culturale prevalente sull’intero territorio nazionale. Fin dalla prima formulazione del 1954 la costituzione della Repubblica Popolare Cinese riconosce l’esistenza di 56 gruppi etnici (minzu 民族), tra i quali viene considerato anche il gruppo dominante han, con una percentuale che supera il 90%. Proprio il complesso rapporto tra l’elemento numericamente maggioritario han e gli altri gruppi ha costituito anche in epoca maoista una questione di particolare importanza, soprattutto per quanto riguarda la presenza di alcune rivendicazioni autonomiste dinnanzi ad una politica che, pur in nome di un’ideologia egualitaria, portava avanti un’idea di nazione fortemente centrata sulla componente culturale han. Il passaggio dalla visione imperiale alla realizzazione nazionale maoista ha indubbiamente creato tensioni in quelle aree del paese caratterizzate da tradizioni storiche, culturali e linguistiche diverse ed alternative rispetto alla maggioranza han. Il riferimento è in modo particolare al Tibet ed a vaste aree delle attuali province del