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Fra tradizione e modernità: nascita del nazionalismo cinese

Per comprendere in maniera più approfondita il dibattito politico e culturale che caratterizza l’attuale Repubblica Popolare Cinese è fondamentale analizzare il modo in cui alcuni fondamentali concetti di provenienza occidentale hanno condizionato il contesto cinese a partire dalla fine del XIX secolo e, in modo ancor più massiccio, nel corso del XX secolo. La constatazione della superiorità occidentale in ambito geografico, economico, strategico e culturale ha infatti provocato negli ultimi anni dell’impero la nascita di tutta una serie di tendenze e movimenti che auspicavano una modernizzazione in senso occidentale dell’agonizzante impero Qing, prendendo come esempio lo straordinario percorso di successo percorso dal Giappone, che ne aveva fatto quella che potremmo definire un potenza regionale ante litteram. Sulla scia dello slogan “sapere occidentale come mezzo, sapere tradizionale come fondamento” la cosiddetta restaurazione Meiji aveva visto nel breve arco dei decenni compresi tra il 1868 e il 1912 una radicale trasformazione del paese, in nome di una modernizzazione che non










ricalcasse pedissequamente il sistema occidentale, ma che preservasse il peculiare carattere proprio della cultura giapponese. Avendo pure il Giappone dovuto sopportare l’onta dei trattati ineguali imposti dalle potenze occidentali nel 1858, i restauratori Meiji miravano ad un assai ambizioso obiettivo strategico in campo economico, militare e strategico: industrializzazione, ammodernamento militare, forte spirito di unità nazionale sarebbero diventati i pilastri su cui il Giappone avrebbe impostato la sua strategia per diventare una sorta di Gran Bretagna in versione asiatica.

La straordinaria esperienza modernizzatrice messa in atto dal Giappone nella seconda metà del XX secolo aveva inevitabilmente iniziato ad esercitare una profonda eco anche presso le classi dirigenti cinesi, che erano invece costrette a confrontarsi con i segni di quella che appariva una inarrestabile crisi del potere e di un’ideologia imperiale che appariva impossibile sottoporre ad un processo di modernizzazione. Non erano mancati dei tentativi di mettere mano ad un processo di modernizzazione: esemplare in tal senso fu il cosiddetto periodo dei “cento giorni di riforme” del 1898 che fallì a causa della ferma opposizione messa in atto dagli esponenti più conservatori del potere imperiale, appartenenti alla cerchia dell’imperatrice Cixi62. Interessante è notare quelli che erano i punti chiave di questo abortito tentativo di riforme: industrializzazione, la creazione di un’economia capitalistica, il passaggio ad una monarchia costituzionale, creazione di un moderno ed efficiente apparato militare, creazione di un moderno sistema di educazione che riformasse anche il datato sistema degli esami imperiali, sostituendo i testi confuciani con lo studio di materie scientifiche sul modello occidentale. È evidente in questi punti il richiamo all’esperienza del Giappone Meiji, come pure è evidente il costante richiamo che, seppur in modo diverso, questi punti hanno esercitato nel corso del XX secolo cinese: il gaige kaifang 改革开放 che ha dato inizio alla svolta denghista nel 1978 nel nome delle cosiddette si ge xiandaihua 四个现代化 (quattro modernizzazioni) non è che il punto di arrivo di un percorso che, interrotto più volte, era iniziato dal punto di vista teorico quasi un secolo prima sulla scena cinese. Il tentativo portato avanti dai riformatori nell’arco di pochi mesi nel corso del 1898 corrispondeva, proprio come accaduto in Giappone, al tentativo di formulare una nuova strategia politica, economica e culturale che avrebbe introdotto anche in ambito cinese quei concetti di nazione e di nazionalismo che fino a quel momento erano rimasti del tutto estranei all’impero cinese63. La sempre maggiore insofferenza che caratterizzava la maggioranza han all’interno dell’impero Qing costituì il fondamento per la progressiva costruzione di uno spirito nazionale cinese in grado di opporre adeguata resistenza alle tendenze disgregatrici sempre più evidenti all’interno dell’ideologia imperiale ed alla sempre maggiore pressione delle potenze occidentali. Non diversamente da quanto era avvenuto nel Giappone Meiji, si trattava di un vero e proprio rovesciamento della prospettiva geografica, sia per quanto riguarda le proiezioni interne che esterne: dotarsi di uno stato di nazione significava infatti riformulare










62 Peter Zarrow, The Reform Movement, the Monarchy and Political Modernity, in Rebecca E. Karl, Peter Zarrow (Eds), Rethinking the 1898 Reform Period, Political and Cultural Change in late Qing China, Harvard University Press, 2002, pp. 17-47.

63 Edmund S.K. Fung, The Intellectual Foundation of Chinese Modernity, Cambridge University Press, 2010, pp. 27-60.

completamente quella che era la tradizionale visione cinese del mondo, riformulando nuove narrazioni su cui basare la coesione interna. Senza contare la necessità di costruire un paritario rapporto con gli altri attori sulla scena internazionale.

Non stupisce quindi la profonda avversione ed opposizione nutrita da ampi settori della corte Qing nei confronti di tale radicale rovesciamento di prospettive, che non a caso metteva in discussione le fondamenta stesse su cui si reggeva e veniva giustificato il potere della corte mancese: una Cina che mettesse in disparte - anche dal punto di vista geografico - le proprie narrazioni imperiali in favore di una esplicita egemonia della componente nazionale han, sarebbe stata una Cina in cui i gruppi di potere mancesi avrebbero dovuto nella migliore delle ipotesi ritrovarsi nella condizione di una minoranza inevitabilmente destinata, in virtù della sinizzazione, all’assorbimento ed alla sparizione. A differenza di un Giappone in cui la condizione di insularità e l’omogeneità etnica e culturale avevano indubbiamente costituito un terreno fertile per far germogliare i moderni semi della nazione e del nazionalismo importati dall’occidente, l’ideologia Qing era basata su un’ideologia imperiale per molti

versi incompatibile con narrazioni di stampo nazionale e nazionalistico64. Essa, come già sottolineato

in precedenza, trovava la propria formulazione in una complessa definizione di equilibri tra le varie componenti etniche e culturali su cui l’immenso impero aveva esteso il proprio dominio. Tale avversione nei confronti di un ammodernamento dello stato e delle narrazioni che ad esso facevano riferimento trovava, da parte han, il favore della potente classe dei funzionari imperiali di formazione confuciana che vedevano, non senza fondamento, nel tentativo di integrare o sostituire il classico sistema educativo basato sui classici confuciani con moderne nozioni e metodologie di stampo occidentale un vulnus nei confronti del proprio potere ed autorità. Non stupisce quindi che, in ambiti periferici ripsetto al potere centrale, si siano gradualmente affermate quelle tendenze che avrebbero portato ad un mutamento della scena politica e culturale cinese. Questo avrebbe ancora una volta portato allo sgretolamento del potere centrale e ad un nuovo periodo di drammatica divisione e caos che sarebbe drato svariati decenni.

In un approfondito studio sulla figura di Sun Yat-sen (1866-1925), Marie Claire Bergere ha sottolineato la diversa dimensione geografica che ha portato il fondatore della Cina moderna ad elaborare la propria visione relativa alla nascita di una nazione e di u nazionalismo cinesi.65 Nato da una famiglia di minoranza Hakka nella provincia meridionale del Guangdong, Sun Yat-sen ebbe fin dalla giovinezza la possibilità di entrare in contatto con gli occidentali insediati sulla costa cinese meridionale. Ebbe in tal modo la possibilità di verificare in prima persona il vantaggio e la superiorità culturale, tecnologico ed economico che aveva consentito alle potenze occidentali di insediarsi in Cina, minandone di fatto l’integrità territoriale. Particolarmente importanti furono alcuni periodi che egli










64 Hong-yuan Chu, Peter Zarrow, Modern Chinese Nationalism: The Formative Stage, in George Wei, Xiaoyuan Liu (Eds), Exploring Nationalisms of China, Themes and Conflicts, Greenwood Press, London, 2002, pp. 3-26. 65 Si rimanda a tal proposito a Marie-Claire Bergère, Sun Yat-sen, Standford University Press, Standford California, 1998.

ebbe modo di trascorrere fuori dalla Cina, in particolare alle isole Hawai dove approfondì il proprio interesse per la scienza e la tecnologia occidentali. Rientrato in Cina sul finire del XIX secolo abbracciò con convinzione la causa riformatrice, in aperta opposizione alla politica conservatrice di corte, finendo col trascorrere lunghi periodi di esilio in Giappone ed in Inghilterra. Al di là di certa retorica che, ancora oggi, identifica in Sun Yat-sen il vero e proprio fondatore della nazione cinese, resta indiscutibile il ruolo da lui svolto nella creazione, per la prima volta, di un impianto ideologico e culturale che potesse costituire la base di una nuova aggregazione del popolo cinese su base nazionale. Profondamente influenzato dal pensiero liberale di Hamilton e Lincoln, egli si ispirò alla massima “governo del popolo, ad opera del popolo, per il popolo” per formulare quelli che sarebbero divenuti i

“tre principi del popolo”: minzuzhuyi 民族主义 (nazionalismo), minquanzhuyi 民权主义

(democrazia), 民生主义 minshengzhuyi (benessere del popolo)66.

Anche se non rientra negli scopi di questa esposizione fornire una approfondita analisi delle teorie politiche di Sun Yat-sen, apparre evidente come esse lanciassero all’interno del dibattito politico cinese tutta una serie di elementi fortemente innovativi, che avrebbero profondamente segnato il successivo passaggio ed evoluzione dall’impero alla repubblica. Il tentativo di Sun Yat-sen era basato su un’ambizione che mirava, già nei tre principi del popolo, a non seguire pedissequamente il modello occidentale, quanto a proporre una strategia politica e culturale che avesse delle caratteristiche radicate nella cultura e nella tradizione cinese. Vissuto a cavallo tra la cultura cinese e quella occidentale, egli aveva inserito nei suoi tre principi molti dei concetti basilari dell’etica confuciana, nella convinzione che fosse possibile, se non indispensabile, una sorta di armonizzazione tra le esigenze della modernizzazione e quelle della preservazione dell’identità culturale cinese. Appare evidente il tentativo di fornire una nuova cornice ideologica all’interno della quale collocare questo processo di modernizzazione, per quanto in assenza di un marcato orientamento ideologico che facesse assumere alle teorie di Sun Yat-sen un carattere di parte, latra categoria questa tipica della narrazione confuciana. Non è un caso ad esempio che esse siano state soggette, nel corso degli anni e dei decenni successivi, alle più svariate interpretazioni da parte di tutte le parti che si sarebbero contese il potere sul grande territorio cinese in nome dell’unità nazionale. Nei decenni della guerra civile tanto i nazionalisti quanto i comunisti si proclamavano continuatori degli ideali di Sun Yat-sen, mentre la sua figura è ancora oggi altamente rispettata sia nella Repubblica Popolare che a Taiwan67.

Tornando ai principi del popolo - senza entrare nell’annoso dibattito sorto a proposito della cornice ideologica che meglio ne avrebbe potuto consentire la realizzazione – appare evidente fin dal primo di essi il riferimento al popolo, inteso come 民族 minzu un termine non a caso diverso da quel 人民 renmin che avrebbe caratterizzato la politica maoista, e ancora oggi in auge nel vocabolario della Repubblica Popolare Cinese. Il termine minzu non viene oggi utilizzato in cinese per indicare il popolo










66 Theodore de Bary, Richard Lufrano, Sources of Chinese Tradition, Columbia University Press, 2000, pp. 320-330.

in sé e per sé, quanto invece le varie nazionalità (o minoranze) che costituiscono il variegato mosaico della Repubblica Popolare Cinese, tra le quali, gli han costituiscono la minzu dotata di una schiacciante maggioranza numerica. Nel discorso di Sun Yat-sen appare evidente come il discorso della nazionalità venga prima di quello della nazione in senso stretto: questo significava, dopo il dominio mancese, riconoscere alla componente han della popolazione il ruolo chiave nella definizione di un’identità nazionale cinese a tutti gli effetti, facendone il perno su cui costruire il nuovo senso di coesione nazionle.

Il tema della nascita e dello sviluppo di un nazionalismo cinese è quindi fondamentale per comprendere il complesso percorso della Cina nel corso del XX secolo fino all’orgoglio dell’attuale nazionalismo della Cina post-riforme. Fin dall’inizio infatti il tema del nazionalismo si presenta, usando la definizione di Wang Gungwu, con molte facce: esso riguarda la forma di governo, il recupero della sovranità, l’unità territoriale, il senso di “autostima” nazionale, la preservazione o la riscoperta dei valori tradizionali propri della cultura cinese.68

Non è un caso quindi che, con la caduta dell’impero, la nascita del nazionalismo cinese sia stata ancora collocata nell’ambito di quello che i cinesi definiscono il neiluan waihuan 内乱外患, vale a dire “caos interno, aggressione dall’esterno”. Questo concetto muove dalla constatazione di come ad una situazione di caos all’interno del territorio cinese faccia inevitabilmente da corollario la penetrazione e l’aggressione di elementi ostili provenienti dall’esterno: siano essi i mongoli Yuan, i mancesi o le potenze occidentali in epoca più recente. Pur sottolineando la necessità di apportare tutta una serie di modifiche in senso moderno alla visione cinese del mondo, il progetto politico di Sun Yat-sen mirava a mantenere viva la peculiarità culturale cinese, inserendo questo cambiamento in un più vasto processo storico che aveva caratterizzato la civiltà cinese. Si tratta appunto di quello che i cinesi chiamano il wangchao xunhuan 王朝循环, ossia il ciclo dinastico che portava ciclicamente all’affermazione ed alla

caduta di un determinato ordine politico.69 La narrazione storica, culturale e geografica predominante

era quindi quella propria della stragrande maggioranza han della popolazione, intorno alla quale si prevedeva di costituire una nuova coesione, non esclusivamente sul piano territoriale.

Era evidente tuttavia come un esclusivo accento posto sulla componente etnica e culturale han avrebbe seriamente compromesso il mantenimento dell’integrità territoriale, soprattutto in riferimento a quelle parti dell’impero assorbite in maniera definitiva nel corso della dinastia Qing, ma caratterizzate da una prevalenza etnica e culturale non han. Come noto pur trattandosi, allora come oggi, di aree scarsamente popolate rispetto alla Cina Propria, esse hanno una notevole estensione e costituiscono una parte assai considerevole del territorio nazionale. Non diversamente da quanto avevano fatto i Qing si trattava di costruire, all’interno di questa nuova visione nazionalista, una cornice ideologica e culturale che










68 Wang Gungwu, The Revival of Chinese Nationalism, Leiden, International Institute for Asian Studies 1996, p.8.

69 Yongnian Zheng, Discovering Chinese Nationalism in China. Modernization, Identity and International Relations, Cambridge University Press, 1999, pp. 14-15.

consentisse di inglobare, in una nazione a stragrande maggioranza han, tutte le altre componenti etniche che erano presenti su quello che ormai non era più l’universo imperiale ma il territorio nazionale.

Citando direttamente Sun Yat-sen:

Alcuni dicono che, dopo la caduta dei Qing, non avremo più bisogno di ulteriore nazionalismo. Queste parole sono certamente errate. Adesso ci troviamo a parlare dell’unificazione delle cinque nazionalità (han, mancese, hui, tibetana), ma sicuramente il nostro paese conta ben più di 5 nazionalità. La mia intenzione è unire tutto il popolo della Cina in una nazione cinese (zhonghua minzu 中华民族), sviluppando in seguito questa nazione in un nazione civilizzata ed avanzata: solo allora il nazionalismo sarà finito70.

Queste premesse furono alla base della creazione, nel 1912, della Zhonghua Minguo 中华民国, la Repubblica Cinese, che avrebbe voluto essere la realizzazione pratica di questo ambizioso progetto politico e culturale, cercando di proporre una nuova unità ed integrità anche territoriale a quello che era stato l’impero cinese. Un ruolo fondamentale in questo processo era stato svolto dal neonato Partito Nazionalista Guomindang, che proprio in Sun Yat-sen aveva trovato una sorta di nume tutelare. Lo stesso Sun Yat-sen proclamò la nascita della Repubblica di Cina, divenendone il primo presidente. Al di là delle aspettative iniziali la Repubblica di Cina precipitò ben presto in una situazione di gravi tensioni e caos interno, segno evidente che non era ancora pronto il terreno per mettere in pratica l’ambizioso progetto di Sun Yat-sen. In mancanza di una chiara e condivisa visione ideologica e culturale, la Cina si trovò quindi nuovamente invischiata nel caos delle lotte interne e della frammentazione, venendo di fatto meno l’esistenza di una vera e propria autorità centrale in grado di arginare le spinte centrifughe. Il tentativo di passare ad una nuova unità eludendo quella che era la “strutturale” fase di disordine andò incontro ad un sostanzialmente fallimento: l’anno successivo lo stesso Sun Yat-sen divette abbandonare la carica di presidente, non potendo fronteggiare le spinte secessioniste delle regioni meridionali, uniti ad alcuni scialbi tentativi di restaurare il potere Qing in quelle settentrionali.