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L’impatto e il dilemma culturale delle riforme: quale direzione?

FONDAMENTI E PROIEZIONI IDEOLOGICHE E CULTURALI DEL NUOVO ORDINE CINESE: ARMONIA, ORDINE ED ASCESA PACIFICA

2.4 L’impatto e il dilemma culturale delle riforme: quale direzione?

Nelle righe precedenti è stato sottolineato il grande cambiamento che, dal punto di vista geografico, ha comportato l’inizio della fase di riforme. In particolare l’accento è stato posto su quello che può essere

considerato il primo decennio di riforma, compreso tra l’ascesa al potere di Deng nel 1978 e il movimento studentesco in piazza Tian’anmen, con la dura repressione che a quest’ultimo fece seguito. Questo primo decennio viene spesso presentato come l’inizio di una progressiva ma inarrestabile apertura della Repubblica Popolare Cinese al mercato, soprattutto nell’ambito di quella che molti studiosi hanno definito una export oriented economy che avrebbe fatto del paese asiatico il sinonimo del tanto spesso avversato made in China. Molte analisi sugli eventi e sulle conseguenze legate all’apertura hanno assunto un approccio eminentemente economico ed occidentale, considerando o valutando quasi esclusivamente l’allineamento alle regole del mercato e l’apertura ai flussi finanziari internazionali che hanno fatto seguito alla riforma. Sulla base di tale prospettiva ad essere degna di nota era principalmente la vastità del mercato cinese, che si immaginava - e per certi versi ancora si immagina - avrebbe garantito sbocchi pressoché illimitati alle merci ed ai servizi occidentali. La vastità territoriale del mercato cinese insieme all’imponenza del dato demografico hanno hanno spinto più di un analista a vedere nella Cina, almeno dal punto di vista commerciale, una sorta di terra di conquista che avrebbe garantito grandi opportunità all’Occidente industrializzato, senza contare il vantaggio economico della produzione in Cina sulla scia dell’ormai noto processo della delocalizzazione.

Vista dall’interno la riforma ha favorito l’inizio di fenomeni che travalicano abbondantemente il puro e semplice dato economico e politico, coinvolgendo tutta una serie di fattori che possono essere inseriti nel più ampio contesto di una narrazione geoculturale dalle caratteristiche complesse. La cosiddetta globalizzazione di stampo occidentale che, da più parti, si prevedeva non avrebbe incontrato ostacoli nella sua penetrazione in Cina, in realtà ha assunto caratteristiche che sono sovente ben lontane dalle iniziali previsioni. In esse il dato culturale ha assunto senza dubbio un’importanza e una centralità di cui solo oggi, ad oltre tre decenni dell’avvio delle riforme, è possibile cogliere appieno le conseguenze135. Pur in un’impostazione semplicistica e legata a visioni cartografiche di stampo tradizionale, la teoria di Hungtington sullo scontro di civiltà ha avuto il merito di porre l’accento sulla peculiarità culturale quale fattore di divisione e definizioni degli interessi strategici sulla scena globale. Va comunque sottolineato come questa visione, se dedicava grande spazio al cosiddetto scontro tra la cosiddetta civiltà occidentale e quella islamica, assai blando era il riferimento alla Cina, alquanto semplicisticamente fatta rientrare nell’aggettivo “confuciano”. In effetti nel momento in cui venne elaborata la teoria hungtingtoniana la Cina era appena agli inizi della cosiddetta apertura nel corso della seconda fase delle riforme: un periodo, quello a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, in cui invece la dirigenza cinese ha posto in essere le scelte principali di quella che sarà la successiva strategia culturale.

Al di là dell’intento fortemente celebrativo con cui, pochi anni or sono, è stato celebrato il trentennale del gaige kaifang 改革开放, la politica di apertura e di riforma è stata tutt’altro che un processo privo










135 Doug Guthrie, China and Globalization: The Social, Economic and Political Transformation of Chinese Society, Routledge, New York, 2009, pp. 1-26.

di ombre, tensioni od interrogativi. L’affermazione dei nuovi equilibri geografici analizzata in precedenza è stata infatti tutt’altro che indolore e priva di tensioni, dovute proprio al progressivo ma ineluttabile abbandono di quelli che erano i precedenti modelli territoriali, di coesione sociale e culturale. L’accento post sullo sviluppo costiero era in aperto contrasto con le linee ideologiche e di sviluppo seguite nei decenni precedenti, che avevano invece portato per esempio alla realizzazione di imponenti impianti produttivi statali in aree che ora si ritrovavano totalmente marginalizzate dalla nuova geografia della riforma, ben più sensibile alle necessità del mercato e della logistica che a quelle dell’ortodossia ideologica136. Il problema della riqualificazione o dismissione dell’industria statale, precipitata in seguito alla riforma ben al di sotto di accettabili standard di competitività, è stato uno dei fattori di maggiore tensione sociale nel primo decennio della riforma, con conseguenze ancra oggi non interamente assorbite. Solo nelle aree - all’inizio limitate - toccate dalla riforma tale ristrutturazione o chiusura è stata compensata dalla creazione di nuove opportunità occupazionali ed economiche. Nelle aree più interne, laddove era assai difficile se non impossibile agganciare i vantaggi rappresentati dal flusso di capitali ed investimenti favorito dalla riforma, la situazione ha assunto toni talora drammatici, spesso messi in ombra nelle analisi occidentali dal sempre più accattivante sviluppo delle città costiere137.

Gli stessi slogan denghisti ponevano l’accento su tutta una serie di valori e di priorità in netto contrasto con lo spirito prettamente egualitario proprio del maoismo. Tra i vari slogan denghisti il celebre “arricchirsi è glorioso” (zhifu guangrong 致富光荣) è quello che meglio rappresenta lo spirito della nuova Cina, sottolineando nello stesso tempo un totale rovesciamento di valori, pur all’interno di una supposta continuità ideologica e culturale. Questo cambiamento di prospettiva ha significato per esempio il progressivo ma inesorabile abbandono di tutte le narrazioni precedentemente legate all’ambito rurale, in favore dell’esaltazione di un nuovo stile di vita urbano, destinato ovviamente a realizzarsi principalmente nelle città costiere e nella varie ZES. Pur essendo presentata, e in molti casi a ragione, come una fase che ha offerto possibilità nel miglioramento delle condizioni di vita ad un’ampia parte della popolazione, la riforma ha indubbiamente fatto delle vittime, soprattutto tra coloro che maggiormente avevano subito e vissuto in prima linea i grandi sommovimenti della fine dell’epoca maoista. Basti pensare ad esempio come a migliaia, se non a milioni, si potessero contare coloro che nella fase acuta della Rivoluzione Culturale ed immediatamente successiva avevano abbandonato gli studi o non avevano potuto, o ritenuto non necessario, compiere un percorso di studi a causa della chiusura delle università138. Dopo aver trascorso in alcuni casi anni nelle più remote aree del paese si










136 Long Gen Ying, China's Changing Regional Disparities during the Reform Period, in Economic Geography, Vol. 75, No. 1, 1999, pp. 59

137 Richard M. Auty, Industrial Policy Reform in China: Structural and Regional Imbalances, in Transactions of the Institute of British Geographers, New Series, Vol. 17, No. 4,1992, pp. 481-494.

138 Arif Dirlick, The Politics of Cultural Revolution in Historical Perspective, in Kam-yee Law (Ed.), The Chinese Cultural Revolution Reconsidered: Beyond Purge and Holocaust, Palgrave Macmillan, 2003, 158-183.

trovavano ora ad affrontare una società competitiva che celebrava il valore dello studio e della ricerca come un valore fondamentale per il benessere individuale e collettivo, per lo sviluppo delle stesse risorse umane e territoriali della nuovo nazionalismo cinese.

Tutto questo può spiegare, almeno in parte, quella sorta di pessimismo culturale che proprio a partire dalla metà degli anni Ottanta ha iniziato a serpeggiare in alcuni ambiti della società e della cultura cinese, una sorta di prologo a quello che sarebbe stato poi il movimento studentesco di Tia’anmen nel 1989. Il tema del “pessimismo cinese” è in realtà molto importante per comprendere anche le attuali politiche e strategie della Repubblica Popolare Cinese, le cui narrazioni spesso hanno il compito fondamentale di garantire quella visione unitaria e monolitica che si teme potrebbe venir meno al minimo allentamento del controllo centrale. Esemplare in tal senso è la ricorrente uscita di pubblicazioni, a cui fa sempre riscontro un lusinghiero risultato di vendite, in cui ricorre il tema dell’“infelicità” cinese e - coniugato con modalità diverse - del senso di frustrazione di fronte ad un Occidente superiore sia tecnologicamente che culturalmente139. Accanto ai molti testi che mirano ad esaltare la crescita e il sempre maggiore ruolo della Cina spicca, recentemente, la pubblicazione di Zhongguo bu gaoxing 中国不高兴 (La Cina infelice), dall’eloquente sottotitolo “difficoltà interne e caos esterno”140. Questa pubblicazione, sulla quale si avrà modo di tornare più nel dettaglio in seguito, non è comunque un caso isolato, rientrando in un filone di cui si possono scorgere ampie tracce proprio nella prima fase della riforma, caratterizzata da una chiara linea per quanto riguarda lo sviluppo economico, ma da una non altrettanto definita strategia culturale nel medio termine.

È proprio in questo apparente momento di ambiguità o mancata definizione culturale che - tra la fine del maoismo e la nascita di una vera e propria ideologia post-maoista – si assiste all’emergere di un dibattito che ha come obiettivo una critica anche molto diretta del percorso di modernizzazione cinese. Come già sottolineato in precedenza, non è possibile isolare la politica di riforma denghista dal più generale e complesso percorso volto all’affermazione di una cultura moderna dalle caratteristiche pienamente cinesi che non si ponga in posizione di passiva dipendenza rispetto ai modelli di derivazione occidentale. Gran parte della storia cinese nel corso del XX secolo può infatti essere letta come il tentativo, spesso messo in atto attraverso diverse se non contrapposte visioni ideologiche, di portare a compimento questo obiettivo. Le “Quattro Modernizzazioni” denghiste non sono state, in questo tempo, che il culmine di tutta una serie di progetti e proposte che avevano attraversato larga parte della Cina del Novecento.

Pur nella supposta continuità politica ed ideologica era, a molti evidente, come l’abbandono della politica maoista in favore della modernizzazione potesse venire letto come l’ammissione del fallimento di un’epoca, la constatazione di come, nonostante anni di martellante pressione ideologica, questo










139 Xiao Gongqin, Superficial, Arrogant Nationalism, in China Security, World Security Institute, Vol. 5 No 3, 2009, pp. 53-58.

140 Song Xiaojun, Wang Xiaodong, Huang Jisu, Zhongguo bu gaoxing, Jiangsu renmin chubanshe, 2009 (宋晓军,王小东,黄纪苏,中国不高兴,江苏人民出版社,2009), [La Cina infelice].

processo di modernizzazione fosse stato compiuto solo parzialmente od in misura del tutto insufficiente. Non rientra tra gli obiettivi del presente studio quello di approfondire la questione culturale all’indomani dell’inizio delle riforme, tuttavia conoscerne i tratti generali può essere di estrema attualità per comprendere la portata delle scelte e delle strategie culturali compiute nella seconda fase delle riforme ed in particolare nell’ultimo decennio.

Una delle caratteristiche principali della cultura cinese all’indomani dell’apertura delle riforme è quella di essersi manifestata, soprattutto nella capitale Pechino, sotto forma di quella che è stata caratterizzata dall’aggettivo menglong 朦胧, vale a dire “indistinto”, “nebbioso”, “non chiaro”. Applicato principalmente ad alcune manifestazioni artistiche dell’epoca (in particolare un celebre gruppo di poeti) questo aggettivio appare il più adeguato a definire una Repubblica Popolare Cinese ancora impegnata, nonostante il successo della politica di riforma, in una complessa transizione politica, sociale e culturale141. Una delle caratteristiche principali di questa fase fu una critica che aveva come obiettivo sia alcune manifestazioni della cultura tradizionale che le risposte fornite dall’epoca maoista. Si profilava quindi all’orizzonte una critica circa la stessa continuità politica che aveva caratterizzato il passaggio dal maoismo alla riforma denghista.

Proprio in virtù dell’immaginario geografico che in esso viene evocato, nonchè a causa dell’acceso dibattito a cui diede origine, il documentario televisivo Heshang 河殇 – River Elegy rappresenta con molta probabilità una delle chiavi di interpretazione del decennio precedente i fatti di piazza Tian’anmen. Il caso di questa produzione televisiva è stato inoltre molto studiato, quale uno dei primi fenomeni di massa legati, in Cina, al mezzo televisivo.142 A risultare particolarmente interessante in questa sede è tuttavia la generale riflessione che viene proposta intorno alle cause del secolare declino cinese, in una prospettiva che già anticipava alcune visione legate ad un confronto globale tra le varie culture.

Trasmesso in sei parti dalla televisione di stato cinese intorno alla metà del 1988, tale documentario era opera di tre registi, esponenti della generazione che per prima aveva vissuto e tratto i frutti della stagione delle riforme: Su Xiaokang, Wang Luxiang e Xiajun. Già il titolo si presenta con un tono alquanto provocatorio: la traduzione inglese elegy può risultare alquanto fuorviante, essendo il termine cinese più vicino al significato di requiem, o in generale di compianto o di sacrificio funebre. Si trattava quindi di una sorta di compianto nei confronti del fiume e delle acque fluviali in special modo. Pronunciata all’interno del contesto culturale cinese questa affermazione non può evidentemente non suscitare una particolare apprensione e stupore. La civiltà cinese fin dal suo apparire è sempre stata legata all’elemento fluviale, alla regolazione delle acque fluviali, alla realizzazione di opere di










141 Jing Wang, High Culture Fever: Politics, Aesthetics, and Ideology in Deng's China, University of California Press, Berkeley/Los Angeles/London, 1996, pp. 221-223.

142 Per una più approfondita trattazione si rimanda a Ten-yu Lau, Yuet-keung Lo, Heshang (River Elegy): a Television Orchestration of a New Ideology in China, in Asian Journal of Communication, 1991,2, pp. 73-102.

ingegneria idraulica che rendessero sicure, abitabili e coltivabili vaste aree della Cina Propria143. A differenza dell’antica cultura greca legata all’elemento marino tipico del bacino del Mediterraneo, la cultura cinese tradizionale aveva sempre manifestato il proprio senso di coesione e di unità proprio in relazione all’elemento fluviale: come sottolineato in precedenza lo stesso imperatore si presentava come diretto discendente dei mitici regolatori delle acque, di coloro che avevano spunto separare la terra dalle acque originarie, pensate appunto sotto forma di immaginario fluviale.

Il solo immaginare di intonare un compianto nei confronti fiume, può apparire quindi quanto meno provocatorio all’interno della cultura cinese, in modo particolare se il fiume a cui si fa riferimento è lo Huanghe 黄河, il Fiume Giallo, da sempre considerato una sorta di culla della cultura cinese, al punto che i cinesi del gruppo dominante han di esso si definiscono spesso i figli144. Il perno delle otto puntate in cui venne trasmesso il documentario - che incontrò un successo di pubblico al di là di qualsiasi previsione – era una critica nei confronti della “fluvialità” e, di conseguenza, dell’eccesivo accento posto sulla continentalità dalla cultura tradizionale cinese. Proprio questo eccessivo orientamento verso la dimensione continentale sarebbe stato la causa del declino cinese, divenuto irreversibile a partire dalla dinastia Ming e -secondo gli autori - ancora lungi dall’essere concluso.

La narrazione parte dalla critica di alcuni elementi che simbolicamente starebbero ad indicare la chiusura della cultura cinese e quindi la sua incapacità di mettere in atto un credibile processo di modernizzazione. Da un alto la Grande Muraglia viene presa come un il simbolo di una chiusura continentale, ma è soprattutto la chiusura marittima ad essere vista come il motivo principale della crisi culturale cinese. Il suggello definitivo a questa visione di decadenza sarebbe stato apposto nel corso della dinastia Ming, quando venne ufficialmente stabilito il bando nei confronti di tutte le attività commerciali marittime. Come già evidenziato in precedenza, lo haijin 海禁, il bando sulle attività marittime, ha rappresentato una delle scelte più controverse prese nel corso delle ultime due dinastie145. Dopo i segnali di apertura rappresentati dalle celebri spedizioni dell’ammiraglio Zhenghe, con un impero cinese che aveva mandato la propria flotta e i propri emissari sulle coste dell’Africa, dell’India e del Sudest asiatico, già a partire dalla fine del XIV secolo si assiste, a livello ufficiale, ad un tentativo di imporre dei limiti e dei freni al proliferare delle attività commerciali sulla fascia costiera. Il principale obiettivo era quello di bloccare od impedire l’attività della pirateria sulle coste e sui mari cinesi. Nel corso delle dinastie Ming e Qing il bando venne ripetutamente reiterato: particolarmente celebre rimangono ancora oggi i cosiddetti qian hai ling 迁海令, l’”ordine di ritirarsi dal mare”, e qian jie ling 迁界令 l’“ordine ritirarsi dalla frontiera”. Emanato all’inizio del regno dell’imperatore Kangxi










143 Proprio sulla necessità di garantire l’edificazione e la preservazione di queste imponenti opere di ingegneria idraulica Karl Wittfogel aveva costruito la nota teoria del dispotismo asiatico. Si veda Karl Wittfogel, Oriental Despotism: A Comparative Studies of Total Power, Vintage Books, 1981.

144 Cartier Carolyn, Globalizing South China, Blackwell, Oxford, 2001, p. 43.

145 Kangying Li, The Ming Maritime Policy in Transition, 1367 to 1568, Harrassovitz Verlag, Wiesbaden, 2010, pp. 24-37.

dei Qing, tale bando prevedeva l’evacuazione dell’intera popolazione costiera del Guangdong e di altre province come Zhejiang, Fujian e Jiangsu. Il periodo storico era particolarmente complesso per la dinastia Qing, nel sud infuriava ancora la resistenza dei lealisti Ming, capitanati dal celebre leader Zheng Chenggong (noto in occidente come Koxinga) che dall’isola di Taiwan poneva in serio pericolo il controllo delle regioni meridionali da parte del governo centrale di Pechino146. Per questa ragione il potere, di natura prettamente continentale dei Qing, impose questa cosiddetta great clearance dalle regioni costiere, ponendo tuttavia seri limiti allo sviluppo dei centri costieri e delle attività commerciali ad essi collegate. In particolar modo, come già evidenziato nel capitolo precedente, questo atteggiamento favorì l’ufficiale allontanamento della cultura e dell’ideologia confuciana dal mare: la costa venendo vista non tanto come un punto di espansione, quanto piuttosto come un limite che poteva essere avvicinato dall’esterno solo nell’ottica della diplomazia del tributo. Questo non significa ovviamente che l’intera costa cinese non sia divenuta, nel corso dei secoli, un fiorente fascia di attività commerciali e mercantili che hanno favorito la diffusione della cultura e della presenza cinese in Asia; tuttavia questo è avvenuto in virtù di una ufficiosa tolleranza da parte del governo centrale, che non inglobò mai questa parte della Cina nella narrazione ufficiale che era, appunto, di stampo continentale confuciano. La conseguenza più evidente di quest’ultimo approccio la si può cogliere proprio nel bando rappresentato dallo haijin che, pur nei limiti di una impossibile applicazione pratica, rimase un punto fermo della politica imperiale, venendo reiterato fino al 1685. Questi argomenti costituiscono ancora oggi, e non a caso, un punto di particolare interesse nel dibattito accademico e culturale cinese.147

Tornando al documentario televisivo Heshang – River Elegy, il bando alle attività marittime incarnato dallo haijin aveva rappresentato, a detta degli autori, il primo e fondamentale passo della cultra cinese nei confronti della decadenza in cui sarebbe precipitata nel corso dei secoli XIX e XX. Le ragioni di questa decadenza non andavano unicamente attribuite all’aggressione delle nazioni occidentali - che avevano imposto l’apertura dell’impero ai commerci internazionali – ma alla ostinata politica e cultura tradizionali che avevano perseguito e messo in atto questa visione di chiusura nei confronti dell’esterno. È interessante come nel corso delle varie puntate venisse messo in atto una sorta di rito e ripensamento collettivo intorno alle radici ed ai fondamenti della cultura cinese, secondo uno schema ed uno stile che non aveva precedenti e che costituiva una totale rottura rispetto ai decenni

precedenti148. Il maoismo, ad esempio, pur essendo stato caratterizzato da un atteggiamento fortemente










146 Ralph C. Croizer, Koxinga and Chinese Nationalism: History, Myth, and the Hero, Harvard University Press, 1977.

147 Per un maggiore approfondimento delle tematiche legate allo sviluppo di una cultura propriamente marinara sulla costa cinese si rimanda a Li Qinxin, Maritime Silk Road, Wuzhou chuanbo chubanshe, Beijing, 2006. A testimonianza del rinnovato interesse riscontrato negli ultimi anni in Cina per queste tematiche, si rimanda inoltre ad un altro testo dello stesso autore Li Qinxin, Bin hai zhi di:nanhai maoyi yu zhongwai guanxi shi yanjiu, Zhonghua shuju, 2010 (李庆新,海之地:南海贸易与中外关系史研究,中华书局, 2010),(La frontiera costiera: studi sul commercio nel Mare Meridionale e sulla storia dei rapporti sino-occidentali).