I possibili contenuti del diritto al cibo non si esauriscono tuttavia con le letture “biologiche” sinora sommariamente descritte. Il diritto al cibo può infatti assumere significati ulteriori man mano che, secon- do un criterio di socialità progressiva15, si allarga l’ambito dell’in-
dagine dalla sfera più ristretta delle libertà e dei diritti della persona alla tutela delle manifestazioni esterne della personalità, e dunque declinando il diritto in esame nella sfera della cultura. Del resto, la stretta connessione, anche etimologica (la parola cultura deriva dal latino colere, che significa coltivare) tra i concetti di cibo e cultura è evidente: l’essere umano attribuisce particolari significati culturali e sociali all’attività di produrre, preparare e consumare il cibo, che non a caso è uno degli oggetti di studio principali dell’antropologia culturale16. In questo senso si è detto che il cibo è la “cifra di una
esperienza sociale”, proprio perché è (anche) attraverso gli usi e le pratiche alimentari che è possibile identificare un gruppo di indivi- dui secondo i loro valori, i loro usi e le loro abitudini17.
15. Si veda E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, 32 ss.
16. Si veda sul tema M. FIORILLO, Quale ordine normativo per l’universo alimentare nazionale, M. Fiorillo, S. Silverio (a cura di), Cibo, cultura, diritto, cit., 9 ss.
17. Si veda A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’ali- mentazione, cit., 33.
Il cibo viene pertanto in rilievo, in primo luogo, nella misura in cui esso è riconducibile all’ambito di tutela di cui all’articolo 9 Cost. nella sua interpretazione estensiva, e dunque allargata sino a ricomprendere, oltre al patrimonio culturale “statico”, le cosiddette attività culturali18. Si è sostenuto quindi che le
tradizioni alimentari, in quanto espressive di tradizioni e con- suetudini culturali, sarebbero certamente provviste delle carat- teristiche tipiche di quelle “testimonianze di memoria” che il legislatore non deve soltanto tutelare, ma altresì promuovere attraverso interventi proattivi19. Le tipicità agroalimentari e la
dieta mediterranea sono quindi da considerarsi, a tutti gli ef- fetti, manifestazioni dell’identità culturale meritevoli di tutela costituzionale20. L’impostazione in esame ha goduto di una sua
indubbia espansione in anni recenti, con l’introduzione di mol- teplici strumenti giuridici, a livello locale, statale e sovranazio- nale, volti a individuare, proteggere, conservare e valorizzare le eccellenze enogastronomiche italiane, ritenute dei veri e propri beni culturali21. In questo senso, il cibo e le tradizioni enoga-
stronomiche divengono altresì una componente del complesso insieme di beni che consente la promozione e la valorizzazione,
18. Sull’evoluzione dell’interpretazione dell’articolo 9 Cost. si vedano M. AI- NIS, M. FIORILLO, L’ordinamento della cultura, Milano, Giuffrè, 2015, 311 ss.
19. In questo senso M. FIORILLO, Quale ordine normativo per l’universo alimentare nazionale, cit., 33 ss.
20. Si veda A. DENUZZO, Cibo e patrimonio culturale: alcune annotazio- ni, in Aedon, n. 1, 2017.
21. Il riferimento è a strumenti come ad esempio i marchi italiani DOC, DOCG e IGT e i marchi europei DOP e IGP. Sul tema e per un’analisi dei diversi strumenti in esame si vedano: S. SILVERIO, Il valore culturale delle eccellenze enogastronomiche italiane, in M. Fiorillo, S. Silverio (a cura di), Cibo, cultura, diritto, cit., 39 ss.; E. C. RAFFIOTTA, La protezione multilivello delle tipicità agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, in: G. cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. PetriLLo (a cura di), Ambiente, energia, alimenta- zione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, cit., 45.
anche in chiave turistica, dell’intero patrimonio culturale ita- liano22.
È tuttavia evidente che le pratiche alimentari non possono es- sere ridotte alla semplice tutela del bene che ne costituisce l’og- getto, e dunque al cibo e alle metodologie della sua produzione come mero oggetto di tutela e promozione. Se è vero come è vero che la produzione e il consumo del cibo investono un’amplissi- ma gamma di attività umane, oggetto di tutela secondo un’at- tenta lettura dell’articolo 9 Cost. che valorizzi altresì il portato del principio personalista di cui all’articolo 2 Cost. non potrà essere solo il cibo come bene culturale, ma altresì la posizione giuridica soggettiva dell’individuo che lo produce o lo consuma. Infatti, l’articolo 9 potrebbe essere letto come rafforzamento ed integrazione costituzionale della garanzia dei diritti umani cul- turali sancita all’articolo 223. Il diritto culturale al cibo non potrà
quindi coincidere, come pure è stato proposto, con la sola tutela del cibo in quanto manifestazione dell’identità culturale24, tutela
che sembra riconducibile piuttosto ad un interesse costituzional- mente rilevante. Se infatti la natura e il paesaggio sono la “forma del Paese”, cibo e alimentazione concorrono alla definizione del- la “forma della persona”, e la loro protezione integra un vero e proprio valore costituzionale25.
22. Si veda A. PAPA, Il turismo culturale in Italia: multilevel governance e promozione dell’identità culturale locale, in Federalismi.it, n. 4, 2007, 1 ss.
23. Si vedano in questo senso: J. LUTHER, Articolo 9, in G. Neppi Modona (a cura di), Stato della Costituzione, Milano, Il Saggiatore, 1998; P. BILANCIA, La disciplina italiana dei beni culturali, in AA. VV., Problemas derivados del régimen de protección de los bienes culturales en el País Vasco, Vitoria-Gasteiz, Ararteko, 2017.
24. Si veda F. POLACCHINI, Il diritto al cibo come diritto (anche) cultu- rale, in G. Cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. Petrillo (a cura di), Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, cit., 175 ss.
E così, in terzo luogo, il diritto al cibo può essere ricondotto al diritto alla libertà di espressione di cui all’articolo 21 Cost., nella misura in cui il cibo diventa il veicolo dell’esternazione comunicativa (e dell’espansione) della personalità dell’indivi- duo. Nella società contemporanea, infatti, sempre più spesso il cibo diviene oggetto di studi e ricerche, al punto che la cu- cina, la produzione di cibo, viene ormai paragonata, quando esercitata ai più alti livelli, a volte ad una scienza, a volte ad una vera e propria forma d’arte. Secondo l’interpretazione in esame il diritto al cibo integrerebbe un diritto a produrre cibo, e detta attività di produzione potrebbe essere ricondotta all’atti- vità dell’artista o dello scienziato, e dunque essere ritenuta una delle espressioni costituzionalmente rilevanti della personalità tutelate dall’articolo 33 Cost., con ogni conseguenza in time di libertà delle arti e delle scienze, e in particolare con ogni neces- saria tutela contro forme di censura o di limitazione delle forme di espressione in esame.
Si pensi, ad esempio, alla performance dell’artista cinese Zhu Yu, che ha inscenato l’atto di mangiare dei feti26, o alle opere
dell’artista austriaco Hermann Nitsch, che utilizza carcasse di animali mutilati e crocifissi ai fini di realizzare scene sanguinose che simulano dei rituali nell’ambito dei quali i partecipanti sono invitati, tra le altre cose, a mangiare la carne degli animali “sa- crificati”27. Se inteso in questo senso, il diritto al cibo incontrerà
i limiti generali previsti per la libertà di espressione artistica, e dunque andrà esente dal limite espresso del buon costume altri- mentazione, cit., 38 ss.
26. Cfr. J. WILSON, Channel 4 to show artist eating dead baby, in The Guardian, 30 dicembre 2002.
27. Cfr. E. MURGESE, Hermann Nitsch, l’artista che mutila e crocifigge gli animali in mostra a Palermo: una petizione online per fermarlo, in Il Fatto quotidiano, 25 giugno 2015.
menti previsto in via generale per le altre forme di manifestazio- ne del pensiero28.
Infine, il diritto al cibo può essere ricondotto al più generale diritto alla cultura, inteso come diritto a mantenere la propria cul- tura e come protezione contro interventi assimilazionisti o discri- minatori da parte del legislatore29. Se inteso in questo senso il di-
ritto al cibo diventerebbe un diritto al cibo particolare, e dunque il diritto a conservare determinate pratiche e tradizioni alimentari espressive di una determinata cultura minoritaria, nonostante esse non siano in uso, o addirittura siano vietate, nella cultura mag- gioritaria nell’ordinamento. Il tema intreccia evidentemente le questioni complesse del multiculturalismo e della tutela che deve necessariamente essere accordata ad ogni minoranza (e dunque alle minoranze storiche così come alle “nuove minoranze”) nel- lo Stato democratico e pluralista, caratterizzato da una diversità culturale sempre crescente nell’era della globalizzazione. Lad- dove poi le pratiche alimentari, anche di digiuno o non consumo, dovessero essere imposte dalle prescrizioni di una determinata religione, si verserebbe in un caso particolare rispetto a quello generale del diritto alla cultura, essendo la religione (e dunque la posizione soggettiva tutelata dal diritto alla libertà religiosa) una
28. Sui limiti della libertà di espressione si veda S. CURRERI, Lezioni sui diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2012, 514 ss.
29. Il diritto in esame, pur non espressamente menzionato dalla Costitu- zione repubblicana, deve ritenersi costituzionalmente tutelato nella misura in cui risulta corollario degli articoli 2, 3, 8, 19 e 21 Cost. Si vedano in questo senso: P. BILANCIA, Diritto alla cultura. Un osservatorio sulla sostenibilità culturale, in P. Bilancia (a cura di), Diritti culturali e nuovi modelli di sviluppo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015; T. MAZZARESE, Diritto, dirit- ti, pluralismo culturale. Un’introduzione, in T. Mazzarese (a cura di), Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Torino, Giappichelli, 2013, 10; F. SCUTO, Diritti culturali e multiculturalismo nello Stato costituzionale, in P. Bilancia (a cura di), Diritti culturali e nuovi modelli di sviluppo, cit.
delle molteplici possibili manifestazioni della cultura. Si potreb- be quindi sostenere che le pratiche alimentari religiose godano di una protezione qualificata rispetto alle pratiche alimentari “solo” culturali, nella misura in cui determinate espressioni culturali (quali la religione e la lingua) godono nella tradizione costituzio- nale europea, per ragioni storiche, di una tutela rafforzata rispetto alla cultura in senso lato.
Se si vuole ipotizzare un diritto al cibo come diritto culturale, occorre poi fare riferimento alla distinzione tra diritti culturali ne- gativi e diritti culturali positivi, poiché la categoria dei diritti cultu- rali deve ritenersi trasversale rispetto alle categorie di diritti “clas- siche”30. Occorre inoltre fare riferimento alla nozione di diritto alla
cultura, inteso nella sopraccitata accezione di diritto a mantenere la propria cultura, e dunque come diritto negativo individuale che protegge la persona da ingerenze statuali nella propria identità cul- turale, come limite all’assimilazionismo e all’assorbimento delle minoranze culturali nella cultura dominante nell’ordinamento.
E così se per diritto culturale al cibo si intende il diritto a consumare determinati alimenti ovvero a produrre determinati alimenti senza ingerenze da parte dello Stato, e dunque sostan- zialmente un limite alla possibilità per lo Stato di vietare deter- minati cibi ovvero vietare determinati metodi di produzione o preparazione dei cibi, a venire in rilievo è il diritto alla cultura (a mantenere la propria cultura).
L’esempio evidente di questa prima interpretazione è rappre- sentato dalla regolamentazione, spesso restrittiva, della macel- lazione rituale praticata dalle minoranze musulmane e da quelle ebraiche, su cui si tornerà a breve. L’istanza culturale avanzata è,
30. Si veda J. LUTHER, Le frontiere dei diritti culturali in Europa, in G. Zagrebelsky (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Ba- ri, Laterza, 2003, 226.
in questi casi, semplicemente che lo Stato non si ingerisca delle questioni in esame, e dunque non proibisca pratiche alimentari profondamente radicate e, in alcuni casi, addirittura imposte da prescrizioni religiose o culturali cogenti. In subordine, si chiede che lo Stato riconosca il diritto a mantenere la propria cultura nella forma di una specifica eccezione, e dunque introducendo un diritto particolare e differenziato consentendo, per le sole mino- ranze, pratiche vietate per la generalità dei consociati.
Se si ritiene invece che il diritto culturale al cibo imponga allo Stato non solo degli obblighi di astensione, ma anche degli obblighi positivi di intervento, a venire in rilievo sono dei veri e propri diritti culturali positivi. È questo il caso, ad esempio, laddove si ritenga che lo Stato non debba limitarsi a non intervenire vietando o osta- colando pratiche culturali alimentari, ma debba altresì garantire che per le minoranze culturali interessate sia sempre possibile accedere ad alimenti particolari o prodotti secondo gli specifici metodi di pre- parazione richiesti. La questione in esame diviene particolarmente rilevante con riferimento a individui che non possano liberamente scegliere il loro regime alimentare proprio perché sottoposti a limi- tazioni più o meno significative della propria libertà presso strutture statali, come sono ad esempio le strutture carcerarie, ospedaliere o scolastiche. È stato infatti rilevato che sono proprio questi casi a co- stituire il “vero banco di prova” della tenuta dei principi costituzio- nali con riferimento alla libertà religiosa dell’individuo31.
Diverso è il discorso, poi, con riferimento al mondo del lavo- ro, e dunque vi è da chiedersi se esista un obbligo, per il datore di lavoro, di accomodare le convinzioni e le esigenze alimentari del dipendente, magari esentandolo da mansioni con esse contrastan-
31. Si veda in questo senso A. CESERANI, Cibo ‘religioso’ e diritto: a margine di quattro recenti pubblicazioni, in Quaderni di diritto e politica ec- clesiastica, n. 2, 2016, 375.
ti o rendendo disponibili scelte alimentari diversificate presso le mense aziendali32.
Il caso in esame, infine, ricorre anche laddove si ritenga che lo Stato possa e debba direttamente sovvenzionare le pratiche culturali alimentari delle diverse minoranze presenti nell’ordina- mento. Quello che si invoca è, di nuovo, un diritto differenziato, che garantisca un trattamento particolare alle minoranze in at- tuazione del principio di eguaglianza sostanziale, dal momento che esse si troverebbero in una situazione oggettivamente svan- taggiata proprio in virtù dell’adesione a pratiche culturali non condivise dalla maggioranza culturale nell’ordinamento.
Se su quest’ultima impostazione il dibattito è forse possibile, sembra invece impossibile negare l’esistenza di un diritto a ci- barsi secondo la propria cultura, e pertanto il contenuto minimo o essenziale del diritto al cibo come diritto culturale deve ne- cessariamente essere individuato nella libertà di scegliere il pro- prio cibo33. La scelta del cibo che si ingerisce è infatti certamente
scelta personalissima dell’individuo, al punto da far dubitare che lo Stato possa interessarsene finanche nei casi più estremi. Basti pensare, ad esempio, al dibattito filosofico sul cannibalismo, e in particolare sull’opportunità (o finanche la possibilità) di vietare la pratica in esame laddove essa non si traduca in una lesione dei diritti fondamentali dell’individuo.
Laddove il cannibalismo venga praticato per necessità, come conseguenza dell’impulso naturale a preservare la propria vita,
32. Sul tema si veda R. BOTTONI, Le discriminazioni religiose nel settore lavorativo in materia di alimentazione, in Quaderni di diritto e politica eccle- siastica, n. 1, 2013, 107 ss.
33. In questo senso si vedano anche: A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’alimentazione, cit., 39; L. CHIEFFI, Scelte alimentari e di- ritti della persona: tra autodeterminazione del consumatore e sicurezza sulla qualità del cibo, in Diritto pubblico europeo - rassegna online, n. 1, 2015, 6 ss.
si versa nel campo di applicazione del diritto alla vita ovvero del diritto alla salute. Nel noto caso del 1884 R v Dudley and Ste- phens, in cui nel corso di un naufragio due marinai sopravvive- vano uccidendo e mangiando un compagno ormai caduto in stato comatoso, pur a fronte di una pena formalmente severissima (la condanna a morte) e di una sentenza che retoricamente negava l’efficacia scusante dello stato di necessità, affermando che per un uomo è un dovere sopravvivere ma è un dovere ancor più grande sacrificarsi, il contesto sociale e il favore dell’opinione pubblica portavano alla commutazione della pena in soli sei mesi di reclusione34.
Tuttavia, il cannibalismo può anche essere praticato non per necessità, ma per motivi culturali, per libera scelta di un soggetto agente che non sia in pericolo di vita. Del resto, sono molti gli studi che evidenziano come il cannibalismo sia stato praticato, in vari periodi storici, da diverse culture35: è evidente che laddove il
cannibalismo implichi l’uccisione di un essere umano esso deb- ba ritenersi vietato per violazione del fondamentale diritto alla vita, non essendo certo configurabile un esercizio del diritto cul- turale al cibo, bensì un caso di omicidio puro e semplice. Cosa fare però, laddove il cannibalismo sia praticato per libera scelta dell’agente su soggetti che siano già morti, ovvero su soggetti che abbiano prestato il loro consenso alla pratica? Il problema
34. Cfr. R v Dudley and Stephens (1884) 14 QBD 273 DC. In altri casi ana- loghi dell’epoca, in cui la persona che doveva essere uccisa e mangiata era stata scelta tirando a sorte, le Corti avevano ritenuto che la necessità potesse esimere i responsabili dalla pena. Si veda per una ricognizione A. W. B. SIMPSON, Cannibalism and the common law: The story of the tragic last voyage of the Mignonette and the strange legal proceedings to which it gave rise, Chicago, University of Chicago Press, 1984.
35. Si vedano sul tema, per tutti: P. R. SANDAY, Divine hunger. Canniba- lism as a cultural system, Cambridge, Cambridge University Press, 1986; L. F. PETRINOVICH, The cannibal within, Piscataway, Transaction Publishers, 2000.
non è di immediata soluzione: mangiare carne umana non inte- gra di per sé una fattispecie di reato, ma l’atto di cannibalismo potrebbe essere ricondotto al vilipendio di cadavere (se praticato su di un morto), alle lesioni personali (laddove la “vittima”, sep- pur consenziente, compia atti di disposizione vietata del proprio corpo), o finanche all’omicidio del consenziente (laddove la “vit- tima” perda la vita).
La questione è giunta all’attenzione dell’opinione pubblica (e dell’autorità giudiziaria) nel 2002, con il noto caso di Armin Meiwes, uomo di nazionalità tedesca che uccideva e mangiava un connazionale che aveva, del tutto liberamente, risposto a un annuncio su internet con cui si cercavano possibili “vittime” di- sponibili ad essere consumate. I due uomini si incontravano e davano seguito al proposito, e addirittura la vittima ingeriva delle parti del suo stesso corpo, sicché il consenso alla pratica per- maneva immutato sino alla sua morte, procurata in ultimo con il taglio della gola. Gli eventi venivano integralmente ripresi, e Meiwes conservava il corpo in un congelatore, seguitando a nu- trirsene per i dieci mesi successivi, quando il fatto veniva sco- perto in occasione di una perquisizione. L’uomo veniva inizial- mente condannato a otto anni e mezzo di reclusione, non già per omicidio del consenziente, né per omicidio qualificato da motivi ulteriormente censurabili (Mord), bensì per omicidio semplice (Totschlag)36. Tuttavia, la sentenza di cassazione, negando sia
la genuinità del consenso espresso dalla vittima che la mancata censura ulteriore delle motivazioni dell’imputato, comminava la pena dell’ergastolo37.
36. Cfr. BGH 2 StR 310/04 - 22 aprile 2005 (LG Kassel).
37. Cfr. BVerfGE 2 BvR 578/07 - 7 ottobre 2008, Sul caso si vedano: C. J. REID Jr., Eat what you kill: or, a strange and gothic tale of cannibalism by con- sent, in North Carolina journal of international law and commercial regulation, vol. 39, 2014, 423 ss; L. M. FRIEDMAN; N. AROLD, Cannibal rights: a note
Nonostante la complessità della questione, appare ragione- vole ritenere, in accordo con autorevole dottrina in materia, che nutrirsi di carne umana, laddove ciò non cagioni una lesione dei diritti fondamentali dell’individuo, e dunque laddove questi non venga ucciso a tal fine e presti un consenso valido all’atto, non rappresenti di per sé una condotta illegale o incompatibile con la dignità della persona38, salvo voler ricostruire la dignità umana in
chiave morale e, dunque, interpretando in senso massimamente restrittivo il divieto kantiano di utilizzare un’altra persona alla stregua di un oggetto.
A prescindere da casi estremi come quelli appena descritti, appare innegabile che all’individuo debba essere riconosciuto un pieno diritto al cibo particolare, e dunque a scegliere come nu- trirsi sulla base delle proprie convinzioni culturali, religiose, filo- sofiche e morali. In altre parole, l’individuo può legittimamente pretendere che, in assenza di una reale esigenza di tutela di un diverso interesse costituzionale che sia minacciato in concreto (da valutarsi in senso massimamente restrittivo), non sia lo Stato a imporgli un determinato regime alimentare, a stabilire cosa egli può o non può mangiare.
In questa prospettiva, non sfuggirà il paradosso per cui i di- ritti culturali al cibo risulterebbero, in ogni caso, provvisti di una più facile giustiziabilità rispetto al diritto ad un’alimentazione adeguata riconosciuto dal diritto internazionale convenzionale. Se infatti l’estrema difficoltà nell’azionare quest’ultimo diritto dinnanzi all’autorità giudiziaria rappresenta un notevole ostacolo on the modern law of privacy, in Northwestern interdisciplinary law review, n. 4, 2011, 235 ss.