Come si è anticipato, non vi è sovrapposizione perfetta tra le posizioni giuridiche tutelate da un diritto al cibo “religioso” e quelle tutelate da un diritto al cibo “culturale”, poiché sovente le abitudini alimentari sono il risultato di convinzioni etiche, morali e filosofiche che prescindono dalle prescrizioni di una qualsiasi confessione religiosa. È questo il caso, ad esempio, dei divieti alimentari che trovano il loro fondamento non già in una fede, ma in tradizioni e pratiche profondamente radicate nelle coscien- ze e tramandate di generazione in generazione per motivi preva- lentemente sanitari: si pensi alla cultura navajo, che vieta di con- sumare, tra le altre cose, animali addomesticati, rettili, pesci, o frutti di mare. È questo il caso, inoltre, del vegetarianesimo o del veganesimo (ovviamente laddove non prescritti da una religio- ne), che impongo l’astensione dalla consumazione di determinati alimenti in virtù del riconoscimento di una particolare dignità all’esistenza animale, che non consentirebbe forme di “sfrutta-
mento” da parte dell’essere umano56. Oltre alle due appena men-
zionate diete, sicuramente più note, si sono poi diffusi sempre più, in tempi recenti, ulteriori regimi alimentari come ad esempio quello fruttariano, quello crudista o quello macrobiotico.
Occorre chiedersi, pertanto, se il ragionamento sinora svolto con riferimento alle pratiche alimentari “religiose” sia applicabile anche ad altre pratiche alimentari culturali, che trovino quindi il loro fondamento non già in una prescrizione dettata da una deter- minata fede, ma in una filosofia o in un convincimento personale, cioè in una prescrizione o consuetudine aconfessionale. Sembra preferibile la soluzione affermativa, e dunque l’equiparazione del- la tutela riservata alle pratiche alimentari religiose e a quelle cultu- rali, nella misura in cui sia la religione che la cultura possono esse- re elementi costitutivi dell’identità, entrambe risultano espressive del fondamentale principio pluralista, ed entrambe possono fonda- re discriminazioni che lo Stato deve impegnarsi a rimuovere, tanto che le scienze antropologiche riconducono, in effetti, la religione ad una delle molteplici manifestazioni della cultura57. Appare quin-
di opportuno superare l’impostazione che riconosce una posizione privilegiata alla religione rispetto alla cultura in virtù del radica- mento storico della prima quale principale fattore di differenza culturale nelle società europee58, poiché in un ordinamento che
accoglie il principio fondamentale di laicità non dovrebbe esservi spazio per argomenti che accordino una posizione privilegiata alle pratiche religiose a discapito di quelle “meramente” culturali59.
56. Sul tema dei diritti degli animali si vedano: S. DONALDSON, W. KYMLICKA, Zoopolis: a political theory of animal rights, Oxford, Oxford University Press, 2011; F. RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino, Giappichelli, 2005.
57. Si veda I. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, cit., 60 ss.
58. Ivi, 63 ss.
La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha del resto riconosciuto la riconducibilità delle pratiche alimentari soprac- citate alla tutela di cui all’articolo 9 della Convenzione, e in par- ticolare ai concetti di “conscience” e di “belief” ivi recepiti (ma, significativamente, non a quello di “religion”)60.
Dovrebbe pertanto ritenersi valido, con riferimento al cibo “culturalmente adeguato”, quanto argomentato al paragrafo precedente circa il cibo “religiosamente adeguato”, e dunque la sussistenza da un lato di un diritto a scegliere il proprio regime alimentare, per ragioni culturali, liberamente da ingerenze sta- tali, e dall’altro di un obbligo positivo in capo allo Stato, che dovrebbe finanziare l’implementazione di diete diversificate se- condo le varie esigenze culturali almeno nelle diverse strutture pubbliche, e soprattutto in quelle nelle quali l’individuo viene a trovarsi a prescindere dalla propria volontà (carceri, ospedali, scuole dell’obbligo). Come si è già visto, tuttavia, un intervento positivo siffatto non si registra in modo pieno e soddisfacente neppure con riferimento a pratiche alimentari prescritte da credo religiosi profondamente radicati nella società, e ciò addirittura a prescindere dalla stipula di intese ai sensi dell’articolo 8 Cost. La situazione non è di molto diversa per quanto riguarda le pratiche alimentari culturali non religiose.
Anche la giurisprudenza sembra lontana da approdi pienamen- te soddisfacenti, e infatti proprio quest’anno il TAR Bolzano si è espresso, rigettandolo, sul ricorso di una coppia che impugnava il diniego dirigenziale della richiesta che alla figlia venissero serviti, all’asilo nido, dei pasti pienamente compatibili con la dieta vega-
ai principi pluralista e di laicità si veda L. CHIEFFI, Scelte alimentari e diritti della persona: tra autodeterminazione del consumatore e sicurezza sulla qua- lità del cibo, cit., 1.
60. Cfr. C.W. v. United Kingdom, Application no. 18187/91, 10 febbraio 1993.
na61. I genitori ritenevano in particolare che il diniego contrastasse
con i precetti costituzionali posti a tutela dei diritti fondamentali della persona (articolo 2 Cost.), con il principio di uguaglianza so- stanziale (articolo 3 Cost.), con il diritto alla libertà di manifesta- zione del pensiero (articolo 21 Cost.) con il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni morali e filosofiche (articolo 30 Cost.), e con il diritto alla salute (articolo 32 Cost.).
Il TAR ha argomentato in primo luogo che la tutela di diritti so- ciali quale quello invocato dai ricorrenti deve essere necessariamen- te bilanciata con ragioni di contenimento della spesa degli enti pub- blici, che possono far fronte alle relative richieste solo nei limiti delle risorse ad essi attribuite. L’argomentazione appare problematica in primis perché il Tribunale, qualificando le istanze culturali in esame alla stregua di richieste di diritti sociali, omette di considerare che le stesse risultano altresì inerenti a diritti di libertà, e in particolare ai diritti culturali e al diritto al mantenimento della propria cultura, alla libera manifestazione del pensiero e all’educazione dei figli secondo le proprie convinzioni filosofiche e morali. Se letti in questa seconda chiave i diritti in esame potrebbero ben risultare lesi nel loro nucleo incomprimibile dal rifiuto di assecondare le esigenze alimentari del- la minore, nella misura in cui, come si è detto, il diritto a scegliere cosa mangiare è diritto personalissimo e inviolabile dell’individuo. In questo senso, se pure è vero che ragioni di equilibrio di bilancio possono condizionare i livelli di tutela di alcuni diritti sociali (e non a caso il Tribunale richiama la sentenza n. 248/2011 della Corte Co- stituzionale), il Collegio omette di rilevare che dette ragioni di bilan- cio non possono mai incidere sul dovere statale di garanzia dei diritti incomprimibili (come di recente affermato dalla stessa Consulta con la sentenza n. 275/2016)62.
61. Cfr. TAR Bolzano, sentenza n. 35 del 31 gennaio 2018.
In secondo luogo, il TAR rigetta il ricorso sulla base della constatazione per cui sarebbero
proprio i principi costituzionali su cui poggiano le richieste di parte ricorrente, e segnatamente i principi di uguaglianza sostanziale e di pro- porzionalità, a frapporsi alla possibilità di assecondare ciascuna, singo- la richiesta di dieta personalizzata, quando la stessa non sia motivata da ragioni di salute ovvero non si iscriva nel novero delle quattro tipologie di menù alternativi maggiormente richiesti.
La motivazione adottata ricorda, per certi versi, quella del noto caso Lautsi63, per cui il Tribunale, non senza una certa deriva pe-
dagogica, spiega al ricorrente che egli ha travisato a tal punto il significato dei principi costituzionali fondamentali da non rendersi nemmeno conto che sono proprio questi ultimi a negargli il bene della vita a cui aspira. Anche in questo caso l’argomento è proble- matico, nella misura in cui riduce la pretesa di una dieta vegana ad una sorta di “capriccio”, riducendo la scelta filosofica del vegane- simo, a cui aderisce in Italia quasi l’1% della popolazione adul- ta64, ad una «singola richiesta di dieta personalizzata», slegata da
qualsiasi fondamento etico o filosofico condiviso. L’affermazione del Tribunale per cui le scelte alimentari in questione «meritano la stessa considerazione che va riconosciuta anche a ciascuno degli altri utenti del servizio in questione» sembra pertanto trascurare la riconducibilità delle stesse al medesimo livello di tutela di cui gode
incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”. Si vedano sul tema almeno: S. GAMBINO, Crisi economica e costituzionalismo contemporaneo. Quale futuro europeo per i diritti fondamen- tali e per lo Stato sociale? in Astrid rassegna, n. 5, 2015; C. SALAZAR, Crisi economica e diritti fondamentali, in Rivista AIC, n. 4, 2013.
63. Cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, sentenza n. 556 del 13 febbraio 2006. 64. Dati EURISPES riferiti all’anno 2018.
la libertà religiosa, secondo la strada indicata anche dalla Corte EDU con la sopraccitata sentenza C.W. v. United Kingdom e se- condo una corretta interpretazione degli articoli 19 e 21 Cost.
La vicenda presenta, inoltre, evidenti collegamenti con il dibat- tito circa la configurabilità di quello che è stato definito come “di- ritto al panino”, e dunque con il diritto per gli studenti delle scuole dell’obbligo a consumare, presso i locali scolastici, un pasto prepa- rato a casa, che troverebbe il suo fondamento (anche secondo recen- te giurisprudenza di merito in materia) anche nel diritto alla gratuità dell’istruzione inferiore di cui all’articolo 34 Cost.65. Le questioni si
differenziano tuttavia per due ordini di motivi. In primo luogo, nel caso del diritto culturale al cibo la pretesa ha ad oggetto un obbligo di prestazione positivo in capo all’ente pubblico, consistente nella predisposizione di pasti culturalmente adeguati, mentre nel caso del diritto al pasto domestico la pretesa è che l’ente pubblico non ne vie- ti l’introduzione nei locali scolastici. In secondo luogo, la pretesa del pasto culturalmente adeguato si fonda, appunto, su ragioni culturali, e dunque si attaglia primariamente sul diritto a mantenere la propria cultura, e solo “di riflesso” sul diritto all’istruzione, mentre il diritto al pasto domestico si fonda su ragioni di tipo forse prevalentemente economico (vista la ormai quasi invariabile non gratuità della refe- zione scolastica), e dunque si attaglia direttamente e saldamente al diritto sociale all’istruzione.
In ogni caso, il diritto al pasto domestico potrebbe forse rap- presentare una sorta di soluzione di compromesso per le vicende come quella decisa dal TAR Bolzano, consentendo la tutela del diritto alla cultura laddove le istituzioni statali non possano o non vogliano accomodare, con prestazioni positive, le richieste di
65. Sul diritto in esame e sulla relativa giurisprudenza si veda G. BOGGE- RO, “There is no such thing as a free lunch”. Il pasto domestico a scuola come diritto costituzionalmente garantito? in Osservatorio costituzionale, n. 3/2017, ora anche in questo volume.
cibo culturalmente adeguato: le famiglie potrebbero infatti fare leva sul diritto in esame per sopperire, anche solo temporanea- mente, all’indisponibilità di alimenti compatibili con la propria cultura, consentendo una riespansione del diritto culturale al cibo altrimenti irrimediabilmente compresso.
I casi di contrasti di natura culturale vertenti sul cibo sembra- no inevitabilmente destinati ad aumentare in futuro, atteso che la multiculturalità è ormai una caratteristica strutturale delle società e degli ordinamenti europei contemporanei per effetto della glo- balizzazione e delle migrazioni. Il confronto con culture diverse può portare a risultati imprevedibili, con cui il legislatore e l’au- torità giudiziaria dovranno imparare a confrontarsi. Un esempio è rappresentato dal consumo, in altre culture, di animali che nel cosiddetto “mondo Occidentale” non vengono, per motivi diver- si, mangiati. E così, con riferimento agli animali “da compagnia”, celebre è il caso californiano del 1989 che vedeva due individui appartenenti alla minoranza cambogiana imputati di crudeltà su- gli animali per avere ucciso, per poi mangiarlo, un cucciolo di cane che gli era stato donato pochi giorni prima66. I due venivano
assolti dall’accusa perché non risultava che all’animale fossero state inflitte particolari sofferenze, maggiori di quelle che avreb- be subito in un qualsiasi macello autorizzato: il semplice fatto di mangiare un cane non era infatti proibito dalla legge, e non po- teva essere certo ritenuto di per sé una “crudeltà”. L’assoluzione nel caso di specie ha dato vita ad un acceso dibattito legislativo e mediatico, che è culminato nell’approvazione di una legge che ha introdotto nel codice penale della California delle sanzioni (sep- pur lievi) per chiunque uccida, ai fini di mangiarlo, un animale
66. Cfr. D. HALDANE, Judge clears Cambodians who killed dog for food, in Los Angeles Times, 15 marzo 1989.
tradizionalmente considerato “da compagnia” negli Stati Uniti67.
Nel dibattito interveniva addirittura l’allora Governatore della California George Deukmejian che, nel commentare l’adozione della legge in esame, dichiarava di non essere favorevole all’in- troduzione di sanzioni penali in casi del genere, riconoscendo la necessità di mezzi di bilanciamento più sensibili di fronte a prati- che culturalmente radicate nelle “nuove minoranze”68.
L’Italia, al contrario di altri (per la verità non molti) ordina- menti europei, non ha recepito questo modello, e pertanto deve ritenersi che mangiare carne proveniente da animali di compa- gnia sia, astrattamente, una condotta legale. La norma di riferi- mento potrebbe essere individuata nell’articolo 544 bis del co- dice penale, che punisce con la reclusione da tre a diciotto mesi chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale: tuttavia non sembra potersi sostenere che chi uccida un animale per mangiarlo lo faccia “per crudeltà o senza necessità”. E del resto la particolare protezione che si vorrebbe accordare, per motivi evidentemente culturali, a determinate specie animali, non sembra trovare un attaglio costituzionale idoneo a limitare
67. Così i commi 1 e 2 dell’articolo 598b: «Every person is guilty of a misdemeanor who possesses, imports into, or exports from, this state, sells, buys, gives away, or accepts any carcass or part of any carcass of any animal traditionally or commonly kept as a pet or companion with the intent of using or having another person use any part of that carcass for food. Every person is guilty of a misdemeanor who possesses, imports into, or exports from, this state, sells, buys, gives away, or accepts any animal traditionally or commonly kept as a pet or companion with the intent of killing or having another person kill that animal for the purpose of using or having another person use any part of the animal for food».
68. Si veda: A. D. RENTELN, The Cultural Defense, Oxford, Oxford Uni- versity Press, 2004, 104 ss. Il Governatore dichiarava, in particolare: «I do not believe it is appropriate to impose criminal penalties for a violation of this law. If the killing of pets for food is a cultural practice that new arrivals to our coun- try have as a custom, their assimilation to accepted practices can be accompli- shed with more sensitivity».
finanche diritti fondamentali dell’individuo, impedendo la libera scelta del regime alimentare.
Con riferimento invece ad animali normalmente ritenuti non edibili nella cultura europea, si pensi al caso degli insetti, comu- nemente ritenuti commestibili in altre culture, specie asiatiche. La pratica si colloca attualmente in un quadro normativo com- plesso e fluido, venendo a volte vietata senza che sia dato rin- venire delle motivazioni realmente convincenti, con un’Unione europea che lascia un amplissimo margine di discrezionalità agli Stati membri nel regolamentare la questione69.
In Italia la commercializzazione di insetti destinati alla con- sumazione non è mai stata ammessa, e una circolare ministeriale del gennaio 2018 ha chiarito che, in seguito all’entrata in vigore del regolamento europeo 2283/2015, tale situazione è da ritenersi cristallizzata, in quanto da quella data la necessaria autorizzazio- ne va ottenuta al livello europeo, venendo meno la possibilità per gli Stati membri di applicare regimi derogatori transitori70.
Anche in questo caso il divieto appare, almeno in parte, fondato su considerazioni culturali, che hanno provocato una sostanziale inerzia del legislatore che, normando compiutamente la materia, avrebbe fatto venir meno qualsiasi preoccupazione circa pericoli (per la verità di dubbia concretezza) per la salute pubblica.
Altro caso problematico è, infine, il consumo culturale di so- stanze stupefacenti, che peraltro è già stato esaminato dalla giuri- sprudenza di legittimità. In particolare, un caso deciso dalla Corte di Cassazione nel 2003 vedeva una donna appartenente alla mi-
69. Si veda sul tema V. PAGANIZZA, “Vecchi” e “nuovi” alimenti: gli insetti edibili. Aspetti giuridici e profili di sicurezza alimentare ed ambientale, in G. cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. PetriLLo (a cura di), Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, cit., 157 ss.
noranza somala imputata per avere importato delle sostanze stu- pefacenti, e più precisamente 24 chilogrammi di foglie di khat71.
La donna si era difesa riferendo di stare portando le foglie a un matrimonio, dove sarebbero state consumate dagli invitati nel corso dei festeggiamenti, in virtù del fatto che il khat, per le sue proprietà euforizzanti, nella cultura somala è assunto normalmente in determinate occasioni della vita sociale. La Corte ha assolto la donna rilevando che il khat è tradizionalmente consumato, nella minoranza in esame, tramite la masticazione, e che dal momento che nelle tabelle ministeriali delle sostanze stupefacenti non era presente il khat, ma solo la catina, ottenibile dalle foglie mediante un procedimento chimico, il legislatore aveva ritenuto che
il consumo normale (mediante masticazione) delle foglie di tale essen- za vegetale, pur producendo un effetto euforizzante, non costituisca un pericolo per la salute, non diversamente da quanto avviene con riferi- mento agli effetti indotti dal consumo di sostanze, largamente diffuse, quali il caffè, il tè, il tabacco ecc.
La sentenza risulta interessante in virtù dell’apertura alla di- versità culturale che la sua motivazione dimostra, dando espressa- mente rilievo alle modalità di consumo tradizionali della sostanza stupefacente in esame quale fattore decisivo per escludere l’illi- ceità della condotta, operando addirittura un paragone tra la fun- zione del khat nella cultura minoritaria e quella del caffè, del tè o del tabacco nella cultura maggioritaria. Da allora, in ogni caso, la sostanza in esame è stata introdotta nelle tabelle ministeriali con il d.l. n. 272 del 30 dicembre 2005, convertito con la legge n. 49
71. Cfr.: Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 34072 dell’8 agosto 2003. Sul caso si veda F. BASILE, Panorama di giurisprudenza europea sui c.d. reati culturalmente motivati, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, febbraio 2008, 52 ss.
del 21 febbraio 2006, è poi fuoriuscita dalle stesse per effetto della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, e vi è stata da ul- timo reintrodotta con il D.P.R. n. 36 del 20 marzo 2014. Anche in questo caso, pertanto, si rinviene una disparità di trattamento con riferimento alla libertà religiosa, atteso che, come noto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che i praticanti la religione rastafariana possano possedere quantitativi di sostanza stupefacente eccedenti il dato ponderale del normale uso personale72.
5. Il possibile conflitto tra l’anima “biologica” e quella “cul-