Le intersezioni tra cibo e religione sono evidenti e molteplici, a partire dalle prescrizioni religiose, più o meno note, che impon- gono di astenersi dal mangiare determinati cibi. E così, ad esem- pio, la religione ebraica, con riferimento alla carne, consente di cibarsi solo di animali ruminanti che abbiano lo zoccolo spacca- to, di animali aquatici con pinne e squame e di volatili domestici, la religione musulmana vieta di cibarsi della carne del maiale, di animali che abbiano zanne e di sostanze alcoliche, mentre diver-
39. Sulla difficile giustiziabilità del diritto al cibo si veda F. ALICINO, Il diritto al cibo. definizione normativa e giustiziabilità, cit., 9 ss.
se confessioni buddhiste prescrivono una dieta vegetariana40. Lo
stesso cattolicesimo, del resto, impone dei giorni di astensione obbligatoria dalle carni (i cosiddetti “giorni di magro”).
Le religioni hanno quindi, da sempre, disciplinato in modo estremamente dettagliato le regole della produzione e del con- sumo del cibo, ponendo un insieme di precetti che devono ne- cessariamente essere rispettati dai credenti41. Non si verificano,
normalmente, particolari questioni problematiche con riferimen- to alle prescrizioni alimentari poste dalla religione maggioritaria in un dato ordinamento, atteso che esse sono condivise, in virtù del vantaggio strutturale che la loro ampia diffusione comporta, dalla generalità dei consociati. Al contrario, numerose questioni problematiche possono nascere laddove dette prescrizioni siano poste da religioni minoritarie, in quanto esse ben possono entrare in contrasto con norme o convenzioni espressive della cultura maggioritaria nell’ordinamento. La questione si collega, eviden- temente, al più ampio tema del multiculturalismo, e in particolare alla tutela delle cosiddette “nuove minoranze” per il tramite dei diritti culturali42.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato, con nu- merosi arresti giurisprudenziali, che il diritto alla libertà religiosa di cui all’articolo 9 della Convenzione tutela le scelte alimentari che siano espressione di una determinata fede, soprattutto con
40. Per una panoramica si vedano: R. BOTTONI, Le discriminazioni reli- giose nel settore lavorativo in materia di alimentazione, cit.; G. FILORAMO, A tavola con le religioni, cit., 17 ss.; V. PACILLO, Nutrire l’anima. Cibo, diritto e religione, cit., 4 ss. Quest’ultimo evidenzia, in particolare, come le religioni creino, rafforzino e strutturino i “food use patterns” che animano le nostre so- cietà.
41. Si veda A. CESERANI, Cibo ‘religioso’ e diritto: a margine di quattro recenti pubblicazioni, cit., 371.
42. Si veda A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’ali- mentazione, cit., 33 ss.
riferimento agli individui che non siano completamente liberi di procurarsi cibo di loro scelta, come ad esempio i carcerati43. Così,
nel caso Jakóbski v. Poland, la Corte ha ritenuto che il rifiuto da parte dello Stato di accomodare le esigenze alimentari (vegeta- riane) di un detenuto di fede buddhista costituisce una violazione dell’articolo 944. In senso sostanzialmente analogo il caso Var-
tic v. Romania45, che peraltro conferma che la possibilità per lo
Stato di rifiutare il regime alimentare particolare sulla base di una verifica in merito alla genuinità del sentimento religioso del richiedente incontra dei limiti particolarmente stringenti. Unico caso in cui doglianze quali quelle in esame non sono state accolte è il risalente X v. United Kingdom46, nel quale tuttavia il ricorso
veniva giudicato infondato solo perché le autorità penitenziarie avevano offerto al ricorrente, di religione ebraica, una valida al- ternativa, nella forma di una dieta kosher vegetariana (approvata addirittura dal rabbino capo della comunità di riferimento), che egli aveva tuttavia rifiutato.
La Corte ha altresì ammesso che, in alcuni casi, possono ri- levarsi delle violazioni dell’articolo 9 della Convenzione lad- dove lo Stato imponga dei divieti su alcune specifiche modalità di preparazione degli alimenti prescritte da una religione. Nel caso Cha’are Shalom Ve Tsedek v. France47, infatti, il divieto di
macellare la carne secondo le modalità prescritte dall’ortodossia ebraica è stato astrattamente ricondotto ad una violazione della libertà religiosa, nonostante nella fattispecie concreta non sia sta-
43. Per una rassegna della giurisprudenza in esame si veda M. C. MAFFEI, The right to ‘special food’ under Art. 9 of the European Convention on Human Rights, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 1, 2012, 101 ss.
44. Cfr. Jakóbski v Poland, Application no. 18429/06, 7 dicembre 2010. 45. Cfr. Vartic v. Romania, Application no. 14150/08, 17 dicembre 2013. 46. Cfr. X v. United Kingdom, Application no. 5947/72, 5 marzo 1976. 47. Cfr. Cha’are Shalom Ve Tsedek v. France, [GC], Application no. 27417/95, 27 giugno 2000.
ta ritenuta violata la Convenzione per via della finalità legittima del divieto (la tutela della salute pubblica), ma soprattutto per via della agevole reperibilità di soluzioni alternative (tra cui l’im- portazione della carne ritualmente preparata dal vicino Belgio, ovvero l’approvvigionamento da esercizi similmente specializ- zati nella specifica tecnica di preparazione e gestiti da comunità appartenenti alla stessa religione).
Dal canto suo l’Unione europea riconosce la riconducibilità delle questioni del cibo al diritto alla libertà religiosa di cui all’ar- ticolo 10 della Carta dei Diritti Fondamentali e perciò, all’artico- lo 13 TFUE, pur riconoscendo l’interesse alla tutela del benesse- re degli animali, ne impone il bilanciamento con le consuetudini in tema di riti religiosi e di tradizioni culturali48. L’Unione ha
pertanto espressamente normato il tema della macellazione ritua- le, da ultimo per il tramite del regolamento n. 1099/2009 che, nel disciplinare le modalità per la macellazione, pur riconoscendo agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità in mate- ria49, ammette una specifica deroga all’obbligo di stordire l’ani-
male prima di abbatterlo in caso di uccisioni rituali prescritte da specifiche religioni, a condizione che esse avvengano in un ma- cello50. Unica condizione a cui l’esercizio della deroga in esame
48. Così l’articolo 13: «Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato in- terno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legi- slative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale».
49. Sulla regolamentazione della macellazione rituale nei singoli Stati membri si veda R. BOTTONI, La macelleria rituale nell’Unione europea e nei paesi membri: profili giuridici, in A. G. Chizzoniti, M. Tallacchini (a cura di), Cibo e religione, diritto e diritti, Roma, Libellula, 2010.
50. Così il comma 4 dell’articolo 4: «Le disposizioni di cui al paragrafo 1 non si applicano agli animali sottoposti a particolari metodi di macellazione
è sottoposta è, quindi, che le uccisioni rituali avvengano in una struttura riconducibile alla nozione di macello così come definita dal regolamento n. 853/2004.
La normativa in esame sarà peraltro a breve sottoposta al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea in seguito alla questione pregiudiziale sollevata da un tribunale belga, che sospetta l’incompatibilità della stessa con il diritto alla libertà religiosa di cui all’articolo 9 CEDU e 10 CDFUE, oltre che con l’articolo 13 TFUE, proprio nella parte in cui essa impone che le uccisioni rituali avvengano in un macello autorizzato, così causando numerosi problemi pratici in occasione dell’aumento della domanda durante particolari ricorrenze sacre, per via della carenza di strutture specializzate in macellazione rituale51. In me-
rito, e dissentendo parzialmente dalle conclusioni dell’Avvocato generale nel caso di specie, occorrerà chiedersi se l’interesse a garantire la salute pubblica sia idoneo a comprimere, in sede di bilanciamento, il diritto fondamentale alla libertà religiosa, e più precisamente se la macellazione effettuata in strutture in parte difformi da quelle di cui al regolamento n. 853/2004 rappresenti un pericolo in concreto, e non solo in astratto, per il bene salute pubblica. In questo senso, appariva ragionevole e proporzionata la soluzione inizialmente adottata e poi abbandonata (proprio per via di una sua presunta incompatibilità con il diritto dell’Unione) in Belgio: la concessione di autorizzazioni per adibire tempo- raneamente a macello (nel rispetto delle necessarie prescrizioni igieniche) strutture terze che normalmente non esercitano detta attività.
prescritti da riti religiosi, a condizione che la macellazione abbia luogo in un macello».
51. Cfr. caso C-426/16. Sul caso si veda M. TOSCANO, Normativa euro- pea e macellazione rituale: le conclusioni dell’Avvocato generale davanti alla Corte di giustizia, in Eurojus.it, 12 dicembre 2017.
Con riferimento all’ordinamento italiano, l’unico caso di di- ritto al cibo particolare espressamente riconosciuto dal legisla- tore è quello di cui all’articolo 7 della legge n. 101 dell’8 marzo 1989, che recepisce l’intesa con le Comunità ebraiche italiane, per cui gli appartenenti alla fede ebraica che prestino servizio nelle forze armate o di polizia, che siano ricoverati in strutture sanitarie ovvero in istituzioni carcerarie (e affini), hanno il diritto di osservare, dietro espressa richiesta, le prescrizioni alimentari della loro fede52. Il diritto in esame si configura come una spe-
cificazione del diritto alla libertà religiosa di cui all’articolo 19 Cost., e il suo riconoscimento è accompagnato da una clausola che espressamente ne prevede il “costo zero” per le istituzioni statali, circostanza che induce a qualificarlo alla stregua di un diritto prevalentemente negativo, e non già come diritto positivo: la circostanza per cui l’appartenente alla fede ebraica non possa in effetti pretendere l’erogazione della prestazione alimentare a spese dello Stato solleva infatti dubbi sulla portata effettiva della tutela in esame.
La norma così interpretata potrebbe risultare peraltro, per certi versi, discriminatoria, se si considera che essa accorda un livello più elevato di tutela della libertà religiosa individuale all’appartenente alla minoranza ebraica rispetto agli apparte- nenti ad altre minoranze che pure impongono particolari regimi alimentari (come ad esempio quella musulmana o quella bud- dhista). Lo strumento dell’intesa dovrebbe tuttavia limitarsi alla
52. Così l’articolo 7: «L’appartenenza alle forze armate, alla polizia o ad al- tri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbli- che, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto. È riconosciuto agli ebrei che si trovano nelle condizioni di cui al comma 1 il diritto di osservare, a loro richiesta e con l’assistenza della Comunità competente, le prescrizioni ebraiche in materia alimentare senza one- ri per le istituzioni nelle quali essi si trovano».
regolamentazione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, e appare pertanto problematica l’introduzione per il suo tramite di livelli disomogenei di tutela di diritti costituzionali fondamentali in assenza di un criterio ragionevole di differenziazione. Né si può sostenere che detto criterio ragionevole sarebbe rappresen- tato proprio dalla stipula dell’intesa, se si considera che, in virtù del potere discrezionale pressoché illimitato goduto dal Governo in materia53, ciò equivarrebbe ad affermare che l’esecutivo può
discrezionalmente espandere, in favore di alcune confessioni, la tutela dei diritti fondamentali dei fedeli, senza che all’autorità giudiziaria sia dato di sindacare la corrispondenza di detto trat- tamento differenziato ai principi di eguaglianza e non discrimi- nazione.
In assenza di interventi normativi organici in materia, secon- do una tendenza tipica del modello di integrazione italiano54,
sorprende constatare che le istanze volte al riconoscimento del diritto a conservare e praticare determinate abitudini alimentari non sono giunte più frequentemente all’attenzione dell’autorità giudiziaria. La giurisprudenza sul tema specifico si presenta, in- fatti, piuttosto scarna: in uno dei pochi casi documentati la Corte di Cassazione ha affermato, con una sentenza del 2013, che le prescrizioni alimentari sono da ritenersi un “corollario di pra- tica rituale”, e che pertanto, dinnanzi all’istanza di un detenuto buddhista che chiede di poter consumare dei pasti vegetariani, il magistrato di sorveglianza non può limitarsi a menzionare un ge-
53. Si veda I. NICOTRA, Le intese con le confessioni religiose: in attesa di una legge che razionalizzi la discrezionalità del Governo, in Federalismi.it, n. 8, 2016.
54. Si vedano: F. SCUTO, Diritti culturali e multiculturalismo nello Stato costituzionale, cit., 54 ss.; G. CERRINA FERONI, V. FEDERICO, Introduzio- ne, in G. Cerrina Feroni, V. Federico (a cura di), Società multiculturali e per- corsi di integrazione. Francia, Germania, Regno Unito ed Italia a confronto, Firenze, Firenze University Press, 2017, 6.
nerico provvedimento dell’amministrazione carceraria in materia di adeguatezza del vitto, dovendo invece esaminare la doglianza nel merito, nella misura in cui essa risulta riconducibile alla vio- lazione di un diritto fondamentale della persona tutelato dagli articoli 2 e 19 Cost.55.
Al contrario, la giurisprudenza risulta essersi occupata più frequentemente, come si vedrà ai paragrafi successivi, di istanze culturali volte al riconoscimento di un diritto a nutrirsi secondo le proprie convinzioni filosofiche e morali.
4. Diritto al cibo e diritto a mantenere la propria cultura (ali-