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Una notizia che maggiormente si avvicina a quella già descritta per lo pseudo Platone è inserita nel III libro del ‘De Re Publica’ (55-51 a.C.) di Cicerone:

«Ius enim de quo quaerimus civile est aliquod, naturale nullum; nam si esset, ut calida et frigida et amara et dulcia, sic essent iusta et iniusta eadem omnibus. Nunc autem, si quis illo Pacuviano ‘invehens alitum anguium curru’ multas et varias gentis et urbes despicere et oculis conlustrare possit, videat primum in illa incorrupta maxume gente Aegyptiorum, quae plurimorum saeculorum et eventorum memoriam litteris continet, bovem quendam putari deum, quem Apim Aegyptii nominant, multaque alia portenta apud eosdem et cuiusque generis belvas numero consecratas deorum; deinde Graeciae sicut apud nos delubra magnifica humanis consecrata simulacris, quae Persae nefaria putaverunt; eamque unam ob causam Xerses inflammari Atheniensum fana iussisse dicitur, quod deos, quorum domus esset omnis hic mundus, inclusos parietibus contineri nefas esse duceret. Post autem cum Persis et Philippus, qui cogitavit, et Alexander, qui gessit, hanc bellandi causam inferebat, quod vellet Graeciae fana poenire; quae ne reficienda quidem Grai putaverunt, ut esset posteris ante os documentum Persarum sceleris sempiternum. Quam multi, ut Tauri in Axino, ut rex Aegypti Busiris, ut Galli, ut Poeni, homines immolare et pium et diis immortalibus gratissumum esse duxerunt».

«In verità il diritto sul quale indaghiamo è un qualcosa di civile, non qualcosa di naturale; infatti, se lo fosse, come il caldo, il freddo, l’amaro e il dolce, così la giustizia e l’ingiustizia sarebbero uguali per tutti. Ma ora, se si potesse, come in quel verso di Pacuvio, ‘salendo su di un carro di serpenti alati’, guardare dall’alto e osservare con gli occhi numerose e diverse genti e città, si vedrebbe, prima di tutto, che in quel popolo massimamente incorrotto degli Egiziani, che conserva nei testi scritti la memoria di moltissimi secoli ed eventi, un certo bue è considerato un dio, che gli Egiziani chiamano Api, e che presso di loro sono consacrati fra le divinità molti altri mostri e belve di ogni genere; poi, in Grecia, così come da noi, magnifici santuari (sono) consacrati a simulacri umani, che i Persiani hanno ritenuto empi, e si dice che solamente per questo motivo Serse ordinò di dar fuoco ai templi degli Ateniesi, poiché considerava essere empio che gli dèi, la cui dimora è tutto questo mondo, fossero tenuti racchiusi da pareti. Dopo invece, insieme ai Persiani, sia Filippo, che (la) pensò, sia Alessandro, che (la) realizzò, adducevano questa causa del muovere guerra, cioè poiché voleva vendicare i templi greci; neppure i Greci ritennero di dover ricostruirli affinché fosse davanti agli occhi dei posteri un documento sempiterno della scelleratezza dei Persiani. Quanti altri, come i Tauri del Ponto, come il re dell’Egitto Busiride, come i Galli, come i Cartaginesi, considerarono essere pio e graditissimo agli dèi immortali immolare uomini» (DeReP. III 8-9, 13-15).

Il dialogo viene temporalmente collocato nel 129 a.C. fra personaggi del calibro di Scipione, Scevola, Lelio, Filo, Tuberone, figure che avrebbero potuto rianimare la devozione per la patria che, al tempo in cui Cicerone scrive, era in forte crisi91. Il

libro III è uno dei più lacunosi e si occupa delle nozioni di ‘giustizia’ e ‘ingiustizia’ attraverso le voci di Lelio e Filo il quale, nella citazione di cui sopra, esprime il suo

90 XELLA P., 2009.

pensiero. Il passo comincia con Filo che sostiene che la legge sia un qualcosa di “civile” e non un qualcosa di “naturale” dato che ogni comunità ha una concezione diversa di ciò che è giusto e ingiusto. A questo punto viene inserito un verso di Pacuvio, forse della tragedia ‘Medus’ nella quale Medea giungeva su di un cocchio trainato da serpenti alati nel momento in cui Medo, figlio suo e di Egeo, veniva scagliato da una tempesta sulle coste della Colchide92. Il verso ha la funzione di metafora dell’osservare, e giudicare, dall’alto i popoli e le loro consuetudini. Si parla, così, degli Egiziani e del fatto che considerino un bue, Api, una divinità, cosa che vale anche per altri essere mostruosi, dei Persiani e del fatto che ritenessero empio consacrare templi agli dèi e che, per questo, distrussero i santuari ateniesi, e infine di Tauri, del re egiziano Busiride, di Galli e di Cartaginesi che considerano essere “pium” e “gratissumum” dagli dèi “homines immolare”. I Tauri sacrificavano uomini per la dea Artemide, come anche i tragici ci ricordano (vedi l’‘Ifigenia in Tauride’ di Euripide); Busiride è un mitico re egiziano che immolava gli stranieri a Zeus; i Galli, come abbiamo visto nella notizia di Varrone, sacrificavano i propri anziani a Saturno. Filo, quindi, utilizza esempi di pratiche presenti in varie popolazioni esterne al mondo romano per giungere alla conclusione pessimistica che le leggi vengono create su basi utilitaristiche e non per far valere la giustizia93. Come per l’anonimo allievo di Socrate, ci sembra di poter dire che Filo non appare scandalizzato dagli atti cultuali stranieri, per quanto li ritenga lontanissimi dalla sua cultura, e che, anche qui, i lettori vengono spinti a non giudicare gli stranieri secondo il proprio schema morale ma a ritenerli diversi in quanto appartenenti a culture differenti, nonostante, ricordiamolo, lo stesso Cicerone non sia estraneo ad attacchi deliberati contro Fenici e Cartaginesi sulla

92 NENCI F., Introduzione al ‘DE RE PUBLICA’ di Cicerone, 2008. 93 Ibidem.

base dei più classici stereotipi riguardanti la loro indole ingannatrice94. Inoltre possiamo dire che i sacrifici, quantomeno umani, presso i Cartaginesi anche da questa testimonianza sembrano essere una pratica ben conosciuta anche presso i Romani, che ebbero, come tutti sappiamo, molto a che fare con questo popolo, pratica ritenuta stabile, facente parte del culto ad una divinità qui non specificata ma che possiamo ritenere trattarsi dello stesso Kronos/Saturno/Baal Hammon.