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Partiamo, seguendo un ordine cronologico, da quello che ci lasciano le tragedie greche, all’interno delle quali i sacrifici umani rappresentano un tema

69 GSELL S., 1913-1928. 70 LEGLAY M., 1966.

fondamentale. Il sacrificio sta al centro, o almeno sullo sfondo, nei tre massimi tragediografi, Eschilo, Sofocle ed Euripide, nei quali ogni genere di uccisione viene identificata con il termine specifico θύειν che, in età classica, indica tutti i tipi di sacrificio. Senza addentrarci troppo nella questione, se prendiamo per vero che il termine τραγῳδία indica il “canto in occasione del sacrificio di un capro”, allora è in questo punto che la tragedia, pur non prevedendo più un’effettiva messa a morte dell’animale, non perde il forte legame con il rituale sacrificale, che effettivamente la permea. Si uniscono, così, mito e culto e si mette al centro della rappresentazione l’esistenza umana di fronte alla morte71: qui possono essere inseriti i rituali sacrificali. Non troviamo qui specificatamente sacrifici di bambini ma più che altro sacrifici di adolescenti che, volontariamente, consapevolmente, si immolano per un bene superiore: la salvezza della patria. Il sacrificio appare come l’unico modo per superare un momento di grave crisi sociale. Il personaggio che di queste opere maggiormente ci colpisce è Meneceo, il giovane che si sacrifica per la sopravvivenza di Tebe nella tragedia di Euripide ‘Le Fenicie’, opera datata probabilmente al 409/408 a.C.. Non è tanto, o non solo, la giovane età di costui a interessarci, ma soprattutto il suo inserimento in un’opera che presenta nel titolo l’etnia dei personaggi del coro composto, appunto, da donne provenienti dalla Fenicia. Questo coro, fin dagli albori della critica, è stato letto come uno dei più stranianti delle tragedie euripidee: si tratta di giovani nubili venute da Tiro quali ierodule per il tempio di Apollo a Delfi che, per caso, si sono trovate a Tebe proprio al sopraggiungere dello scontro fra gli eserciti dei fratelli Eteocle e Polinice. L’unico collegamento fra esse e la città di Tebe sta nella parentela fra Agenore, capostipite dei Fenici, e Cadmo, uno dei suoi figli, mitico fondatore della città. Si tratta, quindi, di un coro estraneo alle ragioni e alle emozioni dei personaggi, che

non dialoga più con essi ma che fa da filo conduttore con il passato di Tebe, con Cadmo che provocò l’ira di Ares uccidendo il drago del quale seminò i denti che diedero vita alla nuova stirpe degli Sparti, gesto che ora richiede vendetta attraverso lo spargimento del sangue di Meneceo. Il giovane è un vero e proprio φάρµακον

σωτηρίας, cura che dovrebbe porre rimedio alla malattia che colpisce la città e la

stirpe dei Labdacidi, sostituto del ‘deus ex machina’, tipico delle tragedie euripidee tarde, che compare, però, a metà della storia testimoniando il ritorno al corso tradizionale del mito ma anche gli effetti poco incisivi sulla sorte di Tebe72. Gli avvenimenti ci vengono raccontati nella terza parte del terzo episodio: Creonte, preoccupato per le sorti della città, chiede l’intervento dell’indovino Tiresia che, inizialmente reticente, confessa che l’unico modo per salvare Tebe è il sacrificio di suo figlio, Meneceo. Ma il re non accetta il responso, caccia via in malo modo il vecchio Tiresia e spinge il figlio a fuggire il prima possibile. Il giovane, dopo aver fatto credere al padre che avrebbe eseguito i suoi ordini, confida alle donne del coro che avrebbe portato a compimento l’oracolo, unica speranza di salvezza, e che non avrebbe ceduto alla viltà impostagli dalle preoccupazioni paterne73. Queste le sue parole: «Γυναῖκες, ὡς εὖ πατρὸς ἐξεῖλον φόβον, κλέψας λόγοισιν, ὥσθ`ἃ βούλοµαι τυχεῖν· ὅς µ`ἐκκοµίζει, πόλιν ἀποστερῶν τύχης, καὶ δειλίᾳ δίδωσι. Καὶ συγγνώµην ἔχει, προδότην γενέσθαι πατρίδος ἥ µ`ἐγείνατο. ῾Ως οὖν ἂν εἰδῆτ`, εἶµι καὶ σῴσω πόλιν ψυχήν τε δώσω τῆσδ`ὑπερθανεῖν χθονός. Αἰσχρὸν γάρ· οἱ µὲν θεσφάτων ἐλεύθεροι κοὐκ εἰς ἀνάγκην δαιµόνων ἀφιγµένοι στάντες παρ`ἀσπίδ`οὐκ ὀκνήσουσιν θανεῖν, πύργων πάροιθε µαχόµενοι πάτρας ὕπερ· ἐγὼ δέ, πατέρα καὶ κασίγνητον προδοὺς πόλιν τ`ἐµαυτοῦ, δειλὸς ὣς ἔξω χθονὸς ἄπειµ`· ὅπου δ`ἄν ζῶ, κακὸς φανήσοµαι. Μὰ τὸν µετ`ἄστρων Ζῆν` Ἄρη τε φοίνιον, ὅς τοὺς ὑπερτείλαντας ἐκ γαίας ποτέ Σπαρτοὺς ἄνακτας τῆσδε γῆς ἱδρύσατο. 72 FOLEY H.P., 1985. 73 MEDDA E., Introduzione a ‘LE FENICIE’ di Euripide, 2006.

Ἀλλ`εἶµι καὶ στὰς ἐξ ἐπάλξεων ἄκρων σφάξας ἐµαυτὸν σηκὸν ἐς µελαµβαθῆ δράκοντος, ἔνθ`ὁ µάντις ἐξηγήσατο, ἐλευθερώσω γαῖαν· εἴρηται λόγος. Στείχω δέ, θανάτου δῶρον οὐκ αἰσχρὸν πόλει δώσων, νόσου δὲ τήνδ`ἀπαλλάξω χθόνα. Εἰ γὰρ λαβὼν ἕκαστος ὅ τι δύναιτό τις χρηστὸν διέλθοι τοῦτο κἀς κοινὸν φέροι πατρίδι, κακῶν ἄν αἱ πόλεις ἐλασσόνων πειρώµεναι τὸ λοιπὸν εὐτυχοὶεν ἄν».

«Donne, come ho ben allontanato la paura dal padre, con gli inganni delle parole, così da ottenere ciò che voglio; egli mi vuole portare in salvo, privando la città della fortuna, e vuole darmi alla viltà. Ciò è perdonabile in un vecchio, ma per quanto mi riguarda non è perdonabile divenendo traditore della patria che mi ha generato. Dunque sappiate che andrò, salverò la città e darò la vita morendo per questo paese. Infatti sarebbe disonorevole: coloro che sono liberi dagli oracoli e non sono sottoposti al destino stabilito dagli dèi, schierati in battaglia, moriranno senza esitazioni, combattendo per la patria di fronte alle mura difensive; invece io, tradendo mio padre, mio fratello e la mia città, come un vile andrò via dal paese: poiché finché vivrò apparirò vigliacco. No, in nome di Zeus che sta fra gli astri e Ares omicida che un tempo mise gli Sparti, spuntati dalla terra, come signori della regione. Ma andrò e starò in alto sul bastione e mi sgozzerò io stesso sull’antro oscuro del drago, secondo le indicazioni dell’indovino, liberando la regione: queste parole ho detto. Vado, farò un dono non turpe di morte alla città, allontanerò dal paese questo flagello. Infatti se ognuno, prendendo tutto il buono che può, lo portasse e lo dividesse per interesse comune della propria patria, le città proverebbero mali minori e il futuro sarebbe fortunato» (Phoen. 991-1017).

La domanda che ora sorge è: la scelta di questo titolo, e di questo particolare coro, è casuale? Vuole fare riferimento solo al passato mitico di Tebe o vuole anche riferirsi all’ideologia relativa ai sacrifici umani presso Fenici e Punici, ben nota al mondo greco? Quello di Meneceo non è il solo sacrificio presente nelle tragedie euripidee, ma qui troviamo l’unica vittima di sesso maschile il cui gesto è commentato in maniera positiva solamente dall’indovino Tiresia e dal coro, le cui donne si augurano di partorire figli di questo calibro. Il sacrificio appare necessario per la salvezza della patria in quanto serve per reintegrare la perdita subita dalla terra in seguito all’uccisione del drago e per reiterare il privilegio della nascita della dinastia degli Sparti già ottenuto da Cadmo74. Il coro straniero può leggere la vicenda sotto una luce diversa rispetto ai protagonisti e può dare voce all’oracolo di Tiresia secondo il quale la soluzione alla disputa fra i due fratelli sta nel lontano passato di Tebe a causa del quale l’ostilità divina non si è ancora placata. Così le

Fenicie testimoniano il “ritorno a Cadmo” anche fisicamente, dato che il loro viaggio ripercorre quello compiuto dall’antenato, e vengono poste nella posizione di cogliere il piano più profondo della vicenda, pur non usandolo per influenzare l’azione dei protagonisti ma solo per comunicare direttamente con il pubblico75. Il coro, allora, partecipando indirettamente alle emozioni dei personaggi, allontanandosi dall’azione scenica e dialogando personalmente con gli spettatori, rappresenta un nuovo momento della poetica euripidea che, come in numerose altre opere, innova sulla base della tradizione. Il sacrificato, per quanto più grande di età rispetto ai bambini molto piccoli ritrovati nelle urne dei tofet e quindi non del tutto paragonabile ad essi, appartiene comunque al gruppo di giovani ancora non del tutto inseriti nell’ambito sociale in quanto celibe e non ancora padre. Proprio per questa sua potenzialità rappresenta sia una perdita grave per la comunità sia il sacrificio più grande che si possa compiere per ristabilire l’equilibrio perso e la fortuna perduta della città. In più possiamo credere che gli spettatori fossero in grado di comprendere il rimando a quel mondo culturale fenicio con il quale erano in contatto e del quale le pratiche sacrificali erano fondamentali. Anche se la certezza è tutt’altro che vicina, non possiamo escludere che Euripide, così facendo, avesse voluto creare un arguto legame con il passato mitico della città di Tebe che si riaggancia saldamente al mondo fenicio e alla sua ideologia, compresi i riti sacrificali, ancora di più se prendiamo per vero la possibilità che l’episodio di Meneceo sia stato utilizzato in questo contesto per la prima volta dal tragediografo stesso76. Una piccola conferma potrebbe giungere dall’analisi di un frammento di

Sofocle relativo all’Andromeda che recita: «†ἡµιουτὸν† κούρειον ᾑρέθη πόλει· νόµος γάρ ἐστι τοῖσι βαρβάροις Κρόνῳ θυηπολεῖν βρότειον ἀρχῆθεν γένος». 75 MEDDA E., 2005. 76 FOLEY H.P., 1985.

«È stata presa come vittima sacrificale dalla città; infatti, è legge fra i barbari sacrificare a Kronos esseri umani» (Sof. fr.122).

In questi pochi versi si vede come il dramma di Andromeda venga inserito nel contesto dei sacrifici umani compiuti in onore di Kronos da popoli definiti genericamente barbari ma, come ben sappiamo noi e come ben dovevano sapere i Greci (vedi la testimonianza successiva nel Minos), pratica rituale tipicamente fenicia, intendendo probabilmente più quelli occidentali che quelli orientali77, per quanto non ci sia un esplicito riferimento ai bambini. Il legame non è del tutto chiaro ai nostri occhi ma potrebbe inquadrarsi in quel gioco di rimandi fra autore e pubblico di cui abbiamo scritto sopra. Purtroppo di questa tragedia sofoclea ci rimangono veramente pochi frammenti, cosa che rende piuttosto difficile farne un’analisi completa e approfondita non solo di questo specifico aspetto.