Facciamo, infine, una breve digressione sul riso sardonico che, come abbiamo visto, viene spesso inserita nelle notizie relative ai sacrifici di bambini punici ma che si trova in molte altre fonti anche slegate da questo argomento. Si utilizzava l’espressione ‘σαρδόνιος γέλως’ o, più raramente, ‘σαρδάvιος γέλως’ per indicare un riso compiuto tirando la bocca in una smorfia, un riso, più che altro, ghignante. Sono i lessicografi, i glossatori, gli scoliasti e i raccoglitori di proverbi di età tarda a
darci questa spiegazione. Il riso sardonico si unisce, spesso, ad una notizia relativa ad una pianta mortale descritta come simile al sedano e quindi pericolosa in quanto facilmente confondibile con un ortaggio comunemente consumato. L’assunzione di questa pianta avrebbe provocato, come ci racconta il medico militare greco Dioscoride Pedanio (I secolo d.C.) nella sua raccolta farmacologica ‘De Materia Medica’175, la perdita del controllo della mente e la convulsione dei nervi delle labbra con la formazione di un ghigno quasi come fosse una risata (che è poi ciò che accade in coloro che vengono colpiti dal tetano). L’identificazione di questa specie di sedano è piuttosto discussa, viste anche le numerose contraddizioni interne alle descrizioni che i vari autori ce ne fanno nel corso del tempo, ma ciò che interessa di più è che la si ricollega proprio al riso sardonico, o meglio al ghigno di dolore che essa provocherebbe176. Questo particolare ‘riso’ rimanda, poi, alla
Sardegna, sia in maniera piuttosto generica, come quando si parla della statua di bronzo di Kronos o del gigante Talos (non da tutti collocato in questa sede), sia in riferimento a qualche usanza particolare nota sull’isola, come quella già descritta sul consumo dell’erba sardonia o quella relativa all’uccisione dei padri anziani da parte dei figli, della quale ci raccontano, fra gli altri177, lo storico Timeo, in uno
scolio a ‘La Repubblica’ di Platone, o l’atticista Demone, in uno scolio all’‘Odissea’ che sembra mettere insieme la notizia di Timeo e quella di Clitarco sui sacrifici di bambini: parla, infatti, di veri e propri sacrifici compiuti in onore di Kronos dai Cartaginesi di Sardegna che prevedevano come vittime uomini di settant’anni e i prigionieri più belli i quali giudicavano nobile ridere poco prima della propria fine178. Si spazia, quindi, da un riso ‘naturale’, involontario, riflesso
175 RIBICHINI S., 2003. 176 RIBICHINI S., 2003. 177 Vedi in aggiunta: Zenobio (V 85), Pausania (fr.65 Erbse), Eliano (Var.Hist. IV 1), Esichio (σ 204), Suda (σ 123), scolio in Luciano (Asin. 24), Eustazio (ad Hom.Od. XX 302), Tzetze (schol. In Lyc. Alex. 796), Apostolio (XV 35). 178 MINUNNO G., 2003.
incondizionato, ad un riso ‘culturale’, culturalmente orientato, volontario. Questo significato, diciamo, psicologico non è sempre stato presente, anzi nell’Odissea l’aggettivo, in entrambe le sue forme, viene utilizzato in maniera più letterale e sembra risalire ad alcune radici verbali che significano “scuotere”, “ardere”, “digrignare i denti”, come gli stessi lessicografi ci spiegano, ma non abbiamo certezze in merito. A partire dal VI-V secolo a.C. si iniziano a trovare, in aggiunta alle precedenti, le spiegazioni legate alla botanica, al mito e al rito che abbiamo in parte analizzato all’interno di questo secondo capitolo e in parte proprio in questo specifico paragrafo. Il fatto che ci restino soprattutto notizie tarde forniteci da autori che, per spirito di completezza, citano tutta la tradizione della quale, oramai, non hanno più ricordo, pur utilizzando i testi originali (che noi non possediamo), ci impedisce di avere un quadro più chiaro di questa tradizione, un misto di fonti e variazioni sul tema lunga moltissimi secoli179. Rimane la possibilità che questo ‘riso’ fosse sincero e da parte ellenica non si comprendesse il senso di manifestare un sentimento felice durante riti che, apparentemente, ai loro occhi dovevano essere tutt’altro che gioiosi. Di conseguenza, volontariamente, l’espressione in questione è stata collegata a riti tradizionali della Sardegna e alla presenza punica sull’isola, minata dai tipici giudizi negativi nei loro confronti da parte greco-romana180. Notiamo bene come ci troviamo a parlare di una tradizione piuttosto complessa e che, nel corso del tempo, ha fatto riferimento a fonti diverse che spesso non hanno un chiaro o reale collegamento fra loro. Tutto ciò rende difficile dare una definitiva spiegazione del significato di ‘riso sardonico’ e dei riti, tradizioni e miti, anche piuttosto diversi per modalità e finalità, che di volta in volta ad esso vengono legati.
179 RIBICHINI S., 2003.
CONCLUSIONI
Abbiamo visto quanto i testi analizzati nel secondo capitolo siano un gruppo particolarmente vario ma, comunque, coerente. Molte delle notizie riportate provengono da altre più antiche a testimoniare la popolarità, e anche la topicità, dei dati in esse contenute, fra i quali gli aspetti, per così dire, strutturali dei rituali trovano un più ravvicinato riscontro con i dati desunti dall’archeologia e dall’epigrafia181. Non dobbiamo, inoltre, dimenticare che dare una spiegazione generale a tutte queste fonti non è cosa semplice e non sempre utile in quanto ogni autore scrive in uno specifico contesto, a distanze temporali anche molto grandi, per motivazioni che gli sono proprie e che non sempre corrispondono a quelle di altri che, come lui, hanno ritenuto opportuno utilizzare queste informazioni.
In generale, possiamo dire che gli autori classici tendono a parlare dei sacrifici di bambini (e, in senso più ampio, dei sacrifici umani) solo per denigrare i popoli che vi ricorrevano, solo in senso dispregiativo e in contrapposizione con la propria cultura, maggiormente civilizzata e quindi non avvezza, o non più avvezza, a questo genere di rituali cruenti. In genere gli autori greci indicano i sacrifici umani come appartenenti ad un passato che non esiste più, aboliti da varie figure di cosiddetti civilizzatori più o meno storici. Anche laddove esistano delle eccezioni greche, il sacrificio umano viene identificato come un costume barbaro, anche in questi luoghi spesso abolito dai soliti civilizzatori, umani o divini. I Greci che ci parlano non sembrano avere, però, testimonianze dirette di questo genere di rituali e non siamo in grado di dire se sia possibile che essi facessero parte realmente del loro background culturale, appartenente forse ad un passato antichissimo e per lo
più dimenticato ma che lascia qualche traccia di sé nei racconti mitici e nelle raccolte di età ellenistica182. Nei testi che spaziano fra I e IV secolo d.C. possiamo
dire che, quando si parla di sacrifici, sostanzialmente ci si focalizza su quattro temi: un primo tema secondo cui, in tempi remoti, i sacrifici venivano praticati anche presso Romani e Greci; un secondo tema secondo cui questa pratica viene abbandonata e, in più, Roma la proibisce ai popoli a lei soggetti; un terzo tema che spiega che in circostanze particolari, straordinarie gli stessi Romani furono costretti a praticare questi rituali cruenti; un quarto tema che prevede l’utilizzo come vittime sacrificali di uomini la cui vita era ritenuta di poca importanza, ossia nemici e barbari. Nonostante le evidenti contraddizioni, quest’ideologia sopravvisse abbastanza a lungo da poter essere utilizzata contro i Cristiani e, successivamente, all’interno della stessa comunità cristiana, sempre con la medesima funzione di screditare il prossimo, il diverso da sé. Questo ci rimanda chiaramente al contesto e all’ideologia espressa nella Bibbia ebraica, anch’essa volta a, probabilmente, rinnegare abitudini del passato e ad elogiare il nuovo dio e i suoi nuovi valori183. È necessario ricordare che per i Romani fu semplice apparentare i Cristiani con le altre popolazioni semitiche del Mediterraneo orientale (Ebrei e Fenici), dal quale essi originariamente provenivano, e attribuirgli pratiche che non facevano parte del loro specifico background culturale ma che potevano infangarne il nome: l’alone di mistero che celava le cerimonie cristiane appariva, così, come prova del compimento di riti cruenti fra i quali il sacrificio di bambini, realizzato durante il rito del battesimo, sembrava uno dei più logici da attribuirgli, in analogia col ben conosciuto mondo punico. Da questi attacchi, gli autori cristiani si difesero semplicemente rimandando le accuse agli accusatori, tacciati essi stessi di questo
182HUGHES D.D., 1991. 183 GROTTANELLI C., 1999.
genere di atti inconcepibili184, pratiche stabili e inserite sempre nel culto. Fu a questo punto che l’attenzione si spostò dalla contrapposizione fra greco-romani e barbari a quella fra cristiani e non cristiani, per i quali il sacrificio umano era una pratica consueta e mostruosa, dovuta ai falsi dèi ai quali essi si affidano185. Ma sia negli autori vissuti prima della venuta di Cristo, Greci o Romani che fossero, sia in quelli venuti dopo di lui, la volontà sembra sempre essere quella di usare il sacrificio umano come un segno ideologico capace di separare nettamente il mondo straniero, barbarico, diverso, dal mondo greco-latino, civilizzato e percepito in qualche modo superiore. Gli autori cristiani non faranno altro che vivificare questa separazione in quanto mezzo di attacco alla religiosità pagana, dedita a questo genere di riti per loro incomprensibili. A ben vedere, le fonti di cui abbiamo parlato vanno a coprire un arco di tempo che si estende da circa il V secolo a.C. a circa il V secolo d.C., mille anni in cui le informazioni, pur con le varie diversificazioni interne, si ripetono nel segnalare la crudeltà dei riti barbari/pagani e la civiltà dei costumi greco-romani/cristiani. Quand’anche, in autori pagani, si riconosca l’esistenza di sacrifici umani presso le civiltà classiche a cui appartengono, questi vengono dipinti come gesti necessari per rispondere a condizioni eccezionali, mentre dagli altri popoli vengono praticati quale libera scelta quotidiana, frutto di una superstizione crudele e ignorante. La differenza è, dunque, morale, nonostante nella realtà esistessero sacrifici umani regolari anche presso i popoli “civilizzati”, come per esempio quelli compiuti durante i Saturnali, per i quali si sceglievano più che altro condannati a morte la cui sentenza veniva così inserita nella cerimonia, uomini solo in un secondo tempo sostituiti da manichini. Si potrebbe allora pensare che la civiltà classica, per liberarsi di un passato, e di un presente, scomodo, accusi i popoli stranieri di atti per esse totalmente incomprensibili e superati dalla legge,
184 MARTELLI F., 1981. 185 RIVES J., 1995.
una legge superiore186. Ma sarà proprio grazie a queste contraddizioni interne che gli autori cristiani avranno la possibilità di utilizzare la medesima differenziazione morale per i loro fini apologetici.
Entrando ora nello specifico dei riti che interessano il nostro lavoro, notiamo tre generi di fonti: una serie di autori che vedono nel sacrificio di bambini a Cartagine una rievocazione dell’atto di fondazione della città, che sancisce la costante protezione divina; un’altra serie di autori che vede nella cadenza periodica del rituale una richiesta esplicita della divinità, che così può garantire la sopravvivenza e la fortuna della sua città; infine, una serie di autori ci vede un legame con momenti particolari, eccezionali, situazioni di crisi della società fenicio-punica che in questa maniera chiede la benevolenza e il sostegno del dio. Le fonti classiche pongono, allora, i rituali fenicio-punici in opposizione con le leggi greco-romane ma li confrontano con simili pratiche esistenti in altri gruppi sociali stranieri, come quelle compiuti da Celti, Tauri o Egiziani, e solo di rado ce ne parlano in maniera isolata. La peculiarità di Fenici, Cartaginesi e Sardi sembra essere solo il fatto di sacrificare nello specifico bambini187. La maggior parte dei testi che abbiamo visto danno una connotazione negativa ai fatti ma alcuni di essi usano i sacrifici umani per indicare quanto la nozione di civilizzazione sia relativa, convenzionale, specifica di ogni singola comunità. Tutti quanti, comunque, testimoniano una certa distanza culturale fra chi scrive, il suo popolo di appartenenza e coloro di cui si parla e di cui si raccontano le pratiche comuni. Questi, agli occhi dei nostri autori, vivono ai margini del mondo, ne costituiscono la periferia fisica e culturale188 e, per
questo, posso essere utilizzati quali esempio del “diverso”, dell’altro da sé, in maniera positiva o, più frequentemente, negativa.
186 MARTELLI F., 1981.
187 GARNARD B.K., 2013. 188 RIVES J., 1995.
Dalle nostre fonti, oltre ai giudizi, più o meno personali, sui rituali, emergono una serie di indicazioni specifiche riguardanti le caratteristiche fondamentali del rito sacrificale, quei dati strutturali di cui abbiamo parlato all’inizio di queste conclusioni. Il sacrificio ha come destinatario Baal Hammon (El solo nelle fonti che si rifanno agli scritti di Filone di Biblo e alla sua traduzione di Sanchuniaton e Bel solo in Girolamo), chiamato Kronos, dagli autori che scrivono in greco, o Saturno, da coloro che scrivono in latino. Questi stessi nomi divini li ritroviamo anche nelle epigrafi non scritte in fenicio, a testimonianza di come queste divinità fossero state dagli stessi fedeli assimilate al Baal Hammon indicato dai loro predecessori189. Non viene mai menzionata la sua paredra Tinnit, nonostante la sua predominanza nelle iscrizioni a partire dal V secolo a.C., forse perché, in quanto ‘volto’ di Baal, semplice mediatrice fra gli uomini e il dio destinatario del rituale, colui che aveva in mano le sorti dei suoi fedeli, il padre al quale i piccoli bambini venivano inviati attraverso l’intercessione della madre divina. Dai testi analizzati traspare poi, come più volte sottolineato, che questo genere di sacrifici erano riti cultuali, quindi atti pienamente inseriti nel culto stabile per il destinatario divino. Le vittime del sacrificio sono indicate con una terminologia variabile che intende caratterizzarli quali giovani membri della comunità. La maggior parte dei termini utilizzati indica il loro essere ‘figli’ e, in maniera ancora più generale, ‘bambini’, senza indicazione del sesso ma con un piuttosto chiaro riferimento alla giovane età; alcuni di essi sono più espliciti dato il senso di ‘neonati’, ‘piccoli bambini’ o l’indicazione di vagiti placati dalle carezze dei genitori, specificazioni che trovano riscontro nei dati archeologici. La caratteristica fondamentale appare, così, essere l’immaturità psico- fisica delle vittime, la loro non ancora compiuta integrazione sociale190, la loro
189 Vedi, a titolo esemplificativo, i testi del tofet di El-Hofra in greco e latino dei quali si occupa l’opera di Berthier A. e Charlier R., 1955.
potenzialità di futuri adulti che li rende perfetti per questo genere di rituale di dono. Alcuni autori sottolineano, in più, l’appartenenza sociale delle vittime (non confermata da tutte le nostre fonti e nemmeno dall’archeologia) e/o il loro essere ‘figli unici’/‘figli più cari’. Questo potrebbe spiegare la pratica della sostituzione del bambino prescelto con un altro che veniva acquistato da famiglie bisognose: l’atto perdeva di efficacia in quanto si cercava di ingannare il dio che, di conseguenza, puniva i trasgressori e la comunità tutta. La sostituzione, o meglio, l’“adozione” di un bambino altrui da sacrificare in caso non se ne avessero di propri, sembra essere stata una pratica lecita, confermata dall’epigrafia. Alcuni autori, infine, parlano in maniera più generica di esseri umani, soprattutto quando scrivono lunghi elenchi di popoli che attuano pratiche cultuali sentite come deplorevoli, indicazioni che possono essere rimandate abbastanza agilmente al da loro noto rito del sacrificio di bambini fenicio-punico. Qui di seguito riportiamo una tabella con i sostantivi indicanti le vittime e gli autori che li utilizzano.
ὑιός pseudo-Platone Diodoro Siculo Eusebio di Cesarea Filone Plutarco
παῖς Clitarco Diodoro
Siculo
Eusebio di Cesarea
Atanasio Fozio
τέκνον Plutarco Atanasio Filone di
Biblo Eusebio di Cesarea Origene Esichio filius Pescennio Festo
Lattanzio Agostino Silio Italico Minucio Felice
liber Tertulliano Girolamo Isidoro di
Siviglia παιδίον Plutarco Clitarco βρέφος Filosseno parvus natus Silio Italico
infans Lattanzio Minucio
Felice
Tertulliano Prudenzio
inpubes Pompeo
Trogo
Giustino Orosio
puer Varrone Agostino Draconzio Curzio
Rufo
Silio Italico
puellus Ennio
partus Silio Italico
esseri umani
Teofrasto Cicerone Dionigi di Alicarnasso
Giustino Martire
Pompeo Trogo
Le modalità di uccisione utilizzate per il sacrificio non sono sempre esplicitate. Sono pochi gli autori che parlano di ‘sgozzare’ le vittime, in modi vari, mentre la maggior parte dei termini da essi utilizzati hanno il significato di ‘immolare’, ‘sacrificare’ in onore della divinità. Alcune fonti utilizzano sostantivi che indicano un’uccisione violenta e crudele, secondo la loro opinione dell’atto, o di più generici omicidi e pratiche compiuti sugli altari. Tutti i passi relativi al riso sardonico e alla statua bronzea di Kronos parlano di ‘bruciare’ i sacrificati. Chiaramente, una pratica non esclude l’altra e, anzi, dagli altri dati a nostra disposizione è possibile ipotizzare che il rituale prevedesse l’uccisione del bambino, forse per sgozzamento, metodo comune nei sacrifici, e la successiva arsione dei corpi, processo di ‘trasformazione’ della vittima in seguito al quale essa avrebbe potuto avere accesso ad una sorte particolare nell’aldilà191. Alcuni autori ci dicono, poi, che il rito era
accompagnato dal suono di flauti e timpani, in un’atmosfera gioiosa, e fondamentale è la presenza dei genitori ai quali, solitamente, è proibito piangere. Di seguito riportiamo una tabella relativa ai termini utilizzati dalle fonti in questione. Ù 191 XELLA P., 2009. θύω pseudo- Platone Diodoro Siculo
Plutarco Porfirio Cirillo Teodoreto
καθάγω Clitarco
ἀνθρωποθυtέω Teofrasto Porfirio Eusebio di
Cesarea
καταθύω Plutarco Origene
τεκνοθυσία Atanasio
immolare Varrone Cicerone Curzio
Rufo
Giustino Pompeo Trogo
Girolamo Agostino Origene Isidoro Tertulliano Minucio
Felice
Lattanzio Pescennio Festo
sacrificare Ennio Agostino
σφαγιάζω Diodoro Siculo Esichio κατασφάττω Eusebio di Cesarea mactare Draconzio prosecrare Lattanzio riferimenti al fuoco Clitarco Diodoro Siculo Filone Silio Italico Prudenzio (?) Fozio
Le fonti letterarie ci parlano di due momenti in cui il rituale sacrificale poteva compiersi: comunitario e privato. Possiamo ipotizzare che le due circostanze prevedessero anche due modi di realizzazione in parte differenti data la diversa partecipazione e coinvolgimento della comunità. Il primo tipo di rito è quello meglio attestato negli autori presi in considerazione che parlano di esecuzione del sacrificio in caso di gravi pericoli per la collettività, come guerre, pestilenze, carestie, etc…, alle quali si cerca di porre rimedio offrendo uno o più bambini alla divinità. La pratica sembrerebbe, allora, saltuaria, come saltuarie sono le situazioni di crisi comunitarie, ma, in realtà, è probabile che si trattasse di cerimonie regolari, realizzate anche in momenti di tranquillità e volte a prevenire questo genere di problemi assicurandosi un costante appoggio divino. Non per niente, le stesse fonti inseriscono questi sacrifici nel culto stabile del dio Baal Hammon, specificando che le genti fenicio-puniche “sono solite” metterli in pratica e il rituale è talmente caratterizzante di questi popoli che se ne riteneva possibile, e necessario, un intervento esterno per la sua eliminazione. Allora, il rituale comunitario poteva essere messo in pratica a scadenze regolari (una media di due volte l’anno stando ai dati osteologici) con la funzione di ‘strategia preventiva’192, quindi per evitare le
crisi, e, in più, realizzarsi in caso di calamità pericolose per l’intera società umana, magari con manifestazioni più imponenti; di queste pratiche dovevano farsi carico i capi della comunità. Il rituale poteva avere anche una dimensione privata (meglio testimoniata dall’archeologia), realizzato da singoli individui per propria volontà e con la funzione di scongiurare pericoli relativa alla propria famiglia. Naturalmente è difficile, per noi, tracciare una netta linea di demarcazione fra questa dimensione privata e la dimensione pubblica, che presumibilmente dovevano intrecciarsi più di quanto possiamo immaginare, dal momento che non possiamo affibbiare alla
società fenicia e punica concetti che appartengono alla nostra sfera culturale. Lo scopo, comunque, è sempre quello di ottenere il beneficio della divinità o placarne l’ira. Alcuni autori ci dicono, ancora, che caratteristica dei riti era la ‘segretezza’ in maniera piuttosto generica. Non siamo in grado di dire di più rispetto ad essa: possiamo solo ipotizzare che alcune persone fossero escluse dalla partecipazione alla cerimonia o a particolare momenti di essa. Dobbiamo ricordare, inoltre, che il tofet doveva essere sede di rituali diversi fra loro, non solo dei sacrifici cruenti, e che i dati forniteci dai classici non sono una “guida del tofet e dei suoi riti”193 ma sono informazioni sparse e di parte inserite in contesti molto diversi fra loro e spesso lontane nello spazio e nel tempo da chi li metteva in pratica. Infine, le nostre fonti ci danno qualche informazione sull’origine del rituale sacrificale, sia di carattere mitologico che di carattere storico. Per quel che riguarda il piano del mito,