• Non ci sono risultati.

Il circolo vizioso fra pattern di sviluppo e sistema formativo

I processi di cambiamento della struttura industriale di un Paese, in quanto path-

dependent sono inevitabilmente lunghi e difficile, soprattutto quando si consideri che

essi richiedono un sostanziale aggiornamento delle conoscenze e competenze disponibili, nonché un salto di capacità e qualità imprenditoriali. Modificare variabili quali le specificità settoriali e dimensionali di un sistema produttivo rappresenta un’operazione difficile, complessa e densa di incognite; per di più essa deve essere compiuta tenendo conto dei competitors e delle dinamiche che li caratterizzano. Recentemente è stato evidenziato come sembri essersi avviato un lento processo di convergenza dei principali Paesi europei in riferimento ad un rafforzamento progressivo dei comparti high-skill181. In tale processo, però, l’Italia non tiene il passo degli altri Paesi europei: pur presenti, i processi di rafforzamento dei settori avanzati dell’economia italiana non procedono con lo stesso passo tenuto da altri Paesi. Stante la struttura economica italiana, sarebbe illusorio ipotizzare un processo di trasformazione rapido e radicale del sistema produttivo del Paese, certamente però occorre analizzare le cause che ostacolano tale processo.

L’ipotesi di ricerca che qui si vuole sviluppare è che il pesante gap sul piano della specializzazione settoriale e del profilo dimensionale del sistema produttivo italiano è dovuto in gran parte al circolo vizioso che si è generato nel tempo tra sviluppo industriale da una parte e sistema formativo e della ricerca dall’altra. Un elemento distintivo dello stock di capitale umano disponibile nel sistema economico è rappresentato dallo squilibrio tra competenze e skill sviluppati nei settori tradizionali e science-based. In effetti, sembra che i settori tradizionali abbiano nel corso del tempo “plasmato”, l’evoluzione del mercato del lavoro e le caratteristiche del capitale umano, con il risultato che questo risulta oggi essere inadeguato a fronteggiare le esigenze derivanti dalle dinamiche del cambiamento tecnologico ed organizzativo, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo.

L’evoluzione della dotazione di capitale umano in Italia sembra riflettere un classico circolo vizioso tra carenza di domanda e carenza di offerta di tale capitale umano adeguatamente qualificato per essere impiegato nei settori high-tech: la circostanza che in Italia siano maggiormente presenti settori caratterizzati da un relativamente basso contenuto tecnologico genera una scarsa domanda di skill elevati; la bassa domanda di tali skill causa a sua volta l’orientamento da parte dei giovani verso la formazione in ambiti disciplinari che possano poi garantire un’occupazione nei settori tradizionali. Questo produce l’ulteriore conseguenza che le pur presenti attività ad alto contenuto tecnologico rischino di non trovare forza lavoro adeguata. In sostanza, l’Italia risulta dotata di maggiori competenze riferibili ai settori tradizionali182, mentre si evidenziano notevoli gap di forza lavoro adeguata per quanto riguarda i settori ad alta tecnologia183.

Peraltro, la sintonia fra processi di formazione e fabbisogno di skill professionali nei

181 Cfr. a questo proposito Bugamelli, 2001, p. 35 e segg.

182 Per esempio i settori del largo consumo,del sistema moda, del sistema casa

settori tradizionali si è determinata sacrificando i livelli di scolarizzazione, atteso che l’immissione di giovani nel tessuto industriale italiano, come si sa caratterizzato in modo essenziale dalla presenza diffusa e pervasiva di PMI, ha riguardato in modo considerevole quelli in possesso di un titolo di studio basso (spesso non oltre ISCED 2), o medio (ISCED 3) e ben poco i laureati184.

La prevalente propensione da parte di molti imprese ad assumere forza lavoro in possesso di un titolo di studio relativamente basso e non per esempio laureati, può forse essere valutata come una delle cause che, al di là delle inefficienze del sistema universitario, contribuisce all’alto tasso di abbandono presente nelle università: di fronte alle opportunità offerte dal mercato del lavoro e ai segnali indiretti che questo emette di preferenza per personale con titoli di studio non elevati, molti giovani potrebbero optare (e di fatto optano) per l’abbandono degli studi alla prima difficoltà185.

D’altra parte, in Italia, sul totale dell’occupazione manifatturiera l’incidenza degli addetti in settori a medio-alto contenuto tecnologico è di poco superiore al 30%, livello notevolmente inferiore rispetto a quello di altri Paesi, come documentato dalla tabella 1.

184 In Italia meno del 50% della forza lavoro possiede un titolo di studio ISCED 3, a fronte l’80% di

Paesi quali Germania o USA. Il divario è ancora più netto se ci si riferisce all’istruzione terziaria: i lavoratori in possesso di un titolo ISCED 5 sono in Italia il 13% circa della forza lavoro, contro il 25- 30% degli altri Paesi dell’area OECD

185 Nonché naturalmente sembra essere la causa di un relativamente basso tasso di prosecuzione degli

Tabella 1 – Occupazione nei settori ad alta tecnologia* e nei servizi knowledge-intensive**

Paesi Settori high-tech/Totale settori manifatturieri

Crescita annua media del settore manifatturiero 1995/2005

Crescita annua media nei settori

high-tech 1995/2005 Servizi knowledge- intensive/totale servizi Crescita annua media nei servizi 1995/2005

Crescita annua media nei servizi

knowledge- intensive 1995/2005 Francia 38% 0,8% 0,9% 50% 1,3% 1,7% Germania 46% -1,0% -0,1% 47% 1,2% 2,9% Spagna 29% 2,9% 4,3% 39% 4,1% 5,8% Regno Unito 43% -0,3% 1,1% 54% 1,9% 2,8% Svezia 44% -1,1% 0,8% 63% -0,1% 0,1% Irlanda 40% 5,4% 8,7% 50% 7,1% 7,7% Italia 32% 1,6% 1,4% 42% 1,6% 3,1%

* Settori ad alta tecnologia: chimico, macchine utensili, macchinari ed elaboratori per ufficio, apparati e macchinari elettrici, apparati ed attrezzature per radio, televisione e comunicazione, strumenti medicali, ottici e di precisione, orologi, motoveicoli.

** Servizi knowledge intensive: trasporto acqua, trasporto aereo e spaziale, poste e telecomunicazioni, intermediazione finanziaria, intermediazione immobiliare, noleggio, formazione, servizi sociali, cura della salute, attività ricreative, culturali e sportive

Solo la Spagna presenta risultati inferiori a quelli italiani. Inoltre, il mercato del lavoro dal lato della domanda in Italia continua ad essere maggiormente dinamico per l’occupazione nel settore manifatturiero tradizionale rispetto a quanto accade per quanto riguarda i nuovi settori (sia dello stesso manifatturiero che nel terziario). Questo sembra penalizzare la crescita occupazionale complessiva, poiché il ritardo accumulato nei settori a più alto contenuto tecnologico non consente di beneficiare dell’effetto trainante che questi ultimi inducono sull’insieme dell’economia. Questo legame virtuoso caratterizza invece Paesi come Spagna ed Irlanda, che pur partiti in ritardo, stanno celermente recuperando con tassi di impiego dell’occupazione nei settori high-tech molto elevati (rispettivamente del 4,3% e dell’8,7%); tali tassi trovano peraltro corrispondenza in altrettanto elevati tassi di crescita dell’occupazione manifatturiera, rispettivamente del 2,9% e del 5,4%, che sono i più alti a livello europeo.

Di fronte ad un mercato del lavoro che finora ha espresso una domanda di laureati piuttosto generica e contenuta, dando una netta priorità al reclutamento di lavoratori con un titolo di studio dell’obbligo o al più ISCED 3, il sistema formativo ha ricevuto ben scarsi stimoli ed indirizzi per far evolvere e diversificare la propria offerta formativa, accumulando quindi un preoccupante ritardo qualitativo rispetto agli altri Paesi avanzati. Di conseguenza l’Italia deve far fronte ad alcune criticità consolidatesi nel tempo nel rapporto fra sistema produttivo, sistema della formazione di capitale umano e sistema della ricerca.

In particolare, la ridotta interazione con il mondo delle imprese negli ambiti di ricerca e formazione nell’area dell’alta tecnologia, ha comportato per l’istruzione terziaria il consolidamento di traiettorie di sviluppo e di specializzazione largamente divergenti rispetto a quelle proprie delle economie avanzate. Tale divaricazione si è espressa in termini di aree di attività, ma anche in termini di modelli di comportamento e di obiettivi e persino di policy, sui quali il confronto è stato nel complesso molto ridotto con un processo di condivisione di programmi, attività ed obiettivi tra università e tessuto economico largamente insufficiente.

Alla limitata propensione del sistema universitario ad avviare rapporti con il sistema economico si è aggiunto il ridotto ammontare dei fondi destinati alla R&S nelle università e negli enti di ricerca di diritto pubblico: questo ha inevitabilmente finito con il penalizzare la dimensione quantitativa del personale addetto alla ricerca, nonché la formazione di nuovi ricercatori, i quali costituiscono l’elemento cruciale del sistema della ricerca e dell’innovazione di un Paese. Inoltre, la scarsa disponibilità di personale di alto livello formatosi in centri di eccellenza, capaci di esprimere livelli di competitività internazionale, ha inciso negativamente anche sullo sviluppo di spillover nella misura in cui è scarso il capitale umano in grado di inserirsi con successo nel sistema produttivo, trasferendo conoscenze e competenze in grado di generare innovazione.

La ridotta dotazione di capitale umano qualificato si è associata a sua volta ad una minore attenzione da parte del sistema delle imprese per la ricerca e per l’innovazione tecnologica: complici le politiche svalutative che hanno punteggiato la storia italiana degli ultimi decenni e che hanno dato l’illusione di un sistema in grado di competere con efficacia sul piano internazionale, l’Italia si è progressivamente allontanata dal novero dei Paesi che destinavano quote rilevanti del proprio PIL ad attività innovative. Ancora una volta si è generato un micidiale circolo vizioso: la bassa qualità e quantità di capitale umano a disposizione, ha scoraggiato le imprese ad intraprendere la strada delle attività innovative; d’altra parte l’insufficiente domanda di forza lavoro con alti livelli di istruzione ha scoraggiato molti giovani ad

investire in formazione. A questo, come detto, si è aggiunta una complessiva scarsa disponibilità di confronto fra mondo accademico e mondo industriale.

Il risultato di tale circolo vizioso è che, mentre l’industria manifatturiera in Europa nel 2005 ha destinato il 3,7% del fatturato ad attività innovative, in Italia tale quota ha raggiunto solo il 2,6%. In effetti, le imprese italiane ricavano solo il 7% del fatturato da prodotti nuovi, mentre per le imprese europee la quota è del 12%. Le imprese italiane hanno mostrato nel tempo una netta propensione all’innovazione di processo, maggiormente legata per sua natura a strategie incrementali di aumento dell’efficienza e di riduzione dei costi di produzione186.

Il Paese sta quindi soffrendo per effetto delle debolezze presenti su due fronti: su quello del sistema formativo, poco attento alle necessità di innovazione che permetterebbero alle imprese di aumentare la loro competitività, e su quello delle imprese stesse che hanno preferito concentrarsi sulle innovazioni di processo senza comprendere appieno che queste non potevano essere sufficienti in un contesto come quello che caratterizza la competizione globale187.

Il processo di convergenza verso le performance degli altri Paesi Europei da parte dell’Italia in termini di dotazione di capitale umano qualificato è particolarmente arduo in quanto implica un mutamento radicale degli atteggiamenti e delle strategie sia del sistema formativo, sia del sistema imprenditoriale. D’altra parte, se da una parte i tempi sono quelli dettati dall’accelerazione della competizione internazionale, dall’altra la modifica delle strutture fondamentali del Paese esige condizioni non facili da conseguire.