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La attuale fase di rapida evoluzione delle tecnologie e delle conoscenze ha prodotto alcuni importanti cambiamenti nei percorsi di crescita delle imprese e dei singoli “portatori di conoscenze” all’interno delle imprese stesse. In primo luogo, si assiste ad un sempre più rilevante calo di fidelizzazione dei dipendenti con alti livelli di professionalità nei confronti dell’impresa, causati dal perseguimento di percorsi individuali ed autonomi di crescita professionale e di competenze gratificanti e remunerativi. In secondo luogo, il dissolvimento della grande impresa fordista e la conseguente focalizzazione su specifiche aree di business, in modo da sfruttare appieno le competenze distintive, ha stimolato un notevole flusso di professionalità,

in uscita, nel caso di competenze non più richieste dall’impresa di origine a causa della trasmigrazione di questa verso altre occasioni di business e in entrata, nel caso inverso di competenze appetite per il potenziamento del core business.

In terzo luogo, si sono sviluppate e consolidate alcune condizioni per la creazione di start-up e quindi per il passaggio da posizioni di lavoro subordinato a ruoli imprenditoriali, in molti casi attraverso la creazione di società con ex-colleghi (spesso provenienti dalla stessa impresa).

In definitiva, si assiste oggi, e il fenomeno sembra destinato ad accrescersi in futuro, ad una crescente mobilità di personale tra imprese. Si tratta di una caratteristica tipica dell’economia globalizzata che assume un particolare rilievo nel caso delle imprese high-tech e knowledge-

intensive; tale mobilità, proprio per la natura della globalizzazione, assume sempre di più una

dimensione internazionale.

Il fenomeno della mobilità internazionale di capitale umano si combina con la mancanza di personale nei settori ad alta tecnologia e nella ricerca scientifica. Ovviamente si tratta di un problema che ogni Paese affronta in maniera diversa; da questo punto di vista è possibile individuare tre distinte tipologie in termini di capacità di gestione dei flussi di capitale umano:

i. una prima tipologia è costituita da quei Paesi (p.e. Regno Unito, Francia, Canada) che sono riusciti, sia per caratteristiche proprie che per adeguate politiche formative, ad avere elevati flussi in entrata di personale qualificato, compensando in questo modo l’impatto dei flussi di talenti in uscita218;

ii. una seconda tipologia è rappresentata da quei Paesi, come l’Italia, che non sono riusciti ad attivare capacità di attrazione dei talenti e nel contempo non riescono a trattenere il proprio capitale umano con elevate competenze in ambito tecnologico, scientifico e manageriale, e che quindi sono loro malgrado esportatori netti di capacità e conoscenze altamente qualificate, senza che questo sia compensato da un adeguato flusso in entrata219;

iii. una terza tipologia, che si sta affermando come quella più idonea nel contesto della crescente internazionalizzazione economico-sociale, è quella rappresentata da Paesi quali gli USA, in grado di avere elevati flussi di capitale umano sia in entrata che in uscita; il continuo ricambio assicura una brain circulation che favorisce la creazione di legami internazionali e di rapporti di collaborazione nel mondo della ricerca220.

218 Secondo uno studio dell’OECD (2000): “I Paesi i cui sistemi formativi e della ricerca sono aperti e che hanno

sviluppato un ambiente fortemente orientato all’innovazione e all’imprenditorialità hanno una maggiore capacità di attrazione di personale qualificato impegnato nella scienza e nell’alta tecnologia”. Più in generale, i flussi internazionali di personale qualificato stanno premiando quei Paesi in cui i sistemi formativi sono stati in grado di fornire incentivi adeguati, non soltanto di tipo economico ma anche in termini di formazione continua e di prospettive di carriera.

219 In questo caso la perdita economica è evidente: il Paese ha sostenuto il costo dell’istruzione e della formazione di

capitale umano qualificato, mentre i benefici del suo impiego vanno a favore del Paese che lo accoglie. Per una discussione aggiornata del problema della “fuga di cervelli” si veda Tinagli, 2008.

220 I principali veicoli di questi flussi di capitale umano si sono finora rivelate le imprese multinazionali di origine

americana, le quali utilizzano nei Paesi in cui decidono di investire personale locale formato negli USA; accanto al ruolo delle imprese multinazionali, anche le università USA svolgono un compito importante, promuovendo il ritorno dei propri laureati di nazionalità non americana nel Paese di origine presso imprese ed università locali.

competenze su scala globale, è necessario sviluppare strategie idonee per la gestione dei flussi di capitale umano provenienti dall’estero. La varietà e la diversità culturale, che rappresentano i principali vantaggi del processo di globalizzazione, possono al tempo stesso rappresentare una fonte primaria di innovazione e cambiamento, con ricadute positive sulle attività industriali ed economiche221.

Come per ogni processo bilaterale, è necessario affrontare il problema del capitale umano in modo duplice:

i. è necessario adottare politiche di retention per impedire, o più realisticamente ridurre, il processo di brain drain, il quale se non affrontato con strumenti adeguati rischia di diventare irreversibile;

ii. è necessario altresì attivare politiche per favorire l’attrazione di talenti dall’estero nel sistema della ricerca, della formazione e nelle imprese.

Si tratta di processi non certo facili, atteso che il sistema italiano ha fin qui sottovalutato i problemi collegati al deficit della bilancia di capitale umano, finora fortemente sbilanciata sul lato delle uscite: occorre essere in grado di diventare competitivi nel mercato del talento222. È necessario tenere conto che il flusso di capitale umano in entrata consente di soddisfare la domanda di skill in aree tecnologicamente avanzate, ma può avere anche effetti positivi sulla creazione di nuove imprese high-tech223.

Il radicamento all’interno di un Paese di professionalità elevate di origine straniera, consente al sistema della formazione/ricerca e a quello delle imprese di essere coinvolti in network internazionali, specie con i Paesi di origine, in cui vengono sviluppate nuove iniziative imprenditoriali e di ricerca e dove si scambiano conoscenze di mercato e tecnologiche224. Spesso le imprese italiane a vocazione internazionale si trovano a competere sui mercati globali con imprese multinazionali il cui personale è fortemente internazionalizzato sul piano delle competenze tecnologiche e relazionali, anche grazie alle strategie di brain circulation sviluppata dalle imprese multinazionali stesse. L’inserimento di capitale umano di origine non italiana, con un elevato profilo internazionale, all’interno delle imprese italiane, avrebbe quindi come effetto, a parità di ogni altra condizione, la crescita delle capacità di presidio e di gestione delle attività internazionali, sia in termini di governo dei processi di outsourcing sia, soprattutto in termini di conquista di nuovi mercati.

Conclusioni

Fino ad alcuni anni fa in Italia si era consolidato un equilibrio statico tra il mondo della formazione/ ricerca e il mondo delle imprese: il primo aveva come scopo lo sviluppo e la diffusione di conoscenze generiche, che venivano poi assorbite in modo limitato dal contesto produttivo; il secondo, in particolare nell’ambito dei settori tradizionali che tuttora costituiscono la componente

221 Ancora una volta, il caso della Silicon Valley e della sua capacità attrattiva nei confronti di tecnici di alto livello

provenienti dal resto del mondo, in particolare dall’Asia, resta un’esperienza di particolare interesse. Anche le politiche adottate dal governo inglese e dalla municipalità londinese rappresentano best practices, come è testimoniato dall’alto flusso di esperti in finanza di origine non inglese che affollano la City di Londra (cfr. ancora Tinagli, 2008)

222 Cfr. a questo proposito Hamel, 1999. L’Italia è ormai da due decenni almeno un Paese importatore netto di forza

lavoro, ma tale flusso in entrata riguarda primariamente personale poco o per nulla qualificato. Anche quando si tratti di forza lavoro con un titolo di studio medio-alto, in genere essa viene utilizzata in attività dequalificate rispetto al titolo posseduto.

223 L’esperienza di imprenditorialità di tecnici e manager di origine indiana e cinese in Silicon Valley dimostra come un

flusso di capitale umano di origine estera è in grado di aumentare in modo considerevole il tasso di natalità di imprese high-tech e knowledge-intensive

224 Recenti studi sulle comunità etniche in Silicon Valley (cfr. Saxenian, 2002), mostrano come il grado di

imprenditorialità di taluni ceppi etnici sia molto elevato e produca un tasso di natalità di imprese high-tech in grado di compensare il tasso di mortalità e di estendere il mercato verso i Paesi di origine dei nuovi imprenditori, con notevoli vantaggi sulla bilancia tecnologica.

delle conoscenze tecniche, in totale autonomia rispetto al sistema della formazione.

Questo equilibrio, che impediva ad entrambi i sistemi di avviare circuiti virtuosi di interazione e contaminazione reciproca, è stato spezzato da molteplici dinamiche che hanno posto entrambi i mondi nella condizione di dover modificare e rinnovare il proprio modello di comportamento e di organizzazione. La situazione italiana è riconducibile a tre processi che si sono sviluppati nel tempo:

i. in primo luogo, si è sviluppata una crescente divaricazione tra esigenze di abilità manuali e tecniche da parte delle imprese di tipo tradizionale e low-tech ed esigenze di formare forza lavoro con maggiori competenze professionali, con la conseguente competizione fra scolarizzazione e manualità;

ii. in secondo luogo, è ormai evidente la ridotta dotazione di capitale organizzativo all’interno delle imprese dei settori tradizionali, le quali appaiono sempre meno in grado di interagire con l’ambiente esterno per l’assorbimento di conoscenze tecnologiche e per la gestione delle reti commerciali, produttive e di fornitura internazionali;

iii. in terzo luogo, infine, nei settori ad alta tecnologia è sempre più evidente la necessità di sviluppare un maggiore stock di capitale umano, anche ricorrendo se necessario225 a flussi internazionali, in modo da consentire alle emergenti realtà d’impresa high-tech e alle (poche) imprese multinazionali di reperire risorse umane qualificate per radicarsi nel tessuto produttivo ed economico del Paese.

È necessario agire sui meccanismi in grado di affrontare queste divergenze fra offerta e domanda di capitale umano. La competitività di un territorio è una risorsa che va coltivata, salvaguardata e gestita e non lasciata a sé, tanto più in un’epoca nella quale le minacce che provengono dall’esterno sono crescenti. Per riuscire a non perdere ulteriori posizioni nel processo di divisione internazionale del lavoro ed essere relegati ad un rango di secondo piano, l’Italia ha necessità di investire in capitale umano in due direzioni che, lungi dall’essere contrapposte, debbono poter essere percorse contemporaneamente:

i. investimenti in capitale umano in grado di assimilare le specificità delle produzioni tradizionali, implementandole con le necessarie innovazioni tecnologiche ed integrandole con la ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati;

ii. investimenti in capitale umano in grado di promuovere lo sviluppo dei settori high-tech e

knowledge-intensive ed accrescere in questo modo la competitività italiana sui mercati

internazionali.

Il tema della creazione e della valorizzazione del capitale umano dovrebbe diventare parte integrante delle politiche di modernizzazione e di crescita e che l’approccio seguito risponda alla logica della globalizzazione, secondo cui istituzioni formative ed imprese competono su scala internazionale per formare/attrarre talenti e competenze migliori.

225 Come già osservato, tale necessità si riferisce sia alla dimensione qualitativa, non producendo il Paese tecnici in aree

di business d’avanguardia, sia alla dimensione qualitativa, non essendo sufficiente nel capitale umano “autoctono” una cultura internazionale e globale.

La posizione dell’Italia nel ranking internazionale:

competitività e sistema di produzione del capitale

umano

L’andamento della produttività italiana

Nel periodo 1994-2007 l’Italia ha visto peggiorare in maniera consistente la propria posizione competitiva nel ranking mondiale. In particolare il Paese ha ridotto la propria capacità esportativa a vantaggio di altra economie. Parte di questo peggioramento dipende dall’irrompere sulla scena mondiale di Paesi prima assenti o confinati su posizioni marginali e che invece oggi si caratterizzano per la loro spregiudicatezza ed aggressività economiche. Sotto questo aspetto l’economia italiana non è in condizioni diverse da quanto accade al resto dei Paesi OECD ad industrializzazione matura e la situazione è probabilmente destinata se non a peggiorare, quanto meno a complicarsi in misura notevole.

Ma per altri aspetti, il peggioramento delle performance italiane dipende da fattori strutturali che penalizzano il Paese rispetto ai partner/competitor sia europei che extraeuropei. Alcuni di questi fattori strutturali sono ben noti e dibattuti:

iii. la dimensione media delle imprese italiane è inferiore, a volte largamente inferiore, rispetto a quanto avviene in altri Paesi226;

iv. lo sviluppo industriale italiano si è storicamente fondato su un tasso non elevato di propensione all’innovazione, anche in settori nei quali questa risulta essere elemento essenziale di competitività227.

Riguardo a questo secondo aspetto, occorre sottolineare che sia la propensione che la capacità di innovazione sono collegati allo stock di conoscenza tecnologica presente nel sistema in un determinato momento, il quale a sua volta dipende in modo cruciale dalla quantità e qualità degli investimenti in capitale umano.

Resta il fatto che, in particolare negli ultimi anni, uno degli indicatori più significativi per misurare il livello di competitività di un Paese, cioè la produttività oraria del lavoro, vede l’Italia in una posizione di netto arretramento rispetto agli altri Paesi dell’area OECD (cfr. grafico 1). Dal grafico si nota come per un lungo periodo di tempo (dagli anni settanta del novecento fino alla fine del secolo) il sistema economico italiano sia stato caratterizzato da una produttività leggermente superiore alla media; solo con l’inizio del nuovo secolo i livelli di produttività oraria del lavoro sono progressivamente scesi sotto la media e non sembra che accennino a riprendersi. La situazione non cambia, se non aggravandosi, prendendo in considerazione alcuni Paesi che rappresentano al tempo stesso partners ma anche competitors del sistema economico italiano (grafico 2): l’andamento degli altri Paesi

226Peraltro, non esiste unanimità riguardo alla circostanza che la minor dimensione delle imprese

incida negativamente sulla loro performance di mercato o sulla loro crescita in termini di fatturato (cfr. a questo proposito il recente lavoro di Ermini, 2007). Da questo punto di vista la misurazione della dimensione operata essenzialmente attraverso il numero di addetti e non con l’utilizzo di indicatori ulteriori (fatturato, intensità di capitale per addetto, ecc.) sottodimensiona notevolmente la reale capacità delle imprese, in misura particolare di quelle innovative. Su questo aspetto cfr. Daveri 2004.

227 Su questo aspetto, evidentemente cruciale sia dal punto di vista teorico che per gli effetti in termini

è più regolare e soprattutto non mostrano la riduzione della produttività che ha registrato l’Italia, segnale questo che induce a credere che non si tratti di cause generalizzate ma di effetti che hanno a che fare con le caratteristiche del sistema italiano.

In realtà, il sistema economico italiano ha mostrato nel corso del tempo una preoccupante tendenza alla diminuzione del valore medio del PIL. I grafici 3 e 4 presentano i dati relativi al tasso di crescita del PIL per decenni (grafico 3) e come differenza rispetto alla media OECD (grafico 4).

8,00 13,00 18,00 23,00 28,00 33,00 38,00 43,00 48,00 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 p ro d u tt iv it à o ra ri a in U S $ 2 0 07 in P P S

Italia Media OECD Grafico 1 – Produttività oraria dell’Italia e della media dei Paesi OECD

Fonte: Elaborazione su dati di The Conference Board and Groningen Growth and Development Centre, Total Economy Database, September 2008

9,67 14,67 19,67 24,67 29,67 34,67 39,67 44,67 49,67 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 2005 p ro d u tt iv it à o ra ri a in U S $ 20 07 in P P S

Francia Italia Regno Unito USA

Grafico 2 – Produttività oraria dell’Italia e di alcuni Paesi dell’area OECD

Fonte: Elaborazione su dati di The Conference Board and Groningen Growth and Development Centre, Total Economy Database, September 2008

5,8 5,7 3 2,3 1,4 1,2 0 1 2 3 4 5 6 7

anni cinquanta anni sessanta anni settanta anni ottanta anni novanta anni duemila

ta ss o d i cr es ci ta d el P IL

Grafico 3 – Tasso di crescita del PIL pro-capite in Italia per decenni (i dati degli anni duemila sono ricavati parzialmente per proiezione)

Fonte: Elaborazione su dati di The Conference Board and Groningen Growth and Development Centre, Total Economy Database, September 2008

-0,040 -0,030 -0,020 -0,010 0,000 0,010 0,020 0,030 0,040 0,050 0,060 1950 1953 1956 1959 1962 1965 1968 1971 1974 1977 1980 1983 1986 1989 1992 1995 1998 2001 2004 d if fe re n za I ta li a- O E C D n e l ta s s o d i c re sc it a d e l P IL

Grafico 4 – Differenza fra i tassi di crescita del PIL pro-capite italiano e quello della media dei Paesi OECD. Le barre indicano tale differenza, mentre la retta tratteggiata indica il trend di lungo periodo. Barre positive indicano che il valore relativo all’Italia è superiore a quello della media dei Paesi OECD, barre negative indicano il contrario.

Fonte: elaborazioni su dati di The Conference Board and Groningen Growth and Development Centre, Total Economy Database, September 2008

La situazione è andata dunque progressivamente deteriorandosi e la crisi finanziaria iniziata nell’agosto del 2007, riverberandosi inevitabilmente anche sulle condizioni di sviluppo dell’economia reale, è probabilmente destinata a peggiorare le performance del sistema economico italiano (forse più di quanto accadrà per altre economie nazionali). Da che cosa dipendono le differenze nei tassi di crescita di un indicatore quale il PIL pro-capite? Naturalmente esistono elementi congiunturali in grado di spiegare riduzioni della crescita: per esempio, in occasione della prima crisi petrolifera all’inizio degli anni settanta si registrò una riduzione del tasso di crescita del PIL che durò uno o due anni. Ma in casi come quello italiano, oltre ad elementi congiunturali e temporanei, sembrano presenti anche elementi strutturali che hanno prodotto quella riduzione della crescita che abbiamo evidenziato nel precedente paragrafo. E, all’opposto: che cosa è successo a paesi come Irlanda e Spagna, nei quali la crescita negli ultimi anni è stata notevolmente accelerata?

L’ipotesi che qui viene presa in considerazione è che l’elemento cruciale in grado di determinare i tassi di crescita, al di là di ogni pur importante variabile congiunturale, è costituito dalla produttività del lavoro. In Italia si è passati dagli elevati tassi di crescita della produttività del lavoro registrati negli anni settanta ed ottanta ((+ 4% nel 1970, +2% l’anno nel periodo 1980-95) a valori non superiori ad un +0,5% nell’ultimo decennio228.

I dati italiani sono preoccupanti in sé, ma assumono maggiore cogenza se considerati in prospettiva comparata: in effetti, negli ultimi anni la crescita della produttività del lavoro italiana è stata pari a circa un terzo di quella europea (+1,5%) e meno di un quarto di quella americana (+2,1%). D’altro canto, economie tradizionalmente deboli, come quella spagnola o irlandese hanno ottenuto risultati di notevole interesse con tassi di crescita intorno all’1% annuo.

Questo significa che mentre l’economia italiana ristagna e il suo grado di competitività non cresce (o forse addirittura si riduce), gli stessi indicatori applicati ad altri sistemi nazionali presentano risultati ben diversi. La prospettiva è che la mancata crescita della produttività si traduca in un rallentamento della nostra crescita complessiva e in una riduzione del benessere materiale.

Produttività e crescita

Inseriti in mercati dinamici ed altamente competitivi, i sistemi economici hanno modificato da tempo i propri paradigmi strategici ed operativi, arrivando ad individuare nella capacità innovativa un presupposto essenziale per il proprio sviluppo. In un’economia aperta e knowledge based, in cui le discriminanti materiali e di costo cedono gradualmente il passo ad informazione, intagible assets e capacità di rispondere in modo rapido ed efficace alla evoluzione di una domanda sempre più complessa, articolata e dinamica, la capacità innovativa, intesa come “capacità di creare, diffondere e sfruttare nuove conoscenze scientifiche, tecnologiche ed organizzative”229, si rivela una condizione imprescindibile non soltanto per lo sviluppo, ma per la stessa sopravvivenza delle singole imprese e dei sistemi economici, in cui esse sono inserite.

228 In realtà, mentre tra gli anni 1995-2000 il tasso di crescita della produttività del lavoro è stata pari a

+0,9%, il tracollo si è registrato tra il 2000 e il 2005 con valori intorno a -0,1%

Peraltro, il concetto di innovazione risulta, per sua stessa natura tendenzialmente ampio e variegato, raggruppando al suo interno una pluralità di significati e manifestazioni differenti. Consapevoli di introdurre delle semplificazioni, qui adottiamo alcuni degli indicatori di innovatività introdotti dall’Unione Europea; tali indicatori hanno il vantaggio di permettere un confronto fra paesi dell’Unione, consentendo la creazione di ranking regionali. Gli indicatori scelti vengono poi composti in un indice composito (EIS: European Innovation Scoreboard) che fornisce un quadro analitico della situazione di ciascun paese230. Naturalmente è possibile individuare molti altri indicatori relativi alla capacità di un sistema di far fronte alle necessità innovative: per esempio, è noto da tempo che la dotazione di capitale umano, misurata attraverso il livello medio di