In quanto a capacità di fornire beni standardizzati a basso costo e prodotti in grande quantità, il fordismo e il modello di organizzazione originariamente disegnato da Taylor si sono dimostrati insuperabili. Perché abbandonarli? Nell’ultima parte del novecento sono intervenuti fattori macroeconomici che hanno messo in seria difficoltà questo tipo di organizzazione:
i. la saturazione dei mercati di beni standardizzati di bassa qualità: le imprese, valga per tutte l’esempio dell’industria automobilistica, non possono più produrre per un mercato di potenziali consumatori che vogliono per la prima volta acquistare il nuovo prodotto; il consumatore ha nel corso del tempo affinato i suoi gusti ed è diventato più selettivo; la risposta delle imprese per incentivare il ricambio, e dunque garantirsi nuovi mercati, non può che essere un’ampia diversificazione ed una migliore qualità dei prodotti integrati con servizi di assistenza, in particolare alla clientela primaria;
ii. lo sviluppo dei Paesi emergenti: nuove imprese, provenienti da aree geografiche fino a quel momento poco considerate, producono ed immettono sui mercati ricchi gli stessi prodotti con costi di produzione largamente inferiori e allo stesso tempo occupano spazi sempre maggiori sui mercati interni, avvalendosi di agevolazioni statali e della preferenza dei consumatori per i prodotti nazionali;
iii. il progressivo esaurimento delle materie prime e il corrispondente aumento dei prezzi, che si aggiunge ad un costo del lavoro elevato e, in genere, in crescita anche a causa della quasi piena occupazione da cui deriva una forte sindacalizzazione, con il conseguente aumento di conflitti e rivendicazioni.
L’insieme di questi cambiamenti determina il venir meno di quelle condizioni di prevedibilità e stabilità nel controllo del lavoro e nel mercato dei beni, indispensabile per gli elevati investimenti specializzati richiesti dal modello fordista.
produttivo sperimentato alla Toyota95 e in generale proveniente dall’esperienza industriale giapponese. A partire da queste esperienze, agli inizi degli anni novanta si afferma il nuovo modello della lean production96, inteso come l’insieme dei tratti di validità universale dei sistemi di produzione giapponese. La lean production sembra essere in grado di dare una connotazione precisa al nuovo modo di organizzare il lavoro, la produzione e gli assetti organizzativi.
Nel modello della lean production l’enfasi viene posta sul ruolo dell’organizzazione, sul modo di ridefinire il processo produttivo. In questa prospettiva il capitale umano, presente sia nel singolo lavoratore che nei gruppi, nelle squadre e nei team assume nuovi connotati che lo rendono la più importante risorsa strategica di cui può/deve disporre un’organizzazione, fino a rappresentarne la componente fondamentale. Questo nuovo modello organizzativo è market driven: l’organizzazione modula il suo comportamento sulla base delle esigenze della domanda, in contrapposizione alla precedente concezione, quella della produzione e della società di massa, secondo la quale era la “fabbrica” e le sue esigenze tecnico-produttive che guidavano il mercato. Nel paradigma fordista l’organizzazione della produzione lavorava per la costituzione di una cospicua scorta di magazzino completamente svincolata dai ritmi di consumo del mercato.
Nel modello della lean production la variabile critica cessa di essere la routinizzazione dei comportamenti tipica del fordismo e la cui metafora è rappresentata dalla catena di montaggio, per divenire la capacità delle diverse aree strategiche cui si articola un’organizzazione di gestire con più o meno ampia autonomia parti dell’intero processo produttivo. Di conseguenza l’organizzazione deve confrontarsi con una crescente instabilità dell’ambiente, sia interno all’organizzazione stessa che ad esso esterno; tale instabilità sembra essere un carattere strutturale e non congiunturale della contemporaneità assieme all’esigenza di una maggiore sofisticazione dei prodotti e/o dei servizi necessaria per soddisfare un cliente sempre più esigente e selettivo. In un simile contesto vince chi è in grado di presidiare in modo flessibile, efficace ed efficiente i processi organizzativi.
In questo modello vengono enfatizzati i principi della messa a flusso della produzione e del suo trascinamento da parte del mercato: si passa da una logica push ad una logica pull: nella prima i materiali devono essere pronti e devono aspettare i lavoratori, in modo che nessuno di questi debba perdere tempo nell’attesa; in una simile logica, il magazzino è l’elemento strategico, come è strategica la presenza di un certo numero di disoccupati in grado di sostituire gli altri97.
Nella logica pull si presume che i materiali non devono essere “spinti” verso la produzione; al contrario occorre adottare un sistema che “tiri” i materiali verso la fabbrica: i materiali escono dai magazzini e la produzione inizia in un determinato reparto soltanto quando questo è richiesto da un’operazione a valle o dalla domanda del mercato. La produzione non viene quindi avviata dal programma di produzione, ma dalla necessità delle operazioni che seguono ed in ultima analisi dalla domanda espressa dal mercato. Tra gli altri, i risultati operativi di questo approccio sono:
i. livelli inferiori di scorte98;
95 Cfr. Shingo 1981, Monden 1983 96 Cfr. Womack et alia 1990
97 Questo atteggiamento nei confronti del controllo di produzione viene definito come modello push
nel senso che i materiali dovrebbero essere “spinti” fuori dai magazzini e dai reparti produttivi in base a prestabiliti programmi. Magazzini polmone, tempi di anticipo di sicurezza ed altre tecniche vengono usate per assicurarsi che i materiali siano disponibili non appena richiesti.
ii. migliore qualità del prodotto; iii. flusso di produzione più armonico; iv. maggior coinvolgimento dei lavoratori; v. drastica riduzione delle ridondanze.
Con particolare riguardo all’organizzazione del lavoro, la lean production tende a ridurre la parcellizzazione tipica del paradigma fordista e a favorire la polivalenza, in modo da incentivare la crescita di esperienza e di professionalità del lavoratore affinché possa dare il suo contributo in termini di miglioramento continuo dei processi produttivi e delle procedure lavorative. La qualità delle risorse umane presenti nell’organizzazione costituiscono un elemento centrale della lean
production: aumentando la variabilità delle condizioni della produzione, aumenta la
necessità di prendere decisioni non programmate a tutti i livelli organizzativi. Di conseguenza cambia necessariamente il modo di rapportarsi all’interno dell’organizzazione: si passa da forme di cooperazione passiva, tipica del modello fordista, alla gestione attiva delle interfacce. Questo richiede un agire professionale guidato dal principio della competenza, in grado di sostenere un alto livello di responsabilizzazione individuale ed un forte orientamento ai risultati.
In un simile contesto la formazione dei lavoratori diventa un aspetto fondamentale che viene devoluto non soltanto alle tradizionali funzioni preposte alla formazione stessa, ma anche all’interazione nel gruppo e tra gruppi. Il maggior fabbisogno di cooperazione è motivato dal fatto che, essendo aumentata la complessità del flusso e delle mansioni, per ottenere un elevato grado di coesione fra i subsistemi che operano nell’organizzazione è necessario puntare sui meccanismi di mutuo aggiustamento e di collaborazione fra individui; questo consente di generare capacità di risoluzione dei problemi più intense ed efficaci rispetto ad altre forme di cooperazione99.
Peraltro, questo sistema è più delicato e complesso rispetto al modello fordista e richiede un maggior affiatamento rispetto a questo; anche per questa ragione è necessario fare ampio ricorso alla capacità delle risorse umane per assorbire l’incertezza. Necessariamente, il modello di controllo passa da una logica improntata al rispetto della routine ad una logica di gestione per norme ed obiettivi: aumenta lo spazio formale di lavoro non proceduralizzato, così come aumenta la quantità di informazioni che devono essere messe a disposizione del lavoratore per permettergli di prendere decisioni non ripetitive e di intervenire in modo attivo nella raccolta e decodifica degli input informativi. Il sistema di comunicazione interna, ma anche
99 Da tempo la letteratura organizzativa ha messo in evidenza i modelli di comportamento della
learning organization, dell’organizzazione, cioè, che è in grado di apprendere attraverso gli attori che in essa operano. Argiris e Schôn (1978) in uno studio che per molti aspetti ha segnato la nascita della learning organization come categoria concettuale, sottolineano come gran parte delle organizzazioni apprendano, ma non tutte apprendono allo stesso modo. Numerosi studi successivi al lavoro seminale di Argiris e Schôn hanno messo in rilievo come le organizzazioni e i modelli organizzativi rappresentano modalità di “processamento delle informazioni”, sono cioè criteri di “collocare e gestire i diversi tipi di conoscenze e competenze (cfr. a questo riguardo Galbraith 1973): ogni forma e teoria organizzativa è un tentativo di sistematizzare le modalità con cui avviene la produzione, l’accumulazione e lo scambio delle conoscenze e competenze. Nel paradigma taylorista l’accento veniva posto sull’opportunità di accentrare le conoscenze; nel taylorismo gli uffici di programmazione della produzione rappresentavano il core del sistema aziendale e quanto da essi indicato costituiva il riferimento per tutta l’organizzazione, in particolare per la line di produzione che aveva il compito di eseguire. All’estremo opposto della concezione tayloristica stanno le organizzazioni che Argyris e Schôn definiscono come caratterizzate da deutero-learning, cioè quelle in grado di imparare ad imparare: i membri di questo tipo di organizzazioni riflettono ed indagano sulle precedenti esperienze di apprendimento organizzativo, sui successi e sui fallimenti e sui fattori che hanno facilitato o ostacolato questi processi.
quelli a monte e a valle di un determinato processo, diventano più trasparenti e al lavoratore viene richiesto di interagire attivamente con essi, diventando un nodo reticolare di governo della variabilità.
Cambia anche necessariamente la distinzione delle funzioni e del potere fra line e
staff, cioè fra il nucleo operativo e la tecnostruttura: nella lean production
l’integrazione fra line e staff si ottiene attraverso lo slittamento verso il basso degli
staff, mentre il baricentro del modello si sposta dagli uffici ai reparti operativi.
Questo passaggio realizza un appiattimento della struttura gerarchica interna all’organizzazione: tecnici ed ingegneri “scendono” nei reparti, affiancano gli operai di produzione quando intervengono anomalie o quando si tratta di favorire interventi in grado di migliorare la qualità o ancora di ottimizzare il flusso produttivo.
Nel nuovo modello organizzativo i tecnici devono essere disposti a “scendere” nei reparti operativi e a lavorare insieme agli operai di linea nei gruppi di montaggio e di collaudo; anche i manutentori si integrano nelle squadre e per buona parte non risiedono più in reparti separati. Le funzioni tecniche intermedie e gli operai specializzati perdono la loro tradizionale (relativa) indipendenza, dovendosi calare in misura maggiore nelle problematiche relative alla produzione. Ancora, cambiano i ruoli di supervisione: diventano responsabili dei risultati di unità che sono considerate autonome nella gestione dei flussi e nella formazione e preparazione del personale.
Tutto questo non deve naturalmente far pensare che si sia giunti alla soluzione definitiva delle problematiche relative alla produzione ed alla fine dei problemi di conflittualità generati dal fordismo: il nuovo modello organizzativo e il suo background culturale sembrano rappresentare un superamento e non una negazione del fordismo, nel senso che lo integrano e lo sviluppano. In particolare per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, la produzione non è più soltanto un problema di ingegneria del prodotto, di definizione di tempi e metodi, di disciplina e di acquiescenza alla norma e alle procedure, ma anche (e forse soprattutto) di coinvolgimento e di incoraggiamento dello spirito di iniziativa dei lavoratori; queste caratteristiche diventano la risorsa fondamentale per ottenere una produzione diversificata, a lotti e di qualità: se il fordismo teorizza una separazione netta fra chi studia e progetta l’organizzazione della produzione e chi deve eseguire il lavoro attenendosi alle procedure sperimentate dagli specialisti, la lean production, pur mantenendo la separazione nella progettazione e nell’ingegnerizzazione, promuove una stretta interazione fra tecnici ed esecutori materiali in produzione, perché si presume che nessun specialista sia in grado di determinare a priori le routine di risposta più adeguate per risolvere criticità contingenti. Diventa quindi necessario, per la massimizzazione della produttività, che resta comunque obiettivo primario ed irrinunciabile dell’organizzazione, mettere ogni lavoratore in grado di dare il suo contributo attivo, fatto di esperienza concreta, creatività ed autonomia.
In sostanza, la discontinuità più importante fra il modello fordista e quello della lean
production ruota intorno a due assi:
i. l’asse tecnico-organizzativo, che esalta il concetto di flusso e prevede il passaggio dalla centralità delle funzioni alla centralità dei processi, attraverso il ridisegno delle strutture organizzative in un’ottica di integrazione e semplificazione e la contemporanea ridefinizione del ruolo delle funzioni per garantire il miglior supporto alla gestione del processo produttivo;
ii. l’asse del sistema sociale, in quanto la lean production si regge sulla creazione e valorizzazione di gruppi di lavoro e di team, con indubbie
conseguenze sulla sfera della socialità dell’individuo, poiché permette la formazione di gruppi di individui ai quali è affidata la responsabilità della fornitura di una data quantità di output nell’unità di tempo, massimizzando in questo modo la responsabilità individuale sulla condotta del lavoro.
Con tutta evidenza si tratta di un sistema organizzativo che promuove forme di autonomia e controllo delle prestazioni, le quali possono condurre a situazioni professionali molto differenziate sotto il profilo della qualità del lavoro in termini di competenze, professionalità e impegno. Agli attori organizzativi viene richiesto di avere comportamenti che si discostano, in parte e in modo controllato, dagli standard: questo è tanto più necessario quanto più si manifestano esigenze non predeterminate di flessibilità produttiva ed organizzativa. Necessariamente in questo contesto è necessario che le risorse umane vengano considerate il fattore distintivo della cultura organizzativa.