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Il termine globalizzazione è sicuramente uno dei più usati ed abusati oggi. Molto più raramente essa viene definita e probabilmente rappresenta uno dei concetti meno compresi, e forse meno comprensibili, e più nebulosi. Senza avere qui alcuna pretesa di fornirne una definizione esauriente, ma ai soli fini del ragionamento, si osserva che il termine globalizzazione si riferisce a fenomeni che possiedono un raggio di azione tale per cui la dimensione planetaria (o comunque sovranazionale) prevale sui risultati che gli stessi fenomeni hanno a livello nazionale o locale.

Come è ormai noto, la progressiva e dirompente estensione dei fenomeni globali ha condotto all’emergere di Paesi ed aree geografiche fino a pochi decenni fa ai margini dello sviluppo internazionale e spesso confinate a ruoli se non di sottosviluppo, quanto meno di semisviluppo. Oggi, economie come quella cinese, indiana, turca, ecc. praticano una concorrenza spesso spregiudicata alle economie di mercato tradizionali potendo contare su bassi livelli salariali interni e opinioni pubbliche (dove esistono) accondiscendenti. Una reazione tipica delle economie dei Paesi industrializzati è stata, ed è tuttora, quella di far fronte a una tale concorrenza spostando nei Paesi emergenti le produzioni labour intensive e di introdurre metodi di produzione labour-saving in modo da economizzare l’uso di forza-lavoro poco qualificata.

D’altra parte, l’introduzione di metodi di produzione labour-saving comporta la crescita di peso dei metodi capital intensive e la conseguente necessità di disporre di una forza lavoro qualificata. Va nella stessa direzione l’aumento considerevole di contenuto tecnologico presente nelle imprese e in tutti i comparti sociali determinato dall’irrompere delle ICT e dalla loro pervasività100. Si assiste dunque ad un apparente paradosso che rappresenta uno dei tratti tipici delle economie contemporanee: da una

100 Su questo aspetto e sull’inevitabile ruolo “killer” delle nuove tecnologie rispetto a quelle

precedenti, cfr. l’ormai classico lavoro di Downes e Mui (1999): attraverso una notevole mole di case studies, i due autori forniscono esempi di imprese (ed imprenditori) che non hanno saputo cogliere gli effetti potenziali di nuove applicazioni, mantenendo processi e prodotti progressivamente sempre più obsoleti, con questo mettendo in crisi brand che sembravano destinati a rimanere a lungo sui mercati in posizioni di leadership; al contrario altre imprese, di cui gli autori forniscono un’ampia casistica, che hanno saputo cogliere il ruolo innovativo e dirompente di determinate applicazioni, irrompendo sul mercato e conquistando in poco tempo posizioni leader. Benché si tratti di una ripresa dell’imprenditore innovatore di schumpeteriana memoria, il lavoro di Downes e Mui (1999) mette in evidenza come nel campo delle ICT la sensibilità alle innovazioni rappresenti una indispensabile fattore critico di successo.

parte i lavoratori poco qualificati, non essendo competitivi con i loro omologhi dei Paesi emergenti, da questi vengono sostituiti attraverso i processi di delocalizzazione e di outsourcing101, e dunque cresce la disoccupazione dei segmenti meno qualificati della forza lavoro; dall’altra, il mercato del lavoro riferibile a posizioni professionali medio-alte registra tensioni dal lato dell’offerta in quanto non sempre e non completamente le strutture formative si rivelano adatte e pronte a soddisfare le esigenze di imprese sempre più dinamiche e nelle quali i processi di riconversione produttiva e di trasformazione dei mercati di sbocco esigono lavoratori flessibili e al tempo stesso specializzati.

Tutto questo non può che tradursi in una crescita economica sempre più problematica, nella quale però il ruolo del capitale umano risulta molto più cruciale che in passato. Peraltro, la nozione stessa di capitale umano non è più univoca e condivisa, pur essendo comune la sensazione che la relazione fra capitale umano e crescita vada ridefinita in quanto gli assunti comunemente considerati validi sul ruolo di processi di formazione e valorizzazioni del capitale umano quali l’istruzione sono oggi in discussione, proprio a causa delle trasformazioni economiche, sociali e culturali che interessano le nostre società102.

Secondo Beck (1997), la globalizzazione produce un ulteriore paradosso: non può fare a meno del valore creato dal capitale di conoscenze collettive e di informazione accumulate, nonché della loro circolazione rapida ed efficiente, ma al tempo stesso genera ed amplifica il valore della non conoscenza “attraverso lo strumento del potere di determinare la disparità di accesso ad essa”103.

Ora, queste osservazioni sembrano utili per individuare due ordini di problemi:

i. in primo luogo la mancanza di incentivi da parte di uno stato nazionale ad investire in istruzione a causa di rendimenti di medio e lungo periodo incerti e per il rischio di breve periodo che il capitale umano formato si dissolva attraverso flussi migratori in uscita alla ricerca di maggiori opportunità e flussi migratori in entrata più convenienti ed economici; ii. in secondo luogo il rischio dell’implementazione di politiche educative

disuguali e squilibrate da parte di uno stato che facilitano l’acquisizione di maggiori conoscenze ed abilità per alcuni, provocando al tempo stesso maggiori difficoltà di accesso all’istruzione, o quanto meno ad un’istruzione adeguata, per altri.

Queste osservazioni potrebbero portare a una conclusione: la definitiva perdita di ruolo dello stato nazionale per quanto attiene ai processi educativi e formativi a vantaggio di una dimensione “altra” dai tratti nebulosi ed indeterminati. Ma, come è stato osservato104, globalizzazione ed istruzione sono coinvolte in un processo di causazione circolare in cui diventa determinante il ruolo delle politiche dello stato, tra cui evidentemente anche le politiche educative. È evidente che nel mondo d’oggi le politiche educative non sono, né possono essere, soltanto monopolio dello stato; ciò non toglie che il ruolo dell’operatore pubblico sia insostituibile105, anche quando ad esso si affiancano sempre più numerosi, e spesso aggressivi, attori privati106.

101 Nonché, naturalmente, crescenti ondate migratorie dai Paesi pveri a quelli più ricchi, nei quali i

nuovi immigrati sostituiscono i lavoratori residenti nei lavori meno qualificati e meno pagati

102 Cfr Halsey et alia, 1997 103 Cfr. Beck, 1997 104 Cfr. Myrdal, 1990

105 Green (1990) osserva che il ruolo odierno dello stato per quanto riguarda la formazione non è

sostanzialmente diverso da quello dell’inizio del 19° secolo

Questa tendenziale presenza di una molteplicità di attori educativi è senza dubbio da considerarsi come un elemento positivo, anche se produce rischi non secondari di emersione di fenomeni da free rider: l’operatore pubblico potrebbe avere la tentazione di delegare ad altre agenzie il discorso formativo, stante la presenza dell’alto grado di obsolescenza delle competenze e delle abilità conseguenti alle dinamiche dei processi produttivi e dell’ICT e a causa dei persistenti disavanzi pubblici. Dopotutto, potrebbe essere il pensiero dei policy makers, perché stanziare cifre notevoli per un’attività costosa che altri potrebbero svolgere secondo i loro specifici interessi e necessità?

Questo aspetto non è da sottovalutare perché si congiunge con la necessità di risparmi sui costi sociali, ivi compresa naturalmente l’istruzione e la ricerca accademica che potrebbe essere sostituita sempre più con modalità on the job affidate ad imprese o comunque a soggetti terzi. Si potrebbe verificare, e in parte il processo può dirsi già iniziato, quella che Ball definisce come la crescente “colonizzazione del discorso educativo” da parte dell’economia, che determina una subordinazione del discorso educativo a quello economico, nonostante sia evidente il contributo che una maggior acquisizione di capitale umano sia a livello individuale che aggregato determina sulla crescita di un Paese.

In una simile logica il discorso educativo risulta dominato dal razionalismo economico che presuppone il focus sull’efficienza del processo dal lato dell’offerta educativa e sull’assimilazione di chi partecipa all’istruzione al consumatore dal lato della domanda. In questo quadro il discorso educativo viene ridefinito nei termini del linguaggio della teoria del capitale umano: considerati come clienti e/o prodotti gli studenti e come produttori gli attori interni al sistema educativo, l’idea-guida diventa quella di regolare i loro reciproci rapporti in un’ottica puramente economica.

Questo tipo di condotta potrebbe avere conseguenze negativa di vasta portata, in primo luogo perché con ogni probabilità condurrebbe ad esiti individuali diseguali delle politiche scolastiche ed educative. Questa conseguenza, oltre che non equa, potrebbe essere anche sub-efficiente in quanto non adeguata alla formazione di una forza lavoro di elevato livello, come invece richiesto dalla società della conoscenza.