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Al centro degli sviluppi dell’economia della conoscenza è da considerare situato il concetto di capitale intellettuale. Un contributo molto importante per la sua definizione si deve a D. Teece (1986): nell’articolo, l’autore suddivide il capitale intellettuale in

i. risorse intellettuali, che risiedono nella mente degli individui e prendono la forma di know-how, capacità ed esperienza collettiva;

ii. assets intellettuali che, codificati e tangibili, rappresentano la conoscenza

specifica sulla quale l’organizzazione può esercitare diritti di proprietà.

Nonostante il contributo di Teece e i successivi sviluppi teorici136, il concetto di capitale intellettuale sarebbe rimasto solo il tentativo di produrre categorie concettuali potenzialmente in grado di rappresentare fenomeni ma senza un effetto concreto, se dal mondo delle imprese non fossero venuti importanti operazionalizzazioni del concetto. In effetti, nel corso degli anni novanta alcune imprese hanno mostrato di comprendere l’importanza del monitoraggio attento del proprio capitale intellettuale, elaborando strumenti che rendessero possibile evidenziarne la rilevanza nel complesso di assets riferibili all’impresa137.

133 Ed anche alla media (5,6) che caratterizza le 500 imprese considerate da Standard&Poor.

134 Lipparini, 2002, p. 34. Dream Works è una società di produzione cinematografica che vede fra i suoi

soci fondatori anche Steven Spielberg

135 La principale di tali critiche riguarda il fatto che il calcolo viene influenzato dalla estrema volatilità e

variabilità del mercato azionario e all’influenza di fattori spesso estranei al controllo del management.

136 Cfr. per esempio Stewart, 1994 e Sullivan, 2000

137 Sotto questo aspetto di particolare rilevanza è stato l’apporto di un gruppo di lavoro nato per impulso

La feconda interazione fra apporti definitori di tipo teorico e di tipo operativo hanno permesso nel corso del tempo di avere un quadro sufficientemente preciso di una categoria concettuale altrimenti sfuggente, permettendo al tempo stesso di meglio qualificare paradigmi già da tempo presenti in letteratura. Il contributo di Edvinson138 e Malone (1997) permette di precisare meglio natura e portata del capitale intellettuale. Nel contributo si parte dalla considerazione che il valore di un’organizzazione scaturisce da tre categorie di capitale: quello finanziario, quello reale e quello intellettuale. Trascurando la pur notevole rilevanza del primo e del secondo, gli autori si concentrano sul terzo e lo dividono in due categorie:

i. capitale “pensante” (human capital);

ii. capitale “non pensante” (structural capital).

Le due categorie permettono a cascata di classificare le ulteriori forme di capitale a disposizione dell’organizzazione. Lo schema che segue139 fornisce il quadro delle diverse sotto-categorie in cui è possibile articolare il capitale intellettuale.

elaborato un primo modello che, applicato all’impresa, ha permesso di affiancare al tradizionale report finanziario anche una valutazione degli assets intellettuali a disposizione di Skandia. Nel contributo fornito a Skandia dal gruppo di lavoro il capitale intellettuale veniva così definito: “the possession of the knowledge, applied experience, organizational technology, custode relationship and professional skills that provide Skandia with a competitive edge in the market” (Skandia, 1995)

138 L. Edvinson è stato alla direzione del gruppo di lavoro di Skandia 139 Adattato da Skandia, 1995

Valore

Capitale finanziario Capitale intellettuale Capitale reale Capitale umano Capitale strutturale

Competenze Relazioni Valori Capitale clienti Capitale organizzativo Innovazione Processi Cultura Proprietà intellettuali Assets intangibili Valore

Capitale finanziario Capitale intellettuale Capitale reale Capitale umano Capitale strutturale

Competenze Relazioni Valori Capitale clienti Capitale organizzativo Innovazione Processi Cultura Proprietà intellettuali Assets intangibili

Nello schema, il capitale umano comprende le competenze, le relazioni e i valori delle risorse umane dell’impresa; il capitale strutturale comprende invece il capitale rappresentato dai clienti140, quello relativo all’innovazione e quello che afferisce ai processi. Le componenti legate all’innovazione e ai processi rappresentano la dimensione organizzativa del capitale, che include gli assets intangibili e le proprietà intellettuali, nonché il know-how codificato all’interno dell’impresa sotto forme diverse quali letteratura grigia, best practices, reti intranet.

Lo schema proposto da Skandia, arricchito successivamente da altri contributi provenienti dall’interno delle imprese141, rende evidente che le due componenti insostituibili in un’impresa knowledge-intensive sono gli individui e le relazioni (con clienti, fornitori ed altre imprese): in sostanza, è l’interazione fra capitale umano e capitale strutturale che rende possibile la creazione di valore e la trasformazione delle conoscenze dei singoli individui in capitale ad uso dell’intera organizzazione. Si tratta di contributi molto importanti perché si aggiungono, arricchendoli, ai “tradizionali” lavori degli economisti dedicati al capitale umano, mettendo in

140 L’enfasi sul valore del capitale rappresentato dai clienti costituisce uno degli aspetti salienti dei

nuovi modelli organizzativi. Le success story aziendali degli ultimi anni sono state spesso caratterizzate da un innovativo rapporto dell’impresa con il cliente e sulla creazione di stabili reti relazionali. Per esempio, dall’esperienza della produzione dei freni che equipaggiano le monoposto Ferrari di Formula 1, la Brembo ha potuto derivare prodotti applicati alle vetture di serie, come la pinza freno in alluminio, mentre sta sperimentando nelle corse la monopinza utilizzabile in futuro nelle vetture di serie. Ma è soprattutto nell’area della produzione immateriale che negli ultimi anni sono state realizzate le esperienze più innovative di costruzione del capitale relazionale: tra queste è opportuno citare il caso del sistema operativo Linux. Nel 1991 uno studente della Helsinki University, Linus Torvalds, sviluppa il sistema operativo Linux immaginandolo come un’alternativa al sistema DOS che equipaggiava la quasi totalità dei computer IBM-compatibili. Il DOS è un sistema operativo con codice sorgente proprietario e quindi non disponibile per modifiche o integrazioni. In realtà il DOS aveva un concorrente potenzialmente pericoloso nel codice Unix: sviluppato a partire dal 1969, Unix era molto più potente del DOS, ma era disponibile soltanto in versioni molto costose. Torvalds si pone l’obiettivo di sviluppare un software simile ad Unix, ma gratutito, modulare, programmabile e in grado di essere installato su p.c. IBM-compatibili. Per realizzare il suo progetto, Torvalds ha necessità di relazioni e quindi, nell’agosto del 1991 invia ad un gruppo di discussione dedicato a Minix (un altro sistema operativo creato per scopi didattici da A. Tanenbaum) una richiesta di suggerimenti sulle modalità da seguire. Attorno all’idea di Linux, si forma rapidamente una comunità di utenti- programmatori che contribuisce ad arricchire il core del sistema operativo con diversi moduli e componenti. Il capitale relazionale di Linux è oggi rappresentato da migliaia di utenti distribuiti in 120 Paesi, che analizzano il codice e lo sottopongono ad un continuo processo di miglioramento e sviluppo: chiunque può apportare cambiamenti al codice, operando sulle parti del codice liberamente scaricabili dal Web, ma le modifiche non possono essere inserite in Linux senza il consenso di Torvalds, il quale continua a detenere il controllo sul rilascio ufficiale della versione stabile del sistema operativo. Gli utilizzatori, attraverso Internet, comunicano con gli autori dei moduli e trovano risposte rapide ai loro quesiti. Questo meccanismo di interazione continua contribuisce a rendere Linux la versione più avanzata e stabile dei sistemi basati su Unix. Il risultato è che anche nel mercato dei p.c. e in quello del software commerciale, diversi importanti produttori, tra cui la stessa IBM, considera Linux come una valida alternativa ai prodotti Microsoft. Un altro caso di successo fondato su un uso intenso del capitale relazionale a disposizione di un’organizzazione è dato da Wikipedia: come è noto, si tratta di una enciclopedia in rete che permette non soltanto di accedere a conoscenza strutturata, ma anche a costruirla grazie alla possibilità di aggiungere una voce o modificare quelle già presenti. Per i casi di Linux e di Wikipedia, nonché per l’analisi di altri esempi di produzione fortemente valorizzata dalla presenza di capitale relazionale, cfr. Benkler, 2007.

141 Per esempio Dow Chemicals ha istituito la posizione di Intellectual Assets Director e conta su

cento Intellectual Capital Team che operano nell diverse sedi e comparti dell’impresa. Dal 1997 pubblica un report (Visualizing Intellectual Property in Dow) che offre un resoconto delle iniziative messe in atto dall’impresa per valutare ed utilizzare le proprietà intellettuali. Il report ha l’esplicito obiettivo di fornire agli stakeholders il senso del reale valore dell’impresa e le modalità di massima dei modi con cui esso viene generato.

evidenza come esso acquisti rilevanza ai fini della creazione di valore non soltanto in virtù delle competenze certificate in modo più o meno preciso dal titolo di studio o da altri segnali “oggettivi”, ma solo se riesce a coniugarsi con la capacità di interagire con le componenti del capitale strutturale.

Una simile considerazione può contribuire a spiegare la rilevante differenza che esiste in termini di remunerazione, di progressione di carriera, ecc. del capitale umano fra Paesi e, all’interno di ciascun Paese, fra diverse imprese ed organizzazioni entro cui esso opera142.

Nel 1992 veniva attribuito all’economista americano G. Becker, della Chicago University, “for having extended the domain of microeconomic analysis to a wide range of human behavior and interaction, including nonmarket behaviour”. Benché la motivazione di attribuzione del Nobel non riguardasse in modo esplicito la teoria del capitale umano, Becker è considerato, peraltro non del tutto a ragione, il fondatore di tale teoria; egli ne fece del resto una parte cospicua del proprio programma di ricerca nel corso degli anni143. Tale programma di ricerca è fondato sull’assunto che, poiché i comportamenti degli individui rispondono tutti agli stessi principi fondamentali, è possibile mettere a punto un modello esplicativo applicabile nell’analisi di aspetti del comportamento umano tra loro molto diversi: se i comportamenti sono razionali, come gran parte del mainstream economico ritiene144, essi possono essere descritti in termini di massimizzazione di una specifica funzione obiettivo, ad esempio il profitto o il benessere individuale.

Per la verità i primi apporti alla teoria del capitale umano sono antecedenti ai lavori di Becker, ma l’indubbio merito di quest’ultimo è quello di averne formalizzato i fondamenti microeconomici, sviluppando un approccio originale all’interno di una teoria generale per determinare la distribuzione del reddito da lavoro. Nel suo primo lavoro dedicato al capitale umano145, Becker avanza ipotesi riguardo alla struttura dei salari e specifica la relazione tra profitti e capitale umano. Tali ipotesi, successivamente riprese dallo stesso Becker e da molti altri economisti, rappresentano un framework analitico per lo studio dei ritorni da attività formative e di on-the-job-training, dei differenziali e dei profili salariali nel corso del tempo. Come già affermato, già prima del contributo di Becker altri economisti si erano occupati dell’importanza delle capacità individuali nei processi decisionali interni alle organizzazioni e in riferimento al successo che esse possono determinare verso l’esterno. H. Simon in uno dei suoi contributi più importanti146 descrive l’impresa

142 Secondo l’OECD (2008) l’istruzione procura un vantaggio sostanziale in termini di redditi da

lavoro nell’insieme, ma la situazione appare molto differente a seconda il Paese di riferimento: la proporzione dei titolari di ISCED 5 che percepiscono un salario inferiore, e a volte nettamente inferiore alla metà del valore mediano, è notevole e riguarda numerosi Paesi. In parte questa differenza è spiegata dalla presenza di una vasta platea di lavoratori a tempo parziale o con contratti di lavoro stagionale, ma può anche essere considerata un segnale negativo sul piano della qualità della formazione impartita. Inoltre, a parità di titolo di studio ed area di conseguimento del titolo stesso, persiste una considerevole differenza di genere a svantaggio della popolazione femminile. Su questi aspetti cfr. oltre in questo stesso lavoro.

143 Le ricerche di Becker hanno di fatto creato un ponte fra l’economia ed altre discipline (p.e. la

sociologia), portando ad un’interpretazione dei comportamenti con una strumentazione analitica più ricca e complessa.

144 I lavori teorici ed empirici degli ultimi tre decenni hanno dimostrato che non sempre il paradigma

della razionalità è applicabile ai comportamenti individuali, ciò non toglie che ancora oggi molti economisti lo adottino come principio guida delle loro analisi.

145 Cfr. Becker, 1964 146 Cfr. Simon, 1947

come un sistema adattivo formato da componenti fisiche, personali e sociali tenute assieme da reti di comunicazione e dalla disponibilità dei suoi membri a cooperare e raggiungere obiettivi comuni. A questo proposito Simon rifiuta l’assunzione della teoria classica e neoclassica dell’imprenditore come individuo perfettamente razionale ed orientato alla massimizzazione del profitto, sostituendolo con un numero di decisori cooperanti, le cui capacità di agire razionalmente sono limitate sia da una mancanza di conoscenza completa sulle conseguenze delle decisioni sia dalle caratteristiche della rete personale e sociale di cui dispongono. Questi decisori, più che orientati alla massimizzazione del profitto, ricercano un’alternativa soddisfacente ai problemi che caratterizzano l’organizzazione entro cui operano, tenendo presente anche come gli altri stanno affrontando e risolvendo i propri. Nel corso del tempo l’apporto di Simon sulla conoscenza che orienta l’azione, nonché sulle capacità decisionali influenzate dalla presenza e caratteristiche delle reti, personali e sociali, si è rivelato di fondamentale importanza non soltanto per le implicazioni in termini di componenti del capitale intellettuale (in questo caso il capitale umano), ma anche per evidenziare le relazioni che legano le sue diverse componenti: in effetti nel lavoro di Simon è immediato cogliere la relazione fra la capacità individuale e competenza organizzativa, nonché quella fra capitale umano e capacità relazionale. L’affermazione che “all knowledge resides in human heads”147, lungi dall’essere una banalità, permette di cogliere l’idea di conoscenza collettiva come risultato dell’integrazione ed aggregazione della conoscenza individuale.

A partire dai contributi di Simon, maggiormente centrato sul ruolo della conoscenza all’interno delle organizzazione, e di Becker, il quale focalizza l’attenzione sull’investimento individuale in capitale umano, si sono moltiplicati gli studi riguardo al capitale intellettuale, fino a giungere ai lavori più recenti quale quello di Stewart (1994) e alla realizzazione del già citato modello operativo costruito da Skandia (1995).

Esiste un sostanziale accordo sul fatto che le competenze individuali, per trasformarsi in un vero e proprio capitale e fonte di valore per l’organizzazione, devono essere opportunamente amplificate a livello organizzativo. Conseguentemente, le competenze dei singoli devono inserirsi all’interno della più generale strategia organizzativa a sostegno della valorizzazione delle conoscenze dei singoli e della loro implementazione ad uso dell’organizzazione. Questa considerazione consente di cogliere il legame, che deve essere creato giacché non nasce automaticamente, tra il capitale intellettuale e la strategia dell’organizzazione: questa deve prevedere la creazione delle condizioni di contesto che permettano al potenziale di conoscenza dell’impresa di tradursi in valore. In sostanza, la presenza di strategie poco efficienti riguardo alla capacità di valorizzare il capitale umano possono rappresentare una delle criticità delle organizzazioni contemporanee148; questo significa che i limiti di sviluppo di un’organizzazione sono prevalentemente riconducibili alle risorse umane di cui dispone l’organizzazione stessa e al modo con cui le utilizza. Il movimento verso posizioni competitive migliori, o semplicemente verso una maggiore efficienza, possono essere seriamente messe in discussione non soltanto dalla scarsità di capitale umano presente in un’organizzazione, ma anche dalla sua incapacità nel costruire relazioni interne ed esterne all’organizzazione. A partire da queste constatazioni, la letteratura più recente ha sviluppato interessanti paradigmi, come quello delle “capacità dinamiche”149. Si tratta di una prospettiva che prende spunto dai lavori di Schumpeter (1934), Penrose (1959) e Williamson (1975),

147 Cfr. Simon, 1991, pag. 101 148 Cfr. Caves e Porter, 1977

e che sembra in grado di produrre buone prospettive analitiche. Come affermato dagli autori di questo approccio:

The competitive forces and strategic conflict approaches generally see profits as stemming from strategizing-that is, from limitations on competition which firms achieve through raising rivals' costs and exclusionary behavior. The competitive forces approach in particular leads one to see concentrated industries as being attractive-market positions can be shielded behind entry barriers, and rivals costs can be raised. It also suggests that the sources of competitive advantage lie at the level of the industry, or possibly groups within an industry. In text book presentations, there is almost no attention at all devoted to discovering, creating, and commercializing new sources of value. The dynamic capabilities and resources approaches clearly have a different orientation. They see competitive advantage stemming from high-performance routines operating 'inside the firm,' shaped by processes and positions. Path dependencies (including increasing returns) and technological opportunities mark the road ahead. Because of imperfect factor markets, or more precisely the nontradability of 'soft' assets like values, culture, and organizational experience, distinctive competences and capabilities generally cannot be acquired; they must be built. This sometimes takes years-possibly decades. In some cases, as when the competence is protected by patents, replication by a competitor is ineffectual as a means to access the technology. The capabilities approach accordingly sees definite limits on strategic options, at least in the short run. Competitive success occurs in part because of policies pursued and experience and efficiency obtained in earlier periods. Competitive success can undoubtedly flow from both strategizing and economizing, but along with Williamson we believe that 'economizing is more fundamental than strategizing .... or put differently, that economy is the best strategy. Indeed, we suggest that, except in special circumstances, too much 'strategizing' can lead firms to underinvest in core competences and neglect dynamic capabilities, and thus harm long-term competitiveness.150

Le organizzazioni di successo posseggono assets intangibili, quali la conoscenza tecnologica o la competenza manageriale; le “dynamic capabilities” si traducono nell’abilità di riconfiguare, riorientare, trasformare ed integrare le competenze chiave preesistenti nell’organizzazione con le risorse esterne per fronteggiare la sfida della competizione/imitazione di derivazione schumpeteriana. Una simile prospettiva focalizza l’attenzione sul modo con cui le organizzazioni sviluppano competenze specifiche ma anche sul modo con cui rinnovano di continuo la propria base di competenze in modo da rispondere ai cambiamenti posti dall’ambiente esterno. Coerentemente con l’approccio delle competenze dinamiche, le competenze individuali possono essere più utilmente considerate in funzione delle possibilità di miglioramento delle singole attività dell’organizzazione. In questo caso la competenza coglie elementi quali i miglioramenti apportati nel proprio ambito operativo ed i suggerimenti che contribuiscono all’innovazione di prodotto e di processo, alla flessibilità produttiva, all’accorciamento dei tempi nello sviluppo di nuovi prodotti. In realtà, però, il possesso di una o più competenze da parte degli individui inseriti in un’organizzazione non porta necessariamente questa all’eccellenza: solo se opportunamente valorizzate, esse posso interagire con il capitale strutturale e dare così luogo al pieno utilizzo del capitale relazionale. A sua volta, è la dotazione di capitale strutturale costituisce l’infrastruttura indispensabile che consente al capitale umano di connettersi in modo efficace al capitale relazionale. In sostanza, se il capitale umano ed il capitale relazionale costituiscono in nodi di una rete, il capitale strutturale ne costituisce il filo che li collega151.

149 Cfr. Teece e Pisano, 1994 e Teece, Pisano e Shuen, 1997 150 Così Teece, Pisano e Shuen, 1997, p. 528

151 Sull’importanza delle strutture a network esiste un ampio consenso. Per una rassegna aggiornata

Il ruolo delle innovazioni nei processi di sviluppo