Il presente lavoro tratta di alcune delle condizioni in cui è organizzato il processo produttivo di capitale umano, sia dal lato della sua domanda sia dal lato della sua offerta, con particolare riferimento al caso italiano, ma operando continui rinvii alla situazione internazionale. Inoltre non si trascurerà di trattare l’impianto concettuale che ha caratterizzato il concetto di capitale umano sin dal suo esordio sulla scena teorica all’inizio degli anni sessanta del novecento.
Il richiamo alla teoria del capitale umano appare tanto più necessario quanto più sembrano evidenti le sue insufficienze e la sua eccessiva parsimonia concettuale: ritenere, come fa Becker, la scelta da parte degli individui di acquisire capitale umano come risultato di un puro calcolo razionale non è in grado di spiegare l’estrema complessità che sembra caratterizzare le motivazioni di una tale scelta. Inoltre la teoria del capitale umano è eccessivamente parsimoniosa sul piano delle condizioni di partenza perché ritiene il mercato entro cui si confrontano domanda ed offerta di capitale umano come un mercato perfettamente concorrenziale: l’evidenza empirica ed una crescente letteratura dimostrano che le condizioni reali di tale mercato sono ben lontane da quelle del modello libero- concorrenziale e semmai lo rendono più vicino ad un mercato di concorrenza monopolistica.
Un altro aspetto che caratterizza il presente lavoro è costituito dal fatto che l’attenzione verrà focalizzata in modo prevalente sulla produzione di capitale umano attraverso le filiere formali, in particolare quelle che costituiscono il sistema educativo secondario di secondo grado e terziario. Le ragioni di una tale scelta, che in tutta evidenza lascia fuori dallo studio elementi di importanza crescente quali le attività formative non formali ed informali, nonché le condizioni che rendono possibile (o meno) il lifelong learning sono molteplici: in primo luogo, occorre acquisire la
68 Cfr. a questo proposito il cap. 19 del presente lavoro, con particolare riferimento ai paragrafi 4 e 5, nonché il capitolo
20, con particolare riferimento ai paragrafi 1, 2, 3 e 4
6; in secondo luogo, e di conseguenza, si è preferito concentrare l’attenzione sull’istruzione formale, senza tuttavia ritenere che le altre forme possano essere considerate di secondaria importanza o meno rilevanti: la ragione di una tale scelta è da ritenersi puramente soggettiva ed attribuibile alla responsabilità di chi scrive e deve considerarsi motivata soltanto da ragioni di compattezza interna al lavoro.
Il lavoro è composto da due parti, più una breve introduzione e i riferimenti bibliografici: nella prima di capitale umano, mettendo in particolare in evidenza il passaggio, peraltro ancora non del tutto compiuto da condizioni produttive fordiste ad altre post-fordiste e da una società moderna ad una post-moderna; benché siano concetti ancora in progress, come del resto testimonia la presenza del generico prefisso “post”, appare in tutta evidenza come il frame complessivo entro cui si muovono gli attori sociali del mondo d’oggi sia profondamente diverso da quello di un pur recente passato; questo produce effetti sulle dimensioni operative del capitale umano, ma anche nelle definizioni teoriche che lo hanno caratterizzato nel corso del tempo70.
Nella seconda parte ci si concentra sulle caratteristiche produttive e di domanda ed offerta del capitale umano, sia dal lato quantitativo che da quello qualitativo, affrontando alcune questioni che sembrano rappresentare nodi importanti per una definizione compiutamente aggiornata di capitale umano. Peraltro, si è preferito concentrare l’attenzione su questioni legate al capitale umano in grado di rappresentare veri e propri problemi sociali: per esempio i tassi di insuccesso e di dispersione, il mismatch fra domanda ed offerta di istruzione, la disuguaglianza nei processi di istruzione, ecc.. Chi scrive è consapevole di aver lasciato fuori dal novero della sua trattazione molti aspetti rilevanti, ma ritiene che trattare ogni questione inerente al capitale umano sia un compito certamente necessario da affrontare, ma solo attraverso un lavoro collaborativo.
Il lavoro si conclude con i riferimenti bibliografici. A questo proposito occorre osservare che in questa parte si è cercato di dare conto della letteratura, quasi tutta in lingua inglese, che costituisce il corpus teorico dell’economia dell’istruzione. Il campo disciplinare appare oggi in movimento e molta parte di tale letteratura, pur provenendo spesso gli autori dall’ambito dell’economia applicata e dell’economia del lavoro, si è ormai affrancata dai rami di origine per fornire un contributo originale ed autonomo.
A questo punto occorre rendere conto del taglio che si è cercato di dare al lavoro. La convinzione di chi scrive è che l’Italia sia sull’orlo di un pericoloso baratro e che molte delle soluzioni adottate per cercare di evitare di cadervi si sono rivelate ben poco efficaci. Le probabilità di un esito positivo sono, sempre a parere di ci scrive, molto limitate: le generazioni presenti lasceranno a quelle future un paese impoverito e sterile, con risorse umane scadenti e comunque non tali da permettere di competere sul piano internazionale. Non si tratta di sognare un’Italia imperiale o leader in un’Europa a sua volta restituita ad un ruolo di grande potenza: ammesso, e non concesso, che ciò sia augurabile sarebbe illusorio pensare che simili scenari siano possibili.
È possibile un esito positivo? Sul piano probabilistico certamente sì, ma a condizione che si abbandonino facili illusioni: lo “stellone” d’Italia, da qualcuno indicato indirettamente come la via per uscire dalle difficoltà, il made in Italy come risorsa strategica, il retaggio culturale plurisecolare, ecc., sono tutti elementi privi di consistenza71. O almeno devono essere accompagnati da una visione strategica, e dunque di ampio respiro, che individui i punti deboli del sistema e le linee di attacco su cui conviene insistere.
70 Troppo spesso, nel trattare tale concetto, ci si concentra sul ruolo che hanno avuto i lavori seminali di Schultz e Becker, trascurando la “vita parallela” che ha caratterizzato gli apporti teorici di autori che hanno indagato sul rapporto fra la creazione di nuova conoscenza e di capitale umano e la crescita economica, sia a livello micro che a livello macro. Questo tipo di riflessioni hanno portato alla nascita di un promettente filone di ricerca che da Solow si è sviluppato fino ai recenti lavori di Romer sul capitale umano come elemento determinante e strategico della crescita.
71 Ovviamente il primo più degli altri, ma sembra che per alcuni sia un comodo alibi per fare poco o nulla di realmente
occorre fare delle scelte: gli economisti sanno che le risorse (economiche, finanziarie, umane) sono per definizioni scarse e ciò che viene investito da una parte deve essere sottratto da un’altra; prima i policy makers si rendono conto di questo drammatico dilemma e lo affrontano con consapevolezza meglio sarà;
ii. scegliere significa sacrificare qualcosa per qualcos’altro, in virtù di obiettivi chiari, trasparenti e condivisi: lasciare alle generazioni future un paese almeno un poco migliore di quello che è stato ereditato dalle generazioni passate;
iii. è possibile pensare ad un paese ancora caratterizzato da attività down-skilled che possa crescere e svilupparsi in un mondo come quello attuale? Probabilmente no: la responsabilità che grava sulle presenti generazioni, e sui policy makers che ne sono l’espressione, è rappresentata dalla necessità di orientare le risorse verso un sistema educativo e formativo efficace ed efficiente, nel quale didattica e ricerca siano i driver di uno sviluppo equilibrato e competitivo, abbandonando al loro destino settori e competenze obsoleti e senza speranza.
Quello che in questo lavoro si cerca di dimostrare è che l’unica speranza sembra essere affidata ad efficaci sistemi formativi, dei quali peraltro l’Italia non sembra ad oggi essere dotata. In particolare la seconda parte del lavoro affronta i dati relativi ad alcuni aspetti del sistema formativo italiano con un taglio il più possibile sperimentale; a partire da dati a disposizione, si è cercato di elaborare alcune analisi che mostrano i ritardi dell’Italia in campo educativo e in quello della ricerca. Il riferimento obbligato è costituito dalla situazione che caratterizza i paesi dell’area OECD, anche se non sempre i dati sono facilmente o utilmente confrontabili.
In particolare, l’approccio empirico ha riguardato l’elaborazione di alcuni indicatori ritenuti particolarmente significativi:
i. il grado di dispersione ed insuccesso tuttora presenti nel sistema educativo italiano, in termini di ripetenze ed abbandoni (a tutti i livelli, ma in particolare in quelli ISCED 3 e ISCED 5);
ii. la scarsa o nulla affidabilità dei sistemi di valutazione adottati sia in progress, sia alla fine di un percorso formativo; come è stato messo in evidenza nel capitolo a ciò dedicato, questo elemento è particolarmente significativo a livello ISCED 5;
iii. il perdurante, e forse crescente, mismatch fra caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro: il mercato del lavoro chiede competenze che il sistema formativo non sembra in grado di offrire: questo si traduce in bassi salari di ingresso, costi di formazione elevati e scarsa attrattività del sistema formativo;
iv. la qualità delle competenze apprese durante il percorso formativo, oltre ad essere probabilmente poco utile, è anche mediamente molto bassa: PISA indaga su tali competenze e consente di scoprire non soltanto la scarsa preparazione dei quindicenni italiani, ma anche le profonde differenze territoriali e relative al tipo di scuola frequentata; anche in questo caso si è cercato di andare oltre i dati, pur significativi, presentando alcune evidenze empiriche ulteriori.
Un lavoro sul capitale umano, specie se si cerca di coniugare l’evidenza empirica con gli apporti teorici, non può prescindere da una notevole mole di dati quantitativi; la loro presenza, peraltro inevitabile, può appesantire la lettura del lavoro stesso. Allo scopo di ridurre al minimo tale problema, si è cercato laddove possibile di concentrare gli apparati grafici e tabellari alla fine di sezioni testuali: non è detto che tale scelta sia da preferirsi in assoluto, ma si è ritenuto che potesse costituire un’opzione di second best accettabile.