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2.2 Il testo

2.2.5 La città e il jazz

Per molti aspetti Il mio cuore è nel Sud rimanda a modelli stilistici importati dagli Stati Uniti. Lo rivela lo stesso Patroni Griffi nelle note di presentazione stampate in occasione della prima esecuzione dal vivo (avvenuta a Milano il 25 novembre 1997):

«Era il tempo dei radiodrammi, storie cieche affidate alla parola e alla musica, giuste per il mezzo radiofonico, storie che non si sarebbero mai potute rappresentare visivamente, e il loro pregio, il loro punto di partenza dovevano essere questi. Non c’era la televisione e si cercava di dare vita ad una nuova forma espressiva […] Il paesaggio metropolitano buio e bagnato, dai colori notturni, era di moda (si faceva sentire l’influenza dei film americani di quegli anni), e quindi scrivere qualcosa di Napoli senza il folklore partenopeo, evitando la professione di napoletanità di cui, ancora oggi, tanto si abusa, fu un progetto che subito entusiasmò entrambi» [citato in Romito, 2000, p. 235]

La “moda” a cui fa riferimento Griffi è facilmente identificabile: negli anni del dopoguerra sugli schermi italiani si riversò un’impressionante quantità di pellicole americane e l’immagine evocata da Patroni Griffi rimanda all’iconografia tipica del film

noir, che, a fine anni Quaranta, era un genere assai in voga.113

L’ambientazione notturna, in un vicolo cittadino illuminato dalla luna, e la descrizione del quartiere umile in cui si svolge l’azione, rimandano ad un’immagine ricorrente nel cinema e nella narrativa americani; tuttavia l’assimilazione di tali modelli non si limita a questi aspetti di superficie.

Paolo Bosisio, nell’introduzione a Giuseppe Patroni Griffi: Tutto il teatro, suggerisce una possibile affinità con il testo teatrale Our town (Piccola città) di Thornton Wilder che, dopo la vittoria del Premio Pulitzer nel 1938, venne rappresentato con successo anche sui palcoscenici italiani [Bosisio, 1999, p. XXVI]. I due lavori hanno in comune il personaggio del Narratore e la dimensione corale del racconto: Our Town inizia infatti con la figura dello Stage Manager che invita lo spettatore ad osservare le vicende di una piccola comunità rurale. 114

Nonostante queste affinità, la dimensione urbana, così importante per Il mio

cuore è nel Sud, manca del tutto nel lavoro di Wilder. Inoltre lo sguardo di Patroni Griffi

si sofferma sulla città per coglierne i suoi aspetti più quotidiani e realistici: gli spazzini, i gatti randagi, i bambini di strada.

Più che il dramma di Wilder, la città di Il mio cuore è nel Sud sembra rimandare piuttosto ad un testo anteriore di Elmer Rice, Street Scene del 1929. Anche Street Scene vinse il Premio Pulitzer e nel 1931 ne fu realizzata una versione cinematografica diretta

113 Va tuttavia ricordato che, nella produzione cinematografica italiana di quegli anni, la presenza di stilemi noir era

più l’eccezione che la regola. Nel suo studio sul noir italiano, «un genere mai nato», Sudbury elenca solo queste pellicole come «film di derivazione noir» anteriori al 1950: Il bandito (1946) di Lattuada, Gioventù perduta (1947) di Pietro Germi, Riso amaro (1949) di Giuseppe de Santis e In nome della legge (1949) di Pietro Germi. [Sudbury, 1995, p. 274]

da King Vidor. Nel 1946 Kurt Weill riprese il testo di Rice per realizzare, dopo i suoi “musical” di successo, un’“opera americana”.

In una strada di un quartiere popolare di New York si incrociano le storie quotidiane e umili di una comunità multietnica, composta da emigranti di varie nazionalità. L’attenzione però si focalizza su un triangolo amoroso, in cui Anna, insoddisfatta della sua vita, tradisce il marito (un uomo di indole violenta) con un giovane amante. La scoperta dell’adulterio conduce ad una conclusione tragica (l’uccisione dei due amanti) che sconvolge la piccola comunità.

Sono molti gli aspetti di Street Scene che si ritrovano in Il mio cuore è nel Sud: la rappresentazione del proletariato urbano, il sovrapporsi di storie e personaggi, la gelosia che sfocia nell’omicidio. Come in Street Scene, anche nel radiodramma di Patroni Griffi la città è rappresentata attraverso il ciclo delle giornate ed entrambe le opere si aprono con l’immagine della città che si risveglia. Inoltre, anche in Street Scene la vita quotidiana della comunità urbana, povera, disordinata, ma con un proprio equilibrio, è resa attraverso dettagli realistici: i giochi semplici dei bambini, il passaggio dei venditori ambulanti e di chi lavora sulla strada, i gatti randagi. Un ultimo dato, non indifferente, riguarda la componente musicale: tanto nel film di Vidor, quanto nell’opera di Weill, l’idioma jazzistico riveste un ruolo privilegiato. Come si è già osservato nel paragrafo 1.2 (Il ruolo del jazz nella musica per il cinema) la colonna sonora di Alfred Newman per il film del 1931 si basa su un modello di derivazione gershwiniana: il jazz “sinfonico” che caratterizza le musiche di commento non rimanda necessariamente al mondo afroamericano, ma piuttosto vuole essere il simbolo di un melting pot autenticamente americano, che nei quartieri multietnici di New York trova la sua più chiara evidenza. In Street Scene il jazz non serve quindi a definire la città in termini minacciosi, violenti o degradati (come accade invece nel film noir) ma piuttosto evoca l’immagine della convivenza armoniosa e pittoresca tra gli abitanti dei quartieri più poveri di New York. Non a caso, infatti, nel film di Vidor, le influenze jazzistiche sono utilizzate soprattutto per rappresentare lo stato di quiete prima della svolta tragica del racconto, mentre scompaiono definitivamente dopo la scena dell’omicidio. Nella sequenza iniziale del film, ad esempio, Newman sceglie una lenta melodia di sapore blues per accompagnare i ritmi indolenti della città nella calura della sera estiva.115

La dimensione corale del contesto urbano che caratterizza Street Scene viene riproposta anche in altre pellicole, assumendo sfumature differenti a seconda del periodo. Nel 1937 Dead End ripropone un’ambientazione analoga, nell’East Side di New York, accentuando gli aspetti del degrado, come le bande di giovanissimi teppisti e la figura del gangster. Anche in questo caso la musica (sempre di Newman) rielabora gli elementi jazz in uno stile “sinfonico” di matrice gershwiniana per rappresentare la varietà umana del quartiere.116

Un modello cinematografico temporalmente più vicino al Il mio cuore è nel Sud è la pellicola The Naked City (1948) di Jules Dassin. Qui la rappresentazione della città valica l’ambito limitato di una strada o di un quartiere e, come spiega la voce narrante ad inizio film, si propone di rendere la moltitudine di un’intera metropoli con le sue «otto milioni di storie». L’inizio di The Naked City introduce elementi di novità rispetto ai due film precedenti e mostra invece diversi punti di contatto con la prima parte del

115 Una soluzione analoga si ritrova anche nel brano che apre l’opera di Weill (Introduction and opening ensemble), la

cui indicazione agogica (slow, dragging) rimanda, appunto, ad una danza lenta afroamericana.

radiodramma di Patroni Griffi. In Street Scene e Dead End la dimensione corale della città è resa con mezzi tipicamente teatrali e l’azione si svolge sempre in un ambito spaziale delimitato. The Naked City invece si apre con una serie di immagini notturne raccolte in luoghi e contesti totalmente differenti, per rappresentare la moltitudine di storie (dalle più ordinarie alle più tragiche) che si svolgono in ogni momento nella città di New York. L’accostamento di scene di lavoro quotidiano a immagini di efferati delitti avviene mentre il narratore commenta con distacco gli eventi. Il taglio espressionista delle inquadrature partecipa a definire la città secondo i criteri del film noir: non più l’ottimistico luogo del melting pot cosmopolita, ma «un luogo dello spirito, un teatro cupo entro il quale la solitaria parte del protagonista adombrerà quella di tutti» [La Polla, 2004, p. 86]. Come si è visto nel paragrafo 1.2, per evocare l’alienazione urbana, il disorientamento e il senso di minaccia che trapela dalle città del noir, l’elemento del jazz risulta fondamentale e la musica composta da Miklós Rózsa e Frank Skinner per

The Naked City, inserisce gli stilemi jazzistici in un contesto armonico assai poco

rassicurante. Ma anche altri dettagli di questo film rimandano a Il mio cuore è nel Sud: tra le immagini della sequenza iniziale, la cinepresa inquadra brevemente una donna che pulisce la strada nel cuore della notte, illuminata da un lampione e, in questa carrellata di lavoratori notturni, questo è l’unico personaggio di cui si sente la voce lamentarsi per il duro lavoro. Come nel radiodramma di Patroni Griffi, la figura dei netturbino ritorna più volte nel film, così come i gruppi di bambini irriverenti e «molesti».

L’influenza di Street scene e The Naked City sul lavoro di Patroni Griffi può essere però discussa solo in via ipotetica, perché non vi è nessuna prova che il drammaturgo avesse letto il testo teatrale (nel solo primo caso) o visto i film; è invece assai probabile che poco prima della stesura di Il mio cuore è nel Sud, Patroni Griffi abbia avuto la possibilità di conoscere da vicino un altro dramma teatrale, il cui ruolo nella storia del rapporto tra jazz e cinema divenne in seguito determinante: A Streetcar named Desire di Tennesee Williams, scritto nel 1947. 117

L’opera di Williams, infatti, prima di essere trasposta nella celebre versione cinematografica da Elia Kazan118, venne portata in Italia da Luchino Visconti, che la mise in scena dal 1949 dirigendo un cast di future star del cinema italiano.119 Per Patroni Griffi questi furono gli anni della formazione romana nella quale, per sua stessa ammissione, Luchino Visconti rivestì un ruolo fondamentale e che influenzarono fortemente la sua poetica e produzione. É quindi verosimile che Patroni Griffi abbia potuto conoscere il testo di A Streetcar named Desire e di seguire la direzione di Visconti.

Quello che colpisce, in effetti, è la coincidenza di “sentimento” in cui sono immerse la New Orleans di Williams e la ‘citta del Sud’ del drammaturgo italiano120; una città decadente, dolente e rassegnata, punteggiata dalle grida dei venditori, da

117 A Streetcar named Desire fu allestito per la prima volta a New York il 3 dicembre 1947, con la regia di Elia Kazan,

e interpretato da Marlon Brando (nella parte che sarà sua anche al cinema), Karl Malden e Kim Hunter.

118 Come si è visto al paragrafo 1.2, è il 1951 quando Elia Kazan porta sullo schermo il dramma di Tennessee

Williams e la musica di Alex North segna lo spartiacque per l’utilizzo del jazz in una colonna sonora come asse portante del commento musicale, e non solo per la connotazione di situazioni o personaggi specifici.

119 L’edizione viscontiana di Un tram che si chiama desiderio era interpretata da Vittorio Gassman, Marcello

Mastroianni, Vivi Gioi, Rina Morelli, con scene di Franco Zeffirelli.

120 Tra l’altro la New Orleans di A Streetcar named Desire è un luogo altrettando ‘favoloso’ e ‘mitico’ quanto la

‘generica’ città del sud di Patroni Griffi: Arthur Miller stesso, considerandola una debolezza, «ha rimproverato a Williams di non immergere i suoi personaggi in un concreto tessuto di circostanze storiche» [Guerrieri, 1963, p. 5].

personaggi reietti e dalla musica jazz che costantemente fa da contrappunto alle vicende e alla «calma disperazione» della povera gente.

La sceneggiatura di A Streetcar named Desire infatti prevede che gran parte delle scene si svolgano su un sottofondo musicale proveniente dalla strada. Come scrive Williams, l’abitato in cui è ambientata la storia «al contrario di analoghi quartieri di altre città americane, [ha] un suo fascino colorito», dove c’è sempre «un pianoforte che dita brune scorrono con soavità. Questo “Blue Piano” è l’espressione della vita che si svolge qui» [Williams, 1973, p. 11].

A questo punto appare chiaro come l’indicazione musicale espressa da Patroni Griffi nel progetto iniziale del radiodramma, l’utilizzo del jazz come riferimento stilistico predominante, rispondesse ad una tradizione narrativa consolidata nel teatro e nel cinema americano per rappresentare la dimensione urbana. Patroni Griffi è consapevole di dover evitare gli stereotipi folkloristici partenopei per rappresentare la “Città del Sud” e ricorre quindi al jazz (che in didascalia indica Blues) che ormai, nel 1949, viene concepito come patrimonio “universale” e non più associato alla cultura delle comunità urbane afroamericane. Il jazz però mantiene un legame con i ceti più poveri e marginali, il contesto sociale in cui si muovono i personaggi del radiodramma e, come si è visto nei film citati, si adattava bene a rendere musicalmente l’idea di una pluralità di storie concomitanti.

Nel progetto di Patroni Griffi la musica riferita alla città non avrebbe dovuto essere troppo connotata geograficamente o culturalmente. Nelle sue intenzioni, infatti, la storia si sarebbe dovuta svolgere in «una qualsiasi città del Sud» e la musica avrebbe dovuto contribuire a creare questa «atmosfera» ed «essere aldilà del folklore e del colore». Il problema non è banale e la scelta di orientare il commento musicale verso la rilettura della tradizione musicale afroamericana risponde in modo efficace ad alcuni precisi problemi drammaturgici.

Patroni Griffi infatti voleva evitare sia il racconto melodrammatico di un amore infranto, sia il resoconto di impronta neorealistica di una realtà locale determinata. Come in una ballata di tradizione popolare, la storia doveva invece svolgersi in un tempo e in uno spazio mitici, per essere «semplice e lineare ma incisiva»; allo stesso tempo però i personaggi dovevano appartenere ad una dimensione quotidiana, «banale, solita, […] di miseria».

Da una parte, quindi, la mancanza di un’ambientazione definita contribuisce a dare alla storia una dimensione simbolica, attraverso personaggi stilizzati. Dall’altra assume un ruolo fondamentale la connotazione sociale del contesto urbano e il copione si sofferma spesso sulle sue caratteristiche (la descrizione del degrado della città e dei lavori più umili). Date queste premesse, la sfida per il compositore consisteva nel rendere attraverso la musica un ambiente socialmente definito (la quotidianità della miseria in un quartiere degradato) senza ricorrere a stereotipi folkloristici; il commento sonoro doveva quindi muoversi in un ambito stilistico il più possibile spoglio di rimandi localistici.

Si tratta evidentemente di un paradosso interno alle convenzioni della musica da commento. Una consuetudine radicata nelle “colonne sonore” del cinema americano vuole che per rappresentare musicalmente l’evoluzione psicologica di un personaggio, senza aggiungere una connotazione geografico-culturale, si ricorra ad una musica

orientata stilisticamente sul periodo tardo-romantico.121 Una soluzione di questo tipo però avrebbe potuto stridere con le caratteristiche peculiari della città immaginata da Patroni Griffi: un luogo abitato da gente umile, reticolo di una moltitudine di storie, tutte egualmente «banali» e tragiche. Un commento musicale interamente basato sul linguaggio sinfonico tardo-romantico, troppo nobile nelle origini, non avrebbe reso appieno la dimensione popolare e reietta dell’ambientazione.

Patroni Griffi trovò una soluzione decisamente originale e decise di accompagnare il dramma con una musica che, seppur di reminescenza jazzistica, non fosse la semplice mimesi di uno stile preesistente. L’idea di utilizzare le sonorità della tradizione musicale afroamericana di per sé non deve sorprendere, soprattutto nel contesto dell’immediato dopoguerra; è il periodo in cui la musica americana irrompe nei costumi e nelle modalità d’intrattenimento italiani.

L’originalità non risiede quindi nel materiale di riferimento (il jazz), ma piuttosto nel modo in cui Patroni Griffi ne ha concepito l’uso all’interno del dramma, trovando in Maderna l’interlocutore ideale a tale scopo. Quest’intuizione rivela peraltro l’attenzione con cui l’autore seguiva le trasformazioni che stavano modificando in quegli anni la rappresentazione del jazz nell’immaginario filmico e narrativo d’oltreoceano.122

Nel progetto iniziale (riportato interamente al paragrafo 2.1) Patroni Griffi immagina «una piccola orchestra di strumenti jazzistici» perché la ritiene più adeguata per rendere musicalmente, con «voce disperata», i «sentimenti disperati che si agitano». L’importanza che egli attribuisce alla componente musicale afroamericana emerge anche dalla similitudine che egli utilizza per evocare il clima espressivo del racconto: per Patroni Griffi la storia doveva essere «semplice e lineare, ma incisiva come un canto negro d’amore che finisce con l’immancabile linciaggio».

Queste considerazioni, elaborate in una fase progettuale del lavoro, rimandano ad un modello retorico ricorrente nell’immaginario jazzistico: l’idea del canto blues solitario che nasce in un ambiente umile e degradato. Esso porta in sé un senso di dolore e fatalismo, due caratteristiche che permeano frequentemente la rappresentazione del popolo nero in America.

Come mostra ampiamente lo studio di Giorgio Rimondi sul rapporto tra jazz e letteratura in Italia, durante gli anni del regime fascista la musica afroamericana veniva descritta soprattutto in termini di frenesia e di modernità; le immagini evocate più di frequente erano quindi quella del nero dominato totalmente dal ritmo della danza e del caos della metropoli americana.123 Alcuni passi letterari riportati da Rimondi mostrano però come nella cultura italiana di quel periodo fosse presente, in misura minore, anche

121 Si vedano in proposito i principi espressi da Claudia Gorbman [1987] sulle funzioni narrative della musica

nelle colonne sonore del cinema hollywoodiano classico. Ad esempio nelle colonne sonore dei film noir degli anni Quaranta (argomento discusso ampiamente nel paragrafo 1.2) l’utilizzo del jazz come musica extradiegetica non è frequente e le partiture di Miklós Rózsa o di Max Steiner hanno invece come punto di riferimento stilistico il sinfonismo tardo romantico. Anche se, nel film noir, jazz ed ambiente urbano sono strettamente legati, l’inserimento di momenti jazzistici avviene prevalentemente attraverso espedienti narrativi che permettano l’inserimento di musica intradiegetica nella storia: ad esempio le scene che si svolgono in un nightclub o accanto ad un grammofono.

122 Come si è messo in evidenza nel paragrafo 1.2, solo nel 1951 (con A streetcar named Desire) ad Hollywood si

iniziano a produrre colonne sonore interamente orientate jazzisticamente. Il lavoro di Patroni Griffi e Maderna potrebbe, in questa prospettiva, essere visto come precursore di una tendenza in atto nel cinema americano.

l’immagine (per certi versi complementare alla precedente) del nero che, in solitudine, si abbandona ad un canto blues lento e straziante.124

Nel 1922 ad esempio Enrico Prampolini scriveva sul periodico «La Tribuna»: «il “blues” esprime una forma plebea dello “spleen”, una specie di tristezza […] il cui pathos non può essere dato che da un’anima di negro, colma di commozioni e sogni propri dell’infelice stirpe di Cam» [citato in Rimondi, 1999, p. 51]. Dieci anni più tardi lo scrittore Enrico Cavacchioli descriveva il jazz come una musica «che strazia il cuore […] come un’ombra in delirio», in grado di aprire «le cortine del desiderio e della nostalgia». [citato in Rimondi, 1999, p. 123]

Anche nelle didascalie di Patroni Griffi il riferimento alla tradizione del blues non richiama la forma standardizzata di canto neroamericano (la tradizionale struttura strofica su un giro armonico di dodici misure) ma piuttosto serve ad evocare una serie di rimandi simbolici, a definire il clima espressivo dominante.

Le due connotazioni prevalenti, la rappresentazione dell’ambiente urbano e il senso di spleen e di desiderio irrealizzabile, vengono quindi sintetizzate da Patroni Griffi nella didascalia che apre il testo del radiodramma: «Musica: Blues (Il tema della città)».