3. La riforma dell’ordinamento penitenziario come espressione dei principi costituzional
3.2. La codificazione dei diritti dei detenut
Come anticipato nelle considerazioni di apertura, il principio di umanizzazione della pena, unitamente al finalismo rieducativo, hanno fatto sì che il legislatore del ’75, in pieno accordo con il dettato costituzionale, riconoscesse ai soggetti sottoposti alla privazione della libertà personale una serie di diritti inviolabili, non suscettibili di compressione da parte dei pubblici poteri in ragione della loro inscindibile relazione con la tutela della dignità innata.
Tale scelta fu salutata con grande entusiasmo dai giudici della Consulta: il dettato costituzionale veniva finalmente tradotto in un intervento normativo estremamente coraggioso che poneva l’ordinamento italiano in linea con le richieste del diritto sovranazionale204. Da diversi anni, infatti, si invocavano - anche a livello internazionale - riforme di carattere strutturale in grado di apprestare effettiva tutela alla dignità dell’uomo in ogni sua manifestazione. In altri termini, si diffuse la convinzione che esistesse una categoria - i diritti umani - riconosciuti oltre il limite del “non intervento”, perché spettanti ad ogni individuo in quanto tale, indipendentemente dal suo status giuridico205.
I diritti inviolabili si ponevano, dunque, in una posizione antecedente rispetto al diritto positivo, configurandosi come un prius intangibile rispetto alle scelte politico-normative compiute dai pubblici poteri206.
In questo quadro storico-politico, la riforma del ’75 rappresenta un fondamentale traguardo nel riconoscimento dei diritti inviolabili anche a soggetti
204 Per una disamina sulla nascita e sulla tutela dei diritti umani a nel panorama sovranzionale Cfr.
C. PAONESSA, Gli obblighi di tutela penale. La discrezionalità legislativa nella cornice dei vincoli costituzionali e comunitari, Firenze, 2009, A. MARCHESI, Diritti umani e Nazioni Unite. Diritti,
obblighi e garanzie, Milano, 2007, V. ZAGREBELSKY, M. DE SALVIA, Diritti dell’uomo e libertà
fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia delle Comunità europee, Milano, 2006, C. CARDIA, Genesi dei diritti umani, Torino, 2005, p. 154, A. CASSASE, I diritti umani nel mondo, op.cit..
205 In questo senso P. M
IRABELLA, L’uomo e i suoi diritti. Una riflessione etica a partire dalla
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, Torino, 2009, p. 25 ss. 206 Sul tema si veda S. P
ETRINI, Lo stato delle carceri in Europa, nei rapporti del Comitato per la
sottoposti a restrizione della libertà personale; inizia cioè a diffondersi l’idea di una concreta tensione verso il rispetto della personalità e della dignità del condannato.
Tensione recepita dalla stessa Corte Costituzionale che, all’indomani della riforma penitenziaria sancisce solennemente come «è principio di civiltà giuridica
che al condannato sia riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive, e garantita quella parte di personalità umana, che la pena non intacca. Tale principio è accolto nel nostro ordinamento nell'art. 27, comma terzo, Cost. (…) ed è, allora, alla luce di questo precetto che (…) va considerato il trattamento del condannato»207.
La necessità di riconoscere un carattere imprescindibile alla tutela della dignità e della personalità del ristretto emerge in tutta la sua forza nella sentenza n. 349 del 1993 in cui la Corte, con una solenne affermazione di principio sancisce che «la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione
della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale». Ne discende una naturale conseguenza: «l'adozione di eventuali provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni, o che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado di privazione della libertà personale, può avvenire soltanto con le garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione». Ed è proprio all’interno del residuo di libertà che trova la sua
massima espressione il principio di umanizzazione, come fondamento costituzionale posto a tutela dei diritti inviolabili riconosciuti al cittadino dalla Costituzione, a prescindere dalle condotte poste in essere e dall’eventuale violazione dei precetti giuridici su cui lo Stato fonda la convivenza sociale.
I principi di cui al 3° comma dell’art. 27 Cost., infatti, «si traducono non
soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all'organizzazione e all'azione
delle istituzioni penitenziarie ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristretti»208. In questo senso, «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è
finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La portata costituzionale dell’umanizzazione delle
pene, unitamente al principio dell’inviolabilità dei diritti fa sì che «la dignità della
persona (...) anche in questo caso - anzi: soprattutto in questo caso,il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile - è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell'uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell'esecuzione penale».
Dall’analisi della giurisprudenza costituzionale in tema di diritti delle persone ristrette, può dirsi che l’esigenza di un sistema sanzionatorio coerente con il senso di umanità dovrebbe influenzare ogni aspetto del trattamento penitenziario. In altri termini, il richiamo al senso di umanità, quale canone minimo di salvaguardia dell’individuo nella fase esecutiva, esprime l’intento normativo di porre la persona ristretta al centro del sistema: ne discende l’impossibilità di utilizzare strumenti coercitivi per finalità trattamentali209
. Il riconoscimento dei diritti inviolabili (art. 2 Cost.), della dignità umana (art. 3 Cost) e dell’inviolabilità della libertà personale (art. 13, comma 1) costituiscono, dunque, presupposto costituzionale per la garanzia dell’umanità delle pene, così da
208 Corte Cost. sent. n. 26/1999. In considerazione della grande rilevanza assunta da tale pronuncia
all’interno delle riflessioni circa la compatibilità della normativa penitenziaria con i principi di umanità e risocializzazione essa verrà più volte richiamata nel corso della trattazione, quasi fosse la necessaria “lente costituzionale” dell’indagine. Si veda a questo proposito: Corte Cost., sent. 11 febbraio 1999 n. 26, in Giur. cost., 1999, p. 176, con note critiche di S. BARTOLE, I requisiti dei
procedimenti giurisdizionali e il loro utilizzo nella giurisprudenza costituzionale; E. FAZZIOLI,
Diritti dei detenuti e tutela giurisdizionale; M. RUOTOLO, La tutela dei diritti del detenuto tra
incostituzionalità per omissione e discrezionalità del legislatore; C. SANTORIELLO, Quale tutela
giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria?. 209 V. G
REVI, Art. 1, in V. GREVI, G. GIOSTRA, F. DELLA CASA, Ordinamento penitenziario, op. cit., p. 10.
ergere a principio fondamentale dell’ordinamento la statuizione secondo cui la risposta punitiva dello Stato dinnanzi alla violazione delle proprie norme non può
“consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.
Poste in questi termini le premesse dell’indagine, occorre riportare l’analisi nella giusta prospettiva.
A fronte di una giurisprudenza costituzionale che ha offerto importanti occasioni per ripensare a un sistema di esecuzione penale in grado di apprestare effettiva tutela sia ai diritti positivamente riconosciuti (ma sostanzialmente negati), sia ai diritti normativamente ignorati (ma espressione del dettato costituzionale), la storia penitenziaria si caratterizza per la presenza di un legislatore assente e silente. È un quadro in cui le forze parlamentari scelgono consapevolmente di nascondersi dietro situazioni di emergenza economica e sociale, nel quale le priorità dell’agenda politica sembrano concentrarsi altrove lasciando in secondo piano la dimensione dei diritti soggettivi.
Di fronte a questo costante atteggiamento istituzionale è stata la giurisprudenza costituzionale che, in più occasioni e con scelte coraggiose, ha agito sulla normativa penitenziaria modellandola in senso conforme ai principi di umanità e rieducazione. Il consolidarsi di questa prassi, tuttavia, crea una dinamica patologica tra forze politiche e giudici costituzionali che imporrebbe una netta inversione di tendenza attraverso la riattribuzione alla Consulta - e al Parlamento - del ruolo costituzionalmente loro attribuito. Un ruolo in cui spetta alla giurisprudenza costituzionale valutare la conformità delle leggi - e degli atti aventi forza di legge - al dettato costituzionale e al Parlamento, il dovere di agire sul quadro normativo adeguandolo - nel minor tempo possibile - alle decisioni della Consulta.
Presa di coscienza, questa, che assume le vesti di “presupposto necessario” affinché il legislatore abbandoni definitivamente le logiche emergenziali e securitarie in favore di interventi strutturali e sistematici, in grado di conformare l’esecuzione penale al dettato costituzionale, proseguire sulla strada aperta dalla riforma del ‘75 e far emergere i diritti sommersi.
Muovere in questa direzione - è bene ribadirlo - non sarebbe una scelta auspicabile, ma un obbligo costituzionalmente imposto.
4. Consulta e custodia cautelare: la duplice forza delle pronunce