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La finalità rieducativa come una delle qualità essenziali della pena

2. Funzioni della pena e principio di umanizzazione nella giurisprudenza costituzionale

2.2. La finalità rieducativa come una delle qualità essenziali della pena

La visione eclettica e polifunzionale della sanzione criminale, fu progressivamente superata dalla stessa giurisprudenza costituzionale all’inizio degli anni ’90 con l’adozione di un modello c.d. associativo-dialettico175. Si tratta di una concezione caratterizzata, quanto all’orientamento culturale di fondo, dalla netta prevalenza attribuita alla funzione di prevenzione - generale e speciale - della pena: la tendenza retributiva finiva così per perdere il suo ruolo autonomo, riducendosi a mera esigenza di proporzione tra sanzione da irrogare e grado di colpevolezza. Le funzioni della pena, allora, lungi dal porsi in un rapporto paritario, tendevano a instaurare una relazione gerarchica o di preminenza, in relazione alle diverse fasi della vicenda punitiva.

Fondamentale tassello nel percorso evolutivo della giurisprudenza costituzionale - in evidente posizione antitetica rispetto alla funzione tradizionalmente attribuita alla pena in quegli anni - è rappresentato dalla sentenza n. 204 del 1974. Tale pronuncia ha infatti posto le basi per l’affermazione di un vero diritto alla rieducazione attraverso un “programma di trattamento” che

173 G. F

IANDACA, Scopi della pena, op. cit., p. 134.

174

A sostegno della limitazione del finalismo rieducativo alla sola fase dell’esecuzione penale si vedano anche Corte Cost. sentt. n. 21 del 1971, n. 167 del 1973, n. 143 del 1974, n. 119 del 1975, n. 25 del 1979, n. 104 del 1982, n. 137 del 1983, n. 237 del 1984, n. 23, 102 e 169 del 1985 e n. 1023 del 1988.

Per un approfondimento della giurisprudenza costituzionale di questo periodo si veda E. R. BELFIORE, Profili della funzione rieducativa della pena nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1999, p. 34 ss.

175 G. F

trova il suo fondamento legislativo nell’art. 13, comma 3° dell’Ordinamento penitenziario176.

In particolare la Corte, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 43 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale che attribuiva al Ministro della Giustizia la facoltà di concedere la liberazione condizionale177, chiarisce la portata del principio rieducativo: «Il recupero sociale del condannato è fine ultimo

e risolutivo della pena», in questo senso il reo acquista un diritto soggettivo alla

rieducazione, o meglio: «il diritto per il condannato a che (…) il protrarsi della

realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo».

Nella stessa sentenza, la rieducazione cessa di essere relegata nell’angusto ambito del trattamento penitenziario per divenire valore generale dell’ordinamento che si affianca, completandolo, al principio di umanità delle pene. In tal senso, con riferimento all’istituto della liberazione condizionale, la Corte chiarisce che «il suo

ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle». Evidente come alla base

della pronuncia risieda la convinzione che solo la realizzazione dei principi costituzionali, considerati come un insieme inscindibile di valori etici e giuridici, possa costituire il presupposto logico-giuridico di un effettivo recupero del condannato funzionalmente volto al suo reinserimento nel consorzio sociale nel senso voluto dal costituente178.

176 M. R

UOTOLO, Il principio di umanizzazione della pena, op.cit., p. 8.

177 Come anticipato nel primo capitolo, la liberazione condizionale rappresenta un particolare

aspetto della fase esecutiva della pena detentiva inserendosi nel fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato. Tale istituto, infatti, consente al reo che abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento e che abbia soddisfatto, avendone la capacità economica, le obbligazioni civili derivanti dal commesso reato, di essere messo in libertà prima del termine previsto dalla sentenza definitiva di condanna, previa imposizione, da parte del giudice di sorveglianza, di prescrizioni idonee ad evitare la commissione di nuovi reati (artt. 228, secondo comma, e 230, primo comma, n. 2, del codice penale).

178 P. A

Una svolta decisiva nel superamento della concezione polifunzionale della pena si ebbe tuttavia, solo con la sentenza n. 364 del 1988, pietra miliare nella valorizzazione della funzione rieducativa spesso disconosciuta a favore della successiva, e ben più nota, sentenza n. 313 del 1990179.

La portata della pronuncia va ben al di là del giudizio di legittimità sottoposto all’attenzione della Corte180: per la prima volta infatti, la funzione rieducativa viene espressamente svincolata dalla fase meramente esecutiva181.

L’argomentazione della Corte, basata sulla lettura combinata del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost., consente di individuare «i requisiti minimi che il

reato deve possedere perché abbiano significato gli scopi di politica criminale enunciati, particolarmente, nel terzo comma”: infatti “non può ammettersi che nel nostro ordinamento alla pena venga assegnata esclusivamente una funzione deterrente»182. Il teleologismo rieducativo diventa così un attributo che qualifica l’illecito penale ai sensi degli scopi di politica criminale: questa asserzione investe l’intera struttura del reato, non potendosi circoscrivere alla mera fase dell’esecuzione della sanzione comminata183

.

179

In questo senso E.R.BELFIORE, op cit., p. 43. 180 G. F

IANDACA, Principi di colpevolezza e ignoranza scusabile della legge penale - “prima

lettura” della sentenza n. 364 del 88, in Foro italiano, I, 1988, p. 1385 ss. 181

La norma oggetto del giudizio è l’art. 5 del codice penale, del quale viene dichiarata l’illegittimità costituzionale, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.

182 Corte Cost. 24 marzo 1988, n. 364. 183 In questo senso E.R.B

ELFIORE, op. cit., p. 45. I giudici della Consulta si soffermano, inoltre, sul principio di colpevolezza e sul suo collegamento con il finalismo rieducativo: nel caso di “ignoranza inevitabile” la sanzione non può esplicare alcuna funzione rieducativa poiché il soggetto, non trovandosi “in colpa” al momento della commissione del fatto di reato, non necessita del percorso rieducativo. Solo in presenza di questi requisiti la responsabilità penale può considerarsi personale (art. 27, comma 1, Cost.), in questo senso «comunque si intenda la funzione

rieducativa» di cui al terzo comma dell’art. 27 Cost., «essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significatavi della fattispecie tipica». La Corte individua, quindi, nella

“colpa” uno dei presupposti indefettibili per l’applicazione della sanzione in assenza della quale nessuna funzione rieducativa può dirsi legittima. In questo modo, si anticipa la rilevanza della

È l’inizio di un processo evolutivo teso alla massima valorizzazione del finalismo rieducativo, che trova la sua espressione più nitida nella sentenza n. 313 del 1990 avente ad oggetto l’illegittimità costituzionale dell’art. 444 c.p.p., comma 2, nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27, comma 3, Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti rigettando la richiesta in ipotesi di giudizio negativo184.

La pronuncia risulta caratterizzata da un complesso iter logico- argomentativo. L’art. 27, comma 3, Cost. imporrebbe al giudice di «valutare

l'osservanza del principio di proporzione fra quantitas della pena e gravità dell'offesa, e quindi il concreto valore rieducativo della pena in relazione alla sua pregnante finalità». La Corte ritiene allora necessario ripercorrere in chiave critica

la propria giurisprudenza solo in nuce richiamata nella motivazione della sentenza n. 364 del 1988.

Come emerso nelle pagine precedenti, fino ad allora era stato ritenuto che «il

finalismo rieducativo (…) riguardasse il trattamento penitenziario che concreta l’esecuzione della pena, e ad esso fosse perciò limitato. A tale risultato si era pervenuto valutando separatamente il valore del momento umanitario rispetto a quello rieducativo, e deducendo dal principio di umanizzazione la conferma del carattere afflittivo e retributivo della pena». La rieducazione, al contrario, non

può essere ridotta «entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario», ma si afferma come valore generale della sanzione criminale posto in relazione di necessaria interdipendenza con il momento umanitario. In questo inscindibile rapporto «il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale

tanto per il legislatore quanto per i giudici di cognizione, oltre che per quelli

rieducazione ad un momento precedente all’esecuzione della pena, ovvero alla fase dell’irrogazione della condanna da parte dell’Autorità Giudiziaria.

184 In particolare, l’art. 444, comma 2, c.p.p., nella versione precedente alla L. 16 dicembre 1999,

n. 479 che ha adeguato il disposto alla pronuncia di incostituzionalità, disponeva che “Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell’art. 129, il giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica del fatto, l’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, ne dispone con sentenza l’applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti”.

dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie».

Questo uno degli aspetti più innovativi della pronuncia: il finalismo rieducativo deve necessariamente orientare sia la determinazione della pena ad opera del giudice sia, in un momento precedente, le scelte del legislatore in favore di politiche criminali che, attraverso condotte positive possano concretamente favorire il reinserimento sociale del condannato. In tal senso, la sentenza n. 313 del ’90 ha rappresentato una significativa svolta di principio185

.

Superata l’impostazione teorico-giuridica posta a fondamento della precedente giurisprudenza costituzionale, la Corte prosegue nell’opera di valorizzazione dell’ideale rieducativo. Il carattere di afflizione, difesa sociale e prevenzione generale - pur essendo insito nel concetto stesso di sanzione - è solo condizione minima che descrive la pena non potendo, in nessun caso, autorizzare «il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla

Costituzione». È questa la condizione essenziale per la formazione di uno Stato di

diritto che appresti adeguata ed effettiva tutela ai diritti delle persone private della libertà personale; se così non fosse «si correrebbe il rischio di strumentalizzare

l’individuo per fini generali di politica criminale (…) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (…), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione».

Poste le necessarie premesse per una corretta interpretazione del dettato costituzionale, la Corte chiarisce, infine, la reale portata del verbo “tendere” contenuto nel terzo comma dell’art. 27 Cost. ponendolo in relazione all’essenza dell’ideale rieducativo: «la necessità costituzionale che la pena debba ‘tendere’ a

rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue». La Corte conclude tale

passaggio asserendo che, se la funzione rieducativa venisse limitata alla sola fase

185 D. P

ULITANÒ, Diritto penale, Torino, 2007, p. 173. A tal proposito Cfr. E. GALLO, L’evoluzione

del pensiero della Corte costituzionale in tema di funzione della pena, in Giur. Cost., 1994, p.

esecutiva, essa rischierebbe una grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto. Il terzo comma dell’art. 27, invece, «vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre

che per quelli dell'esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie».

L’affermazione si pone in evidente connessione con la volontà della Corte di non circoscrivere la rieducazione alla sola fase dell’esecuzione penale al fine di evitare rischiose involuzioni neoretributive186, ed appare mossa dalla volontà di attribuire a tale principio quella portata di valore generale appartenente all’intero «patrimonio della cultura giuridica europea»187188.

186

E. DOLCINI, Rieducazione del condannato e rischi di involuzioni neoretributive: ovvero, della

lungimiranza del costituente, in Rass. pen. e criminol., 2005, 69, p. 70.

187 In questo senso, il valore del finalismo rieducativo è particolarmente importante «per il suo collegamento con il ‘principio di proporzione’ fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall'altra». Tale affermazione ha aperto la strada a un’ulteriore evoluzione della

giurisprudenza costituzionale segnata, in particolare, dalla sentenza n. 341 del 1994, in tema di sanzione minima dell’oltraggio, ove più netta appare la connessione tra finalità rieducativa e proporzionalità tra fatto e reato. In tale sentenza, la Corte Costituzionale dichiarò l’l’illegittimità dell’art. 341, comma 1, c.p. (“oltraggio a pubblico ufficiale”) nella parte in cui prevede come minimo edittale la reclusione a sei mesi, per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.. Il trattamento punitivo deve essere proporzionato al fatto commesso, non solo in concreto, in sede di commisurazione della pena, ma anche sul piano della determinazione edittale della sanzione «la

previsione di sei mesi di reclusione come minimo della pena e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni non è consona alla tradizione liberale italiana né a quella europea. Questo unicum, generato dal codice penale del 1930, appare piuttosto come il prodotto della concezione autoritaria e sacrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadini tipica di quell'epoca storica e discendente dalla matrice ideologica allora dominante, concezione che è estranea alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana, per la quale il rapporto tra amministrazione e società non è un rapporto di imperio, ma un rapporto strumentale alla cura degli interessi di quest'ultima».

188 Per approfondire gli effetti della sentenza n. 313 del 1990 in relazione alla disciplina

processuale e, in particolare, in materia dei riti alternativi si veda G. FIANDACA, Pena “patteggiata” e principio rieducativo: un arduo compromesso tra logica di parte e controllo giudiziale, in Foro.it, 1990, I, p. 2392.

Per completezza d’analisi, occorre da ultimo richiamare una recente sentenza della giurisprudenza costituzionale che, a quasi vent’anni dalla pronuncia del ‘90, conferma la necessità di mantenere l’ideale special-preventivo oltre la fase dell’esecuzione penale.

Ci si riferisce alla sentenza n. 129 del 2008, rilevante sotto un duplice profilo: da un lato, i giudici costituzionali chiariscono come la funzione rieducativa debba necessariamente leggersi in un rapporto di netta scissione rispetto alle norme del giusto processo; se così non fosse «si assisterebbe ad una

paradossale eterogenesi di fini, che vanificherebbe (…) la presunzione di non colpevolezza» essendo «‘giusto processo’ e ‘giusta pena’ termini di un binomio non confondibili tra loro”. Dall’altro, la Consulta ribadisce come «la necessità che la pena debba “tendere” a rieducare (…), indica una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico” il principio

contenuto nel 3 comma dell’art. 27, dunque, «lungi dal rappresentare una mera

generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena».

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