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La collaborazione delle aziende nella definizione dei programmi accademici »

Nel rapporto tra università e mondo del lavoro le aziende vivono stori- camente il problema della distanza tra programmi accademici e formazione ‘applicativa’, più orientata all’attività lavorativa (tanto che è frequente l’affer- mazione “i laureati hanno una buona formazione teorica ma non conoscono niente di operativo”). La situazione non è mutata dopo la riforma dei percorsi universitari (cosiddetto 3 + 2), che in molti casi ha deluso le aspettative azien- dali con programmi considerati generalisti anche per la Laurea Specialistica.

Una recente indagine svolta in collaborazione con il Gruppo Regionale To- scana di AIDP4 – pur focalizzata sulle soft skills ricercate nei giovani laureati – è

stata l’occasione per condividere con alcuni Direttori Risorse Umane anche le aspettative in termini di conoscenze.

Il disagio che emerge in tal senso è quello di inserire neolaureati con otti- ma formazione di base ma competenze specifiche ritenute non adeguate5. Gli

HR Manager interpellati hanno dichiarato di essere costretti ad utilizzare una fase iniziale (sia in forma di stage/tirocinio che come primo periodo di lavoro effettivo) per dare ai giovani inseriti una prima ‘infarinatura’ di know-how ope- rativo che si aspetterebbero fornito già dal percorso di studi.

Una primissima riflessione evidenzia che il fenomeno è sentito così marca- tamente in Italia anche a causa delle caratteristiche organizzative delle aziende: dimensione media ridotta, mancanza di strutture organizzative e procedure consolidate, scarsa abitudine ad inserire figure junior (e conseguente mancanza di un processo di induction).

Tale problematica si riduce nelle grandi aziende, abituate a fare incetta di ‘talenti’ che vengono inseriti in un processo interno di formazione e sviluppo.

4 “Le soft skills dei neolaureati all’ingresso nel mondo del lavoro”. Survey condotta in collaborazione

con il Gruppo AIDP Toscana – Associazione Italiana per la Direzione del Personale – nel maggio del 2015, con la raccolta di 86 questionari compilati da direttori del personale di aziende toscane.

5 A fronte di tale critica diffusa occorre però evidenziare punti di vista diversi, se non opposti, secondo

i quali i percorsi di studio più specialistici agevolino il placement iniziale ma siano meno competitivi nel lungo periodo (soprattutto in un’epoca nella quale non conosciamo ancora ‘le professioni di do- mani’ e in cui l’evoluzione è rapidissima). Cfr. Ferrante F. 2016, Ma l’università non deve insegnare

Ciò spiega il motivo per cui i paesi caratterizzati da dimensioni aziendali mag- giori sentano meno questa difficoltà.

Con questa importante premessa, l’opinione diffusa sul ‘non allineamento’ tra le esigenze operative e ciò che gli studenti realmente studiano è partico- larmente consolidata ed è una delle cause della ‘diffidenza’ delle aziende nei confronti dei neolaureati6.

Prova evidente di tale percezione è data dal diverso interesse che le azien- de manifestano nei confronti di giovani con esperienze anche molto brevi (ad- dirittura semplicemente di stage) rispetto a quello che hanno verso neolaureati (evidentemente non sempre giustificato da soli sei mesi di esperienza).

Una soluzione individuata in alcuni dei dialoghi sopracitati con le direzioni del personale è l’attivazione di una collaborazione con gli atenei nella defini- zione dei programmi dei singoli corsi e nella progettazione degli interi corsi di laurea. Le conseguenze positive attese delle aziende sono principalmente:

1) l’orientamento più pratico dei corsi di studio; 2) il loro costante aggiornamento;

3) il collegamento diretto ad esigenze che sono quelle specifiche del mer- cato di riferimento.

Nello specifico – per quanto attiene il punto 1 – è facile immaginare come un referente aziendale (o meglio un panel che ne unisca più di uno) che si tro- vino a partecipare ad un comitato scientifico che definisce corsi di laurea e/o singoli corsi tenderà a privilegiare tematiche concrete, esercitazioni, analisi di

case history, testimonianze aziendali.

Il timore spesso manifestato dal mondo universitario (talvolta dagli studen- ti più ancora che dal corpo docente) è quello di ‘piegare’ l’interesse generale e la formazione in senso lato ad un interesse specifico del mondo produttivo.

È chiaro però che tale rischio sarebbe attenuato dall’introduzione graduale di tale partnership atenei-aziende; altro elemento di mediazione è legato alla collaborazione non con un ‘main sponsor’ ma con un panel allargato e/o con un organo di rappresentanza (ad esempio il sistema confindustriale) che po- trebbe garantire il riferirsi ad interessi non troppo ‘particolari’.

Per quanto riguarda l’aggiornamento dei corsi universitari, è altrettanto evidente che un sistema dinamico di relazioni tra università ed aziende potreb- be spostare continuamente ‘la frontiera’ dell’insegnamento, adattandola ai temi più ‘caldi’ o addirittura a quelli individuati per il futuro7.

6 Tale diffidenza trova immediato riscontro nelle statistiche riguardanti il tempo impiegato nella transi-

zione dallo studio al lavoro dai giovani italiani. Cfr. Pastore, F. (2015). Dalla scuola al lavoro: il tempo

perso dai giovani italiani, www.lavoce.info, 31.07.2015.

7 Naturalmente gli scambi con il mondo delle aziende potrebbero a tale scopo essere integrati da ri-

cerche su base più ampia. Sarebbe ad esempio interessante conoscere che i drivers del cambiamento ritenuti più significativi per la vita lavorativa nel 2020 (ricerca Infosys 2016, basata su 8.700 interviste) sono “Mobile internet and cloud computing” 34%, “Artificial intelligence and machine learning” 33%, “The rise of big data” 28%, “The internet of things” 27%, ecc..

Da questo punto di vista l’obiezione talvolta posta (“programmi continua- mente tarati sulle esigenze del momento risultano a maggior rischio obsole- scenza di quelli più tradizionali”) trova risposta nel ricordare che la funzione dell’Università non è semplicemente quella di trasferire nozioni, conoscenze, ecc. bensì quella di insegnare ‘a studiare e ad imparare’.

Un punto potenzialmente critico del rapporto tra aziende ed università nella progettazione dei programmi di studio è infine quello dell’adeguatezza rispetto al contesto di riferimento: in altre parole la definizione di programmi di studio di un ateneo che siano strettamente coerenti con quanto richiesto dal ‘mercato’ cui tale università si rivolge primariamente.

È chiaro che – come in ogni decisione strategica – possono essere indivi- duati pro e contro di tale scelta; un punto potenzialmente negativo è il rischio di tarare ad esempio il percorso accademico di un ingegnere fiorentino sulle sole esigenze delle aziende presenti in Toscana (magari in particolare di quelle di media dimensione). Due esempi per tutti: probabilmente Ingegneria potreb- be in tal modo strutturare un percorso particolarmente orientato alle produ- zioni di pelletteria a Firenze (per la vicinanza con il distretto di Scandicci) o all’industria cartaria a Pisa (rivolgendosi al polo di Lucca).

Ovviamente una decisione del genere potrebbe risultare ‘provinciale’ e te- oricamente limitare le possibilità dei neolaureati, ma è possibile evidenziare almeno due considerazioni che possono attenuare tale obiezione:

• innanzitutto l’orientamento dei programmi non impedirebbe il persegui- mento personale di obiettivi diversi (l’ingegnere fiorentino di cui sopra potrebbe dunque puntare comunque alla Silicon Valley o all’industria Aerospace di Seattle);

• in secondo luogo vale quanto precedentemente indicato come finalità degli studi universitari (non semplicemente trasferire nozioni, conoscenze, ecc. bensì insegnare ‘a studiare e ad imparare’).

Altro punto da evidenziare è che il contesto di riferimento dovrebbe essere strategicamente definito in funzione degli obiettivi dell’ateneo (o della facoltà) e della propria capacità di attrarre studenti su base regionale, nazionale o internazio- nale (appare fisiologico che la focalizzazione sia minore a Cambridge o ad Oxford rispetto a quanto accade in una piccola università di provincia; o quanto meno che facoltà di rilievo internazionale abbiano un più ampio spettro di specializzazioni).

Sempre in relazione all’obiettivo cui i corsi di studio mirano, vale infine la pena di sottolineare che – in mancanza di scelte strategiche o di espliciti accor- di in tal senso – il rischio che un indirizzo venga comunque definito ‘implicita- mente’ è sempre esistente, magari in relazione ad elementi casuali (ad esempio le competenze o le attività parallele di parte dei docenti) e non all’interesse individuato da appositi organi. Si rilevano con una certa frequenza ad esempio facoltà di Medicina nelle quali alcune specializzazioni vengano considerate più ‘forti’ di altre, oppure facoltà di Economia che mirino la preparazione degli stu- denti più verso la libera professione che verso l’inserimento in azienda.

Tra le possibili conseguenze positive correlate ad una collaborazione uni- versità-imprese nella fase progettuale, occorre tra l’altro evidenziare che ciò fa-

ciliterebbe anche ogni altro tipo di relazione (e in particolare la partecipazione degli studenti ai progetti operativi delle aziende).

Infine, ricordando anche gli aspetti ‘psicologici’ che spesso influiscono sul- le scelte aziendali, la collaborazione attiva nella progettazione didattica ridur- rebbe significativamente la sensazione ‘di distanza’ che talvolta frena le scelte di assunzione.