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Come si spiegano i singoli limiti all’abbigliamento?

Ma andiamo in primo luogo ai contenuti delle disposizioni suntuarie degli statuti forlivesi emanati negli anni tra il ʼ59 e il ʼ73 del 1300. Il capitolo ‘De ornamentis mulierum’10 impone alle donne abiti «curta et proporcionata»11. Si vieta alle dominae et mulieres della città e del terri-

9 Cfr. N. DENHOLM-YOUNG, H. KANTOROWICZ, De ornatu mulierum. A Consilium

of Antonius de Rosellis with an Introduction on Fifteenth Century Sumptuary Legisla- tion, estratto da La Bibliofilia, 35 (1933), p. 22, poi in H. COING, G. IMMEL

(Hrsgg. von), Rechtshistorische Schriften, Karlsruhe, 1970 (Freiburger Rechts - Und Staatswissenschaftliche Abhandlungen, 30), p. 363. Nello stesso senso M.G. MUZZA-

RELLI, Gli inganni delle apparenze, cit., pp. 116, 135.

10 Per lo studio della legislazione suntuaria presente nello statuto forlivese ho prov- veduto ad aggiornare l’edizione dei primi del 1900 tutt’ora in circolazione. Ho tenuto per base il manoscritto di Roma, Biblioteca dell’Archivio di Stato, cod. 378, ff. 134r- 136v, testimone «con ogni probabilità della più ant. copia superstite della statuizione del 1359, composta nei tempi immediatamente successivi a questa data» (cfr. A. VASI-

NA, Repertorio degli statuti comunali, p. 165). Ho collazionato questo manoscritto con l’ed. RINALDI e con gli ulteriori codici segnalati dal Vasina, sconosciuti ai tempi del- l’ed. RINALDI: Roma, Biblioteca del Senato, cod. 535, «da ritenersi in un rapporto assai stretto coll’or. perduto» (cfr. A. VASINA, Repertorio degli statuti comunali, p. 168) e Roma, Archivio di Stato, cod. 666, «copia tardo trecentesca» (cfr. ibid., p. 166). La recente edizione critica delle norme suntuarie forlivesi presentata da E. TOSI BRANDI, in M.G. MUZZARELLI (a cura di), La legislazione suntuaria, cit., pp. 323-328 riproduce l’ed. RINALDI.

11 Il significato del termine «proporcionata» si evince dal passaggio successivo in cui si dice che la lunghezza dell’abito dovrà essere tale da consentire di guastare la piega in fondo alla gonna (basta) per allungare l’abito nel rispetto delle regole. Perciò si

torio forlivese12, senza distinzione di sorta – elemento, questo, da con- siderare fondamentale se comparato con la disciplina della successiva età rinascimentale, caratterizzata dalla differenziazione dei limiti sun- tuari a seconda della condizione sociale – si vieta di indossare mantello, guarnacca, guarnazzone e abiti lunghi e con strascico, addirittura si dà specificazione nelle minuzie: questi indumenti potranno arrivare al più fino a due dita da terra, sia davanti sia dietro. Eventuali balze dovranno

sarebbe dovuto calcolare il rapporto (proporcione) tra la lunghezza dell’abito e l’altezza dell’orlo. Per la traduzione del termine «basta» con piega cfr. C.E. FERRARI, Vocabola-

rio bolognese-italiano, Bologna, 18533, p. 114b). Il testo prosegue con una locuzione che si legge chiaramente nel manoscritto di Roma, Archivio di Stato, cod. 378. Il pas- saggio (f. 134v) così recita: «…que fieri debeat ad modum et formam iuste et non alsadure». Il termine ‘alsadure’ non sembra da intendere come declinazione al plurale del lemma ‘alsadura’ che significa «radore. Segni del panno per cui apparisce meno fitto, a cagione di essersi frusto in qualche luogo» (cfr. C. GORONEDI BERTI, s.v. Alsadura, in Vocabolario bolognese italiano, I, Bologna, 1874), giacché questa accezione risulta non congruente con il contesto. Appare più appropriato intendere l’espressione ‘non alsadure’ come riferita al divieto di confezionare abiti con strascico per ottenere l’effetto di allungare – cioè alzare, da cui ‘alsadure’ – la figura. Ciò sareb- be una specificazione del precedente ‘iuste’ che indica la misura dell’abito adatta all’al- tezza della persona. Il medesimo passaggio si legge anche nel manoscritto di Roma, Archivio di Stato, cod. 666, f. 120v. Diversamente, il testo tradito nel manoscritto di Roma, Biblioteca del Senato, cod. 535, f. 2115r, recita «iuste et non alesandrine». L’espressione ‘alesandrine’ – in inchiostro più scuro e in sostituzione di una precedente parola cancellata (alsadure?) – sta ad indicare un particolare tipo di colore, diffuso nel secolo XIII: «colori in uso sono (…) l’alessandrino secondo alcuni azzurro screziato d’oro, secondo altri a riflessi violacei» cfr. R. LEVI PISETZKI, Storia del costume in Ita-

lia, I, Milano, 1964, p. 237. Il divieto delle ‘vesti alesandrine’ sarebbe dunque con-

gruente con il divieto di usare il color oro. Il colore delle vesti ha sempre avuto nella storia ‘funzioni’ dal punto di vista giuridico, politico, sociale. Sul punto torna recente- mente J.-P. ANDRIEUX, Le couleurs du droit (II/II). Notes de lectures, in Revue histo-

rique de droit français et étranger, 96 fasc. 3 (2018), pp. 447-478 (ivi bibl.).

12 Il testo statutario è destinato alle donne della civitas e del districtus Forlivii. Ciò evidenzia che, poiché l’argomento suntuario riguarda i cives, il concetto qui accolto è quello di città intesa non come luogo, ma come populus. Dunque essa si estende oltre la cinta muraria. Su questo concetto di città, messo a punto nella dottrina di Bartolo, cfr. D. QUAGLIONI, «Civitas»: Appunti per una riflessione sull’idea di città nel pensiero

politico dei giuristi medievali, in V. CONTI (a cura di), Le ideologie della città europea.

Dall’Umanesimo al Romanticismo, Firenze, 1993 (Il pensiero politico. Biblioteca, 20),

distare da terra almeno quattro dita in modo che, se sarà necessario gua- starle per allungare l’abito, questo comunque non toccherà terra. Inol- tre, non si potranno indossare ornamenti di perle, di oro, di argento, né si potranno portare sul capo o in vita coroncine e ghirlande che superi- no il valore di dieci lire ravennati. Bottoni e fibbie sono limitati nel numero e nel peso.

La specificità di queste disposizioni denuncia una presa di posizione da parte dei reggitori del Comune contro gli eccessi. Quale ne sia peral- tro la natura – se cioè esse abbiano origine nell’ambito di questioni economiche, politiche, giuridico-amministrative e molto altro ancora – può essere spiegato soltanto alla luce delle considerazioni messe a pun- to nelle pagine che precedono. In realtà, la lunga tradizione religiosa – che, fin dal Tardo Antico, aveva contribuito alla costruzione da un lato dell’idea del bonum della moderazione nei costumi, e dall’altro del

bonus rex, cui spetta il compito di impedire le situazioni peccaminose

all’interno della civitas – si deve pensare sia la madre dell’intero spirito politico-giuridico con cui i Comuni, tra cui quello forlivese, si mettono sulla strada della legislazione suntuaria. Ogni disposizione di dettaglio, pertanto, trova inquadramento in una riflessione teologica specifica, attraverso la quale soltanto siamo in grado di comprendere la ratio delle singole limitazioni statutarie. Quanto alla lunghezza delle vesti e alla proibizione dello strascico, occorre osservare che esse discendono dagli indirizzi teologici del secolo XII. In particolare Pietro Cantore era stato artefice di un’articolata disquisizione proprio su questo punto13. D’altra parte è evidente che la statutaria forlivese è in linea con la soluzione che si legge nella quaestio di frater Ubertus de Cesena, tradita da Gio- vanni d’Andrea a da Alberico da Rosciate, secondo cui spetta al- l’officium secolare non di perseguire il peccato, ma di intervenire per prevenire ed eventualmente reprimere i comportamenti provocativi del peccato. Ecco dunque che lo statuto forlivese interviene per limitare innanzitutto la lunghezza degli abiti, giacché – secondo quanto si è ap- preso per l’appunto da Pietro Cantore – se l’abito tocca terra, è pecca- minoso di fronte a Dio, in quanto simboleggia l’attaccamento a ciò che appartiene al mondo terreno; e se è corredato di strascico, solleva pol-

vere e acceca: si recepisce cioè, dalla tradizione, l’idea che lo strascico rappresenti un simbolo di vanagloria, un’espressione del desiderio di confondere chi sta al seguito. Da qui scaturisce la richiesta, nello statu- to, dell’impegno specifico da parte del dominus potestas ad adoperarsi per far rispettare le norme suntuarie, a pena di condanna pecuniaria.

Naturalmente, è previsto un sistema di pene per la violazione della norma suntuaria, ma non è comminata la scomunica: un’assenza, questa, che è congruente con la soluzione esposta nella quaestio ubertina, più sopra studiata14. D’altra parte, tra il dettaglio delle sanzioni forlivesi, spicca innanzitutto la peculiarità della previsione specifica stabilita al fine di assicurare che sia pagata la somma da corrispondere a titolo sanziona- torio, qualora la donna violi le regole (cento soldi ravennati in caso di inosservanza della lunghezza degli indumenti, venticinque lire per l’inos- servanza della misura negli ornamenti). È stabilito cioè che la pena pecu- niaria da pagare al Comune, per la quale è obbligato il marito o il

paterfamilias, graverà sui beni dotali: una particolarità di grande interesse

e rilievo. C’è ragione di ritenere che il ricorso alla dote custodisca il si- gnificato intrinseco dell’attenzione e della severità con cui gli statuti for- livesi colpiscono l’inosservanza della misura negli ornamenti femminili. Si dovrà al riguardo ricordare che l’uso longobardo altomedioevale infil- tratosi largamente nella vita italiana, condivideva con la dote romana la presenza, tra i beni dotali, del corredo di vesti15. Evidentemente l’abbi- gliamento ritenuto eccessivo, al cospetto delle norme statutarie, comporta un’incongruenza con il senso dei beni dotali, costituiti ad sustinenda

onera matrimonii16. Da qui scaturisce una duplice conseguenza: innanzi-

14 Cfr. supra, cap. V, § 6.

15 Cfr. F. CALASSO, s.v. Dote, Diritto romano e intermedio, in Enciclopedia italia-

na, XIII, Milano, 1932, p. 182b.

16 Il legame tra la dote e la misura nell’abbigliamento risulta evidente ancora nel se- colo XVI, come si evince da una oratio del 1530 di un anonimo umbro, illustrata da M.G. NICO OTTAVIANI, La legislazione suntuaria in Umbria tra prestigio e moderazio-

ne, in M.G. MUZZARELLI, A. CAMPANINI (a cura di), Disciplinare il lusso, cit., p. 35: l’oratore, dopo una lunga disquisizione volta ad illustrare la necessità della disciplina suntuaria, afferma, sulla base autoritativa di Celso e Papiniano, che l’entità delle doti «deve venire… ‘ex facultatibus et dignitate mulieris maritique’». Inoltre, nel caso um- bro studiato dalla Ottaviani (cfr. ibid., pp. 37-38, 40), è la dote stessa ad essere sottopo- sta a limitazioni per evitarne la quantità eccessiva. Sulla dote ‘congrua’ e sulla funzione

tutto, la responsabilità della donna, la quale dispone autonomamente del- le vesti e degli ornamenti17; e poi la legittimazione di chi esercita su co- stei la patria potestas a ricorrere al patrimonio dotale per il pagamento della sanzione suntuaria. Inoltre, gli statuti forlivesi vietano alla donna e a colui che costituì la dote di agire in giudizio per il recupero della somma pagata a titolo di sanzione. La negazione dell’actio processuale funge da limite all’azione di restituzione della dote mediante la quale la famiglia della donna tentava di conservare il patrimonio familiare18. In questo modo la legislazione suntuaria forlivese mostra di aver riguardo alla re- sponsabilità della donna in relazione alla famiglia di appartenenza, una responsabilità peraltro non confinata per così dire tra le mura domestiche, ma rilevante in primo luogo per la vita della comunità, giacché la somma di denaro da corrispondere per la violazione delle norme suntuarie deve essere sottratta ai beni dotali, ossia al fondo patrimoniale destinato a ga- rantire la stabilità della famiglia. Già da qui si percepisce che la disciplina degli ornamenti femminili tende a trascinare con sé elementi giuridici di natura pubblicistica.

garantista della dote ai fini familiari ma anche al fine del mantenimento della donna cfr. M. BELLOMO, La condizione giuridica della donna in Italia. Vicende antiche e mo-

derne, Roma, 1996, pp. 38-40.

17 In un vecchio studio dello Schupfer così si legge: «Nell’età barbarica… le sole cose che rimanevano in potere della donna eran quelle che ne fornavano il corredo: le vesti e gli ornamenta, perché destinati principalmente al suo uso. Vi accennano la legge degli Angli e Verini I, 7 e quella dei Burgundi LI, 3; ma era anche la sola eccezione. Volendo disporre di altre cose, abbisognava del consenso del mundoaldo…» (F. SCHUP-

FER, L’autorizzazione maritale. Studii sugli statuti municipali italiani, in L. MIRAGLIA

et alii, Pel cinquantesimo anno dell’insegnamento del professore Francesco Pepere,

Napoli, 1900, pp. 5-6). Documenti medioevali in cui si attesta la conservazione, da parte della donna, del potere di disporre degli ornamenti dotali sono studiati da J.- M. MARTIN, Structures familiales, vocabulaire de la parenté, dévolution de patrimoine:

Venise (Xe-XIIe siècle), in L’héritage byzantin en Italie (VIIIe -XIIe siècle), II: Les cadres juridiques et sociaux et les institutions publiques, Ètudes réunies par J.-

M. MARTIN, A. PETER-CUSTOT, V. PRIGENT, Rome, 2012 (Collection de l’École fra-

nçaise de Rome, 461), pp. 145-146.

18 Cfr. M. BELLOMO, s.v. Dote, Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, XIV, Milano, 1965, pp. 26b-27a.

4. La responsabilità delle corporazioni di sarti e orefici e la responsa-