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La tensione tra la doppia valenza positiva e negativa della natura umana e di ciò che deriva dall’ars dell’uomo – tensione che è caratteri- stica della rinascita del secolo XII, allorché si intersecano «due diversi valori: la scoperta della natura e il contemptus mundi»34 – diviene og- getto di una riflessione teologica puntuale nel Verbum abbreviatum di Pietro Cantore (†1197)35. I differenti apprezzamenti delle creazioni umane coesistono e dipendono, oltre che dalla misura, dall’atteggia- mento interiore con cui l’uomo si serve di esse36:

34 Cfr. M.-D. CHENU, La teologia, cit., p. 57.

35 L’edizione secentesca del Verbum abbreviatum, riprodotta nel vol. 205 della Pa- trologia Latina, fu qualificata come redazione base, priva delle aggiunte marginali, dopo le ricerche condotte negli anni Settanta del secolo scorso da J.W. Baldwin. L’A. ha ritenuto di distinguere le redazioni del Verbum abbreviatum di Pietro Cantore in due categorie: una versione breve dell’opera, all’interno della quale si subdistinguo- no stesure con marginalia; ed una redazione lunga, all’interno della quale si subdistin- guono una redazione lunga completa, ed una lunga leggermente abbreviata (textus al-

ter). Quest’ultima redazione, secondo il Baldwin, precede la stesura breve. In tempi

recenti M. Boutry discute la ricostruzione del Baldwin, soprattutto con riguardo alla posizione di anteriorità della stesura lunga rispetto a quella breve. M. Boutry distingue un testo breve (textus prior), un testo lungo leggermente abbreviato (textus alter) ed un

textus conflatus: una redazione mista che trae materiale dai due precedenti. Per ampi

dettagli sul problema delle differenti redazioni del Verbum abbreviatum e sulla difficol- tà di individuazione del textus prior rinvio a M. BOUTRY, Introduction a ID. (a cura di),

Petri Cantoris Parisiensis Verbum abbreviatum. Textus conflatus, Turnhout, 2004

(Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, CXCVI), pp. XII-XXIV. Per l’indica- zione dell’anno 1187 come terminus a quo del Verbum abbreviatum (textus conflatus) cfr. ibid., p. XXXVIII.

36 Cfr. M. BOUTRY, Petri Cantoris Parisiensis Verbum abbreviatum. Textus prior, Turnhout, 2012 (Corpus Christianorum. Continuatio Mediaevalis, CXCVI A), pp. 63- 64, 99-103 (sub cap. 7: ‘De suggillatione superbie’). Da questa edizione cito di qui in avanti. Il medesimo passaggio compare nel textus conflatus con un testo sostanzialmen- te equivalente: cfr. M. BOUTRY, Petri Cantoris Parisiensis Verbum abbreviatum. Textus

[Verbum abbreviatum, cap. 7]: …Sed nonne in usu temporalium distincta est meta “certusque modus quos limites non licet excedere” sine mortali? Nonne natura hoc distinxit? Nonne sancti, ut Apostoli,

habentes uictum et uestitum hiis contenti fuerunt?

Il tema non è nuovo se soltanto si considera che il concetto di labor come attività prestata a vantaggio altrui e come attività produttiva di beni si era andato sviluppando ai tempi del Liber iudiciorum e soprat- tutto con la legislazione longobarda37. Ma segnatamente appare di rilie- vo che la questione della voluntas dell’uomo, relazionata all’uso buono o cattivo dei beni terreni, faceva parte delle sententiae di Isidoro di Si- viglia, ed il lavoro dell’uomo è argomento sviluppato dai teologi del se- colo XII della cerchia di Pietro Cantore38. Ugo da San Vittore (†1141), ad esempio, espone una densa dottrina, su questo punto, a partire dal- l’interrogativo biblico ‘Quid habet amplius homo de universo labore suo quo laborat sub sole’39? Tuttavia, in Pietro Cantore, questo argo- mento risulta approfondito con riferimento specifico agli ornamenti. Il punto centrale della questione riguarda l’osservazione secondo cui il lavoro è convertito da alcuni in grazia, da altri in colpa; un giudizio, quest’ultimo, coinvolgente il cibo eccessivo, gli edifici sontuosi e gli ornamenti40:

37 Sul punto cfr. V. CRESCENZI, Semantica del lavoro in alcune compilazioni del-

l’età romano-barbarica, in S. GIGLIO (a cura di), Atti dell’Accademia Romanistica Co-

stantiniana, XX: Roma e barbari nella tarda antichità, Roma, 2014, pp. 519-541, in

particolare le pp. 530-531, 533, 538.

38 Sul punto cfr. J.W. BALDWIN, Masters, Princes and Merchants. The Social Views

of Peter the Chanter and His Circle, I, Princeton, 1970, pp. 261-269.

39 Il tema è affrontato nelle Homiliae in Ecclesiastem, Hom. XIX, in PL, 175, t. I, coll. 125a-130b. La conclusione di Ugo, in sintesi, è la seguente (coll. 129d-130a-b): colui che è pressato dall’amore per le cose temporali e transitorie, lavora per avere que- ste cose se non le possiede, per conservarle se le ha. Costui lavora invano sotto il sole. Chi invece compie le proprie opere con la speranza e il desiderio di ottenere i beni eter- ni, questi non lavora sotto il sole, ancorché sotto il sole si compia il suo lavoro. In so- stanza soltanto le opere temporali compiute in vista dei beni ultraterreni consentono al- l’uomo di ricevere la salvezza: «quia non laborat sub sole, sed supra solem, qui laboris sui mercedem non constituit in rebus volubilibus et tempore transeuntibus».

40 PIETRO CANTORE, Verbum abbreviatum, p. 472, 181-186 (sub cap. 74: ‘Contra pigros’).

[Verbum abbreviatum, cap. 74]: Veruntamen laborem nature boni ut sepe conuertunt in laborem gratie, sepe autem ut in agricolis indifferens est. Mali uero illum conuertunt in laborem culpe, uerbi gracia ut laborem cibi adquirendi, et necessaria tum gula tum uana gloria mutant in culpam; ita et laborem uestium et laborem edificiorum in laborem culpe conuertimus.

Pietro Cantore si spinge fino al punto di individuare quali siano i mestieri leciti e quali no, quali cioè sono funzionali a ciò che è necessa- rio e quali non lo sono: quasi che spetti al teologo additare l’uso buono e cattivo dei beni terreni, secondo uno schema che pare assomigliare ad un dettato normativo41:

Videndum ergo qui opifices necessarii essent Ecclesie et qui non, et qui tolerandi in ea et qui non. Necessarii quidem sunt agricole sicut pes mundi; uinitores…

Similiter pelliparii, sutores, tannarii, carpentarii, simplices non dedalini, non sumptuosi fabri, textores simpliciter in materia operantes, tinctores etiam dum non nimis excedant in sumptibus et propter misterium quod geritur in Ecclesia, forte pictores hystorias non uana depingentes; artifices etiam instrumentorum musicorum, ut eis tristicia et tedium ammoueatur, deuocio non lasciuia excitetur… Aurifabri uero, maxime qui sellas et calcaria deaurant uel cetera sine quibus posset esse christiana religio, incisores et perforatores uestium, compositores decorum maxime plumbatorum, alearum… Hii inquam non necessarii sunt quibus, nisi prius arti sue abrenunciassent, poenitenciam non iniungerem…

Tra gli artifices vanitatum, non necessari al sostentamento della

societas cristiana, compare una lunga serie di lavori, talora ammessi

soltanto se esercitati in maniera non sontuosa, talora del tutto respinti: tra i primi compaiono i calzolai, i tessitori, i tintori; e tra i secondi sono annoverati gli orefici, ed in special modo coloro che dorano selle e cal- zari, gli incisori, coloro che lavorano vesti traforate.42

41 Ibid., pp. 477-478, 81-83, 84-98 (sub cap. LXXXIIII: ‘Contra varios artifices istarum vanitatum’).

42 Queste riflessioni sugli artifices vanitatum sono all’origine della serie di glossari delle vesti e degli ornamenti compilati dai Comuni medioevali. Su questi glossari cfr. M.G. MUZZARELLI, Un secolo (e passa) di studi sulle leggi suntuarie: percorsi, in

Evidentemente questo genere di trattazione stimola la riflessione medievale allorché si affaccia la nuova esperienza mercantile. Se dun- que le restrizioni suntuarie – che si apprestano a trapassare dagli am- bienti teologici alla statutaria, come si dirà più oltre – si sviluppano so- prattutto nell’età dei mercanti ciò non deriva, almeno nel sec. XII, dalla necessità di impedire l’accumulo in monopolio della ricchezza mercan- tile; ma è piuttosto conseguenza del fatto che quest’ultima è ritenuta di per sé superflua e perciò peccaminosa. La considerazione di fondo delle ricchezze, nel pensiero di Pietro, è volta a distinguere tra la liceità del necessario e l’illiceità del superfluo, secondo i verba dell’Apostolo Paolo. In sostanza: vesti, cibi e ornamenti sono leciti fin quando restano nei limiti di ciò che è essenziale. Si noterà, peraltro, che la misura per valutare il grado di necessità dipende, nell’interpretazione del Nostro, dalla condizione (quantum congruit personae suae) e dall’honestas di ciascuno (ut eis conveniat, cum quibus honeste vivendum est)43. Sulle prime sembra perciò condivisa e recepita la posizione di quei Padri del Tardoantico che, di fronte ai costumi del tempo loro, si erano trovati costretti ad allentare la rigidità dei limiti suntuari44. Ma su questo punto Pietro torna a riflettere, a partire dalla considerazione che gli ornamenti sono leciti, purché non intervenga la superbia a renderli eccessivi o er- ronei nel fine, ciò che avviene con l’abbigliamento prezioso e con

dal Medioevo all’età moderna nello spazio di Siena e Grosseto. Atti della giornata di studio, Siena, 25 maggio 2018, Siena, 2019, pp. 20, 25-27.

43 PIETRO CANTORE, Verbum abbreviatum, p. 118, 2-17: «…diuicie nutriunt et pariunt cupiditatem, Apostolo attestante qui ait in epistula prima ad Timotheum VIII, loquens contra laborantes in adcquisicione diviciarum: Est autem questus magnus

pietas cum sufficiencia, scilicet ut habeat homo “quantum necesse est” uite sustentande

et quantum congruit persone sue, ut eis conueniat cum quibus honeste uiuendum est. Et addit: Nichil enim intulimus in hunc mundum, haut dubium quia nec auferre quid

possumus. Habentes alimenta simplicia, non delectamenta, non gule irritamenta, et

uestes, quibus tegamur “non ornemur et luxuriemur”, hiis contenti simus. Nam qui

uolunt diuites fieri, “non ait ‘sunt’, sed ‘uolunt’ diuites fieri”, ultra scilicet propositum

et fines et terminos positos a natura incidunt in temptaciones et laqueum diaboli et in

desideria multa inutilia et nociua que mergunt homines in interitum et perditionem»

(sub cap. 15: ‘Contra vermem et malum diuiciarum’). 44 Cfr. supra, nell’Introduzione.

l’equipaggiamento dorato dei cavalli45. Pietro imbastisce una sorta di

quaestio per chiedersi fino a che punto sia consentito adeguare gli or-

namenti ai mores coevi46:

[Verbum abbreviatum, cap. 7]: …Numquid aliquis sic se pascendo et uestiendo in primitiua Ecclesia non peccaret mortaliter? Numquid non corriperetur super huiusmodi? Si tunc fuit peccatum mortale, quomodo desiit esse peccatum?

Sed “obicies quia uiuendum est cuilibet pro modulo sue persone et secundum mores bonos et consuetudines illorum inter quos uiuitur”, ita ut hiis occasione mouende concupiscencie non studeant nec in se nec in aliis. Sed quousque protendetur hec consuetudo? Numquid non poterit usque ad superfluitatem porrigi? Sed quis sciolus est consuetudinis illius honeste licite et limitate de qua et cuiusmodi intelligenda est auctoritas, cum singulis diebus pristinis consuetudinibus aliquid adiciatur, tum scilicet consuetudini uestiendi se, tum aliis?

Il pericolo è quello di incorrere in una sorta di depenalizzazione, sub

specie peccati, dei mores seguiti anticamente. Come è possibile che

quanto era peccato nelle prime comunità cristiane, poi non lo sia più? Si deve stare in guardia dal non estendere l’adeguamento dei mores alla consuetudine fino al punto di ammettere il superfluo. Pietro dunque fissa una sorta di vademecum attraverso cui riconoscere gli effetti deva- stanti della superbia, ed in quest’ambito cita ancora una volta gli orna- menti, il cibo e l’equipaggiamento equestre47:

[Verbum abbreviatum, cap. 7]: …Quantum sit monstrum superbie ostendit ortus eius. Oritur enim quandoque a dono fortune multiplici, ut a diuiciis…

<Oritur superbia> ab habitu et exteriori et interiori, ut uestitus, uictus, equorum, familie et huiusmodi.

45 PIETRO CANTORE, Verbum abbreviatum, p. 63, 95-99: «Opera enim eius [id est diaboli] que consistunt in illicitis manifestius patent et ideo facilius cauentur; pompe uero in licitis et usu licitorum que accedente superbia fiunt illicita, ut in superfluitate et apparatu uestium preciosarum, in sellis deauratis et calcaribus et frenis, ubi magis lucet et nitet aurum quam in altaribus» (sub cap. 7: ‘De suggillatione superbiae’).

46 Ibid., p. 64, 103-114. 47 Ibid., p. 65, 125-126.

Ma c’è un passaggio del Verbum abbreviatum particolarmente inte- ressante per la spiegazione di certi limiti suntuari imposti agli abiti femminili, quali compariranno in molti statuti comunali. Pietro al ri- guardo così argomenta48:

[Verbum abbreviatum, cap. 76]: Cum enim natura hominem a bruto insigni et honesto caractere distinxerit quod natura homini denegauit, scilicet caudam, ipse per artificium illud in ueste caudata sibi usurpauit, habens et mentem caudatam… Alii in ueste sua habent sirmata et longas reuoluciones uestium sese post se in longa ueste trahentes qui mendacio staturam adiuuant… Maxime autem uestis sirmatica et longa non decet christianum que post se puluerem trahit uel suscitat ad excecandum oculos sequentium, similes Dauis et Birriis. Vnde Milo Teruanensis episcopus in sermone suo: “Non decet, inquit, matronas christianas uestes habere subtalares et post se trahentes quibus uerrant sordes pauimenti et uiarum. Scitote, inquit, domine dilecte, quod si huiusmodi uestes uobis essent necessarie, natura uobis in remedium eius aliquid dedisset quo terram tangere possitis”. Sed cum modo uestis excedat quantitatem corporis, cur non et calceus, ut calceus homo post se traheret?… Quidam etiam, cum non possint inferius caudari in ueste, faciunt consui caudas animantium ne prorsus sint expertes caudarum. Alii stellati immo stellionati uestibus utuntur perforatis.

La lunghezza delle vesti e lo strascico sono al centro dell’attenzione. C’è una motivazione di ordine ‘naturale’ che ne impone la disciplina: la natura ha segnato una differenza fisica tra l’uomo e l’animale, ha dotato di coda solo quest’ultimo. Perciò l’uomo non può costruire artificial- mente ciò che la natura, al fine di distinguerlo dagli animali, non gli ha dato49. Molti usano abiti lunghi e con strascico per aggiungere qualcosa alla propria bassa statura. Ma l’abito non deve toccare terra per evitare di raccogliere la sporcizia dei pavimenti e delle vie, simboli di ciò che è meramente terreno; non deve avere lo strascico per evitare di sollevare polvere ed accecare chi sta dietro. Tutto ciò è vietato particolarmente

48 Ibid., pp. 476-477, 49-52, 56-58, 62-71, 74-76 (sub cap. 76: ‘De superfluitate ue- stium et preciositate’).

49 Nel secolo XII, l’imitazione delle forme fisiche degli animali è considerata pec- cato e rappresenta un costume pagano da reprimere. Sul punto cfr. M. PASTOUREAU,

Les cornes, les poils, les oreilles et la queue. Se déguiser en animal dans l’Occident médiéval, in Micrologus, 20 (2012), pp. 9-11.

alle donne cristiane. Il medesimo contenimento deve essere osservato per le calzature. Singolare appare poi il riferimento all’uso di cucire ai vestiti code di animali, così da non incorrere nel divieto di portare abiti con strascico: un’astuzia che certamente non fa venir meno la respon- sabilità di chi ad essa ricorra.

In conclusione, appare chiaro che l’osservazione, già isidoriana, cir- ca l’importanza dell’uso del cultus piuttosto che dell’ornamento in sé, non dipende dalla coscienza individuale. È piuttosto il teologo che, animato dall’intento di orientare i fedeli, si spinge fino al punto di sosti- tuirsi ai singoli, e di tratteggiare astrattamente una sorta di ‘buona co- scienza’ da avere come punto di riferimento per mantenere i boni mo-

res: si compie così un primissimo passo verso la giuridizzazione della

questione suntuaria.