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Il ‘De amatoribus mundi’ di Isidoro di Siviglia

Non manca peraltro, tra i testi isidoriani, la considerazione del signi- ficato morale del cultus, opera dell’uomo (ad homines pertinet). La sensibilità per questo argomento affiora dai Libri sententiarum. Sotto il titolo ‘De amatoribus mundi’ si leggono alcuni passaggi di questo teno- re21:

Qui pretioso cultu incedunt, audiant prophetam quemadmodum detestatur eorum corporalia ornamenta, et quos successus habeat cultus conpositus et ornatus, hoc est pro suaui odore foetorem, et pro zona funiculum (Is. 3,24), et caetera.

Legant prophetam diuites, quorum spes opulentia est, et audiant eum dicentem: Vae qui opulenti estis (Am. 6,1); quanto enim quisque potentia minor est, tanto magis liber a peccato est. Nam patrimonium grande temptatio est.

Plus uenerantur homines in hoc saeculo pro temporali potentia, quam pro reuerentia sanctitatis. Suscipiunt enim quod magis sunt diuites, et quod homines sunt omnino despiciunt.

L’ornamento prezioso mette l’uomo in pericolo, soprattutto quando ogni speranza umana è riposta nella ricchezza e quando quest’ultima (potentia temporalis) diviene di maggior rispetto dell’integrità mora- le (sanctitas). Appare subito evidente che la valenza etica del cultus, in Isidoro, non percorre i medesimi sentieri dei Padri tardoantichi. Non v’è cenno alla questione della pudicizia e del peccato. La preoccupa-

21 ISIDORO DI SIVIGLIA, Sententiae, III, 59, 10-11, P. CAZIER (ed.), in Corpus

Christianorum, Series Latina, CXI, Tvrnholti, 1998, pp. 319-320 (sub cap. 63: ‘De

zione riguarda piuttosto la vanità del cultus di fronte alla possibilità di guadagnare la salvezza22.

Né vi è disprezzo per la ricchezza, in sé considerata. Ciò che conta è invece l’atteggiamento morale con cui ci si serve di essa, come risulta dalla seconda parte del passo appena letto:

...Sunt quidam justi, qui sine laesione cujusquam suis rebus utuntur. Item sunt quidam divites humiles, quos non inflat superbia rerum, veluti plerique fuerunt sancti Veteris Testamenti, qui et affluebant divitiis, et tamen humilitate pollebant. At contra quosdam superbos divites rerum copia facit elatos, quorum non sunt opes in vitio, sed voluntas. Nam crimen in rebus non est, sed in usu agentis.

Est et elatio pauperum, quos nec divitiae elevant, et voluntas sola in eis superba est. His etsi opes desunt, propter mentis tamen tumorem plusquam superbi divites condemnantur...

Bonis bene utuntur qui divitiis sibi concessis in rebus salutaribus pertruuntur... Sed sicut malo bene uti bonum est, sic bono bene uti melius est. Et sicut bono male uti malum est, sic malo male uti pessimum est.

La questione dell’uso delle ricchezze, tra cui si annovera il cultus

pretiosus con cui Isidoro apre la propria riflessione, è in realtà decisiva

e centrale. Fino al punto che il povero sarà condannato persino più aspramente del ricco se impiegherà tutte le proprie energie (mens) per

22 Per questo aspetto Isidoro sembra in linea piuttosto con la posizione di sant’Am- brogio: «il denaro può comperare gratia e misericordia, ossia delle entità incommensu- rabili… che… potranno produrre un profitto a chi investe in tal modo. Questo tipo di investimento sarà da considerarsi profittevole economicamente e moralmente soprattut- to se ad esserne protagonisti siano il denaro e la ricchezza superflui dal punto di vista del soggetto che li detiene (pecunia tibi otiosa); è dunque il patrimonio connesso da una volontà fidelis all’ambito della gratia e della misericordia, a rivelarsi implicitamente produttivo, mentre, al contrario, l’inesistenza di questa connessione ne fa un peculio inutilizzato e per ciò stesso superfluo»: così, con riferimento al De Tobia di sant’Ambrogio, G. TODESCHINI, Date otiosam pecuniam et recipietis fructuosam

gratiam (Ambrogio, De Tobia, 16, 56), in D. QUAGLIONI, G. TODESCHINI, G.M. VARA-

NINI (a cura di), Credito e usura fra teologia, diritto e amministrazione. Linguaggi a

confronto (sec. XII-XVI), Rome, 2005 (Collection de l’École française de Rome, 346),

procurarsi beni terreni23. Inoltre, tanto il bene quanto il male possono essere utilizzati ciascuno in modo buono o in modo cattivo: la qualità dell’uso produce, rispetto all’entità di partenza, un’entità ulteriore qua- lificabile come malum oppure come bonum per l’uomo.

23 La questione non è nuova ed è di matrice agostiniana. In particolare, per appro- fondimenti sul pauper superbus nella patristica tardoantica cfr. G. RICCI, Poveri superbi

fra Italia e Francia. Le incarnazioni di un tipo scritturale, in P. PRODI (a cura di), Di-

sciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Bologna, 1994 (Annali dell’Istituto storico italo-germanico. Quaderno 40),

CAPITOLO SECONDO

AD VIRTUTUM ET MORUM COMMENDATIONEM

SOMMARIO: 1. La scuola di Chartres: Gilberto Porretano. 2. Cenni alla let-

teratura de contemptu saeculi: san Pier Damiani. 3. (segue) San Bernardo. 4. Pietro Cantore. 5. La predicazione e i limiti suntuari.

1. La scuola di Chartres: Gilberto Porretano

L’intero assetto isidoriano imprime di sé la tradizione1, tanto da di- venire riconoscibile nei caratteri della riflessione teologico-giuridica medioevale, sviluppata in tema di vesti ed ornamento. Ciò non sorpren- de, perché, in linea generale, le Etymologiae ripresentano l’imposta- zione neotestamentaria e patristica secondo una sistemazione armonica, come chiarito più sopra. Dove peraltro si coglie, in modo singolare e specifico, l’eco isidoriana è con riguardo alla distinzione tra la veste e l’ornamento, la cui formulazione è ripresa verbatim ancora alla fine del secolo XII, nelle Derivationes di Uguccione da Pisa2. La differenza tra l’indispensabile (veste) e il superfluo (ornamento), aveva indotto Isido- ro a considerare la vestis come opera divina, e il cultus come opera umana: una formulazione estranea a qualunque valutazione morale di senso negativo o positivo, giacché la ricchezza genera nell’uomo re-

1 Sulla fortuna dell’insegnamento isidoriano cfr. L. LOSCHIAVO, L’impronta di Isi-

doro nella cultura giuridica medievale: qualche esempio, in G. BASSANELLI SOMMARI- VA, S. TAROZZI (a cura di), Ravenna Capitale. Uno sguardo ad Occidente. Romani e

Goti – Isidoro di Siviglia, Sant’Arcangelo di Romagna (Rn), 2012, pp. 39-55; ID., L’età

del passaggio. All’alba del diritto comune europeo (secoli III-VII), Torino, 2019²,

pp. 223-235.

2 UGUCCIONE DA PISA, Derivationes, E. CECCHINI et alii (ed.), II, Firenze, 2004, p. 1270: «Vestio -is -ivi -itum, induere, unde hic vestitus -tus, et intelligitur latius cultus quam vestitus; item habitus ad naturam pertinet, cultus ad homines». Per il confronto con Isidoro di Siviglia cfr. supra, nel precedente capitolo, il § 2.

sponsabilità soltanto in ragione dell’uso, buono o cattivo, che di essa si fa. Ma allorché la dottrina isidoriana s’incontra con la filosofia, con la teologia e con il diritto medioevali essa si arricchisce degli elementi di giudizio tipici di ciascuna di quelle discipline. Ed è in questo modo, e per questa ragione, che la questione dell’abbigliamento si tramuta in questione suntuaria da sottoporre al vaglio del pensiero teologico-giu- ridico.

Il momento decisivo per cogliere il passaggio verso l’epoca nuova si attua tra il 1000 e il 1100, con il diffondersi del movimento di rinnova- mento spirituale riconducibile alla scuola di Chartres ed in generale alla teologia del secolo XII, studiata, in queste pagine, attraverso qual- che esempio significativo3. Il punto d’avvio è da ricercare nella

renovatio del concetto di natura, sempre più largamente condizionato

dal lento riemergere dei testi aristotelici4. Lo studio della natura, crea- zione divina passibile di essere indagata in sé e per sé, come entità in- dividua, apre il campo ad una doppia considerazione: da un lato si ri- flette su ciò che è naturale perché semplice, puro, primordiale; fino al punto di inneggiare ed auspicare il ritorno alla forma di vita apostolica, sospinta sino alla perfezione della vita ascetica, sprezzante di tutto ciò che non sia strettamente necessario al sostentamento. D’altro lato, si prende coscienza della bontà dei manufatti umani, i quali cominciano ad essere valutati in tanto in quanto derivati della creazione divina. Si assiste perciò ad un atteggiamento teologico-filosofico, nei confronti della natura, non univoco e in grado di produrre reazioni opposte con riguardo all’ornamento che, secondo l’insegnamento isidoriano, è

cultus e pertanto ad homines pertinet. Se Gilberto de la Porrée (1070-

1154), vescovo e teologo, allievo di Anselmo di Laon, comincia a ri- flettere sulle «costruzioni dell’uomo, collocate… nella qualificazione

3 Per lo studio dettagliato del rinnovamento spirituale introdotto con la teologia sco- lastica rinvio allo studio classico di M.-D. CHENU, La teologia nel XII secolo, traduzio- ne italiana di P. VIAN, Milano, 2016².

4 T. GREGORY, Natura e qualitas planetarum, in Micrologus, 4 (1996), p. 5: «Questo è dunque il fondamento della scienza aristotelica greco-araba che regge la nuova conce- zione della natura divenuta parte integrante della cultura medievale fra XII e XIII seco- lo: non a caso natura è identificata con la celescium corporum qualitas che, primo celo

religiosa del ‘governo’ del mondo»5, all’opposto in Pier Damiani (†1072) prevale il tema, assai diffuso nei secoli XI e XII, de contemptu

saeculi6. Gilberto discute dunque sugli oggetti fabbricati dall’uomo con senso di apprezzamento7:

[Note super Johannem]: De artificialibus quaeritur utrum a Deo facta sunt, sicut caseus, et sotulares, et hujusmodi quae dicuntur esse opera hominis non Dei. Omnia quidem a Deo facta sunt tanquam ab auctore; quaedam tamen ejus opera dicuntur, sicut sunt, illa quae per se operatur ita scil. quod nec naturae similitudine, nec alicujus ministerio, ut caelum et terram. Alia dicuntur operae naturae, quae a Deo ita creantur quod ad alterius similitudinem, ut quod grana ex granis, et equis ex equo, et similia ex similibus. Alia quae hominis ministerio facit, hominum dicuntur. Unus ergo omnium auctor Deus, diversae tamen operandi rationes, et auctoritatis et ministerii, quorum alterum homo dicitur auctor, alterum vero Deus…

La quaestio intende chiarire l’idea corrente al tempo di Gilberto: se cioè le costruzioni dell’uomo (artificialia), come ad esempio il formag- gio e le calzature (caseus et sotulares), siano da considerare opera umana e non divina. In realtà, risponde il Porretano, tutto deve essere ricondotto alla creazione divina, giacché Dio è autore di ogni cosa, tut- tavia vi sono diversi modi di operare (Unus ergo omnium auctor Deus,

diversae tamen operandi rationes)8. Vi sono entità create immediata- mente da Dio, cioè a dire non per riproduzione, né mediante l’attività di alcuno (nec naturae similitudine, nec alicujus ministerio), come avvie- ne con la creazione dal nulla del cielo e della terra. Altre entità sono

5 M.-D. CHENU, La teologia, cit., p. 52.

6 Sui differenti caratteri della letteratura de contemptu saeculi, sviluppatasi fin dalle origini del cristianesimo ed ancora diffusa in età moderna, rinvio alle considerazioni di F. LAZZARI, Il contemptus mundi nella scuola di San Vittore, Napoli, 1965, pp. 11-30.

7 Riporto il passo edito da M.-D. CHENU, La teologia, cit., p. 52, nota 85, secondo il manoscritto di Londra, Lambeth Palace, 360, f. 32rb.

8 Questa concezione si inserisce nel quadro generale della distinzione-relazione teo- rizzata da Gilberto, con riguardo alla definizione della natura, tra id quod est e id quo

est. Per uno studio dettagliato sul punto cfr. L.O. NIELSEN, Theology and Philosophy in

the Twelfth Century. A Study of Gilbert Porreta’s Thinking and the Theological Exposi- tions of the Doctrine of the Incarnation during the Period 1130-1180, trad. ingl. di

invece opera della natura che, creata da Dio, mediante le leggi ad essa impresse dal Creatore, riproduce sé stessa (operae naturae, quae a Deo

ita creantur quod ad alterius similitudinem), ad esempio quando dal

grano nasce altro grano, o da un cavallo un altro cavallo. Infine vi sono entità che vengono definite opere umane per il fatto che sono prodotte mediante l’impiego dell’attività umana. In definitiva le ragioni della creazione impongono di distinguere tra auctoritas e ministerium: una

distinctio di derivazione vagamente gelasiana, ma rivolta a fissare, nel

contesto della scuola di Chartres, il concetto nuovo di ‘funzione’, ‘compito’ appartenente esclusivamente all’uomo, creatura divina. Parti- colarmente illuminante, a spiegazione di ciò, è la metafora conclusiva elaborata da Gilberto attraverso l’emblema dell’edificio costruito per volontà e per ordine del ricco, ma eseguito di fatto dal carpentiere9:

[Note super Johannem]: …Similiter usualiter dici solet de aliquo divite quod multa fecit edificia, quae eadem singulariter fecit et carpentarius, sed alter auctoritate sola et jussu alter ministerio.

Per questa via, cioè a dire mediante la riflessione sull’hominis

ministerium, si apprezza in quanto creazione umana, non in contrasto

ma in derivazione dalla creazione divina, tutto ciò che è costruito dal- l’uomo. In definitiva, gli artificialia non devono essere tenuti in spre- gio, giacché sono anch’essi manifestazione della creazione divina. Da qui sembra affacciarsi, nella riflessione teologica, la possibilità di una valutazione positiva dell’abbigliamento e dei mestieri ad esso dedica- ti10.