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Frater Ubertus de Cesena: la legittimità dello statuto giusto

Ma proprio qui ed ora, cioè a dire nei luoghi e nei tempi della statu- taria, l’assolutezza dell’opinione dell’Ostiense entra in crisi, o meglio deve essere armonizzata con altre considerazioni di pari natura teologi- ca e giuridica, rispetto a quelle indicate dal Cardinale, perché ugual- mente provenienti dal diritto naturale ed interessate, nello specifico, alla questione suntuaria.

Apprendiamo di qual genere di problema si tratti da una quaestio di

frater Ubertus de Cesena – attivo a Venezia e a Bologna, ascritto alla

«fitta schiera dei canonisti “minori” bolognesi dei primi decenni del secolo XIV»12 – destinata a segnare il punto di riferimento per il nostro

12 Cfr. O. CONDORELLI, Cura pastorale in tempo di interdetto. Un consilium ferra-

rese di Uberto da Cesena, Superanzio da Cingoli e Giovanni d’Andrea, in Rivista in- ternazionale di diritto comune, 16 (2005), p. 79, anche in M. BELLOMO, O. CONDOREL-

LI (a cura di), Proceedings of the XIth Congress of Medieval Canon Law, cit., p. 683. A questo studio (in particolare, p. 79 nota 2) rinvio per ampie indicazioni biografiche e bibliografiche. È possibile che frater Ubertus sia stato vicino all’ambiente rinascimen- tale petrarchesco, come suggerirebbe il fatto che la quaestio ubertina fu poi divulgata da Giovanni d’Andrea, e dal fatto che in altra quaestio Uberto «lascia trasparire dalla linea delle argomentazioni i nomi di altri due maestri, Pietro de’ Cerniti e il famoso Giovanni d’Andrea. Nomi di giuristi, per così dire, tutti petrarcheschi»: cfr. D. MAFFEI, Elogio di

cinque storici, Martina Franca, 1992 (Quaderni della Fondazione Nuove Proposte. Col-

tema, tanto da essere ripetuta, nelle linee essenziali, ancora nel secolo XVI13. Poiché le mogli sono giuridicamente soggette ai mariti e devono piacere ai mariti, come attestato da certa tradizione biblica e come chia- rito risolutivamente da Tommaso, si deve sapere se la donna, con ri- guardo agli ornamenti, debba obbedire al marito o allo statuto. Si osser- vi innanzitutto che lo statuto in questione è quello «del vescovo o di altro superiore»14. Già in ragione della positio quaestionum, mediante cioè il riferimento all’intervento statutario del vescovo o di altro supe- riore, la condizione apposta dall’Ostiense per legittimare la disciplina statutaria contraria alla consuetudine – cioè a dire «authoritate superioris interueniente»15 – risulta perfettamente accolta. Ma la mate- ria controversa è se «istud statutum absorbet ius maritorum ad quorum arbitrium pertinet ius uxorum et ornatus»16. Molti sono gli interrogativi qui racchiusi: è legittimo, e dunque obbliga, lo statuto che dispone in tema di ornamenti? La norma statutaria può assorbire lo ius maritorum? Qual è la natura giuridica dello ius maritorum?

Quanto al primo punto, non v’è dubbio che sia legittimo lo statuto in cui si vieta alla donna l’abbigliamento eccessivo, giacché simile dispo-

13 La quaestio fu disputata tra il 1307 e il 1328, cfr. M. BERTRAM, Kanonistische

Quästionensammlungen von Bartholomäus Brixiensis bis Johannes Andreae, in P. LI-

NEHAN (ed.), Proceedings of the Seventh International Congress of Medieval Canon

Law. Cambridge, 23-27 July 1984, Città del Vaticano, 1988 (Monumenta Iuris Canonici.

Series C. Subsidia, 8), p. 272. La quaestio ubertina, secondo il testo recepito da Alberi- co da Rosciate (di cui si dirà infra, cap. VI, § 2), è citata ancora da Gerolamo Tergolina, morto nel 1542, come risulta dalle allegazioni poste nel ‘Tractatus de ornatu mulierum’. Il testo del Tractatus è edito a cura di M. ASCHERI, R. FUNARI, in appendice a M. ASCHERI, De ornatu mulierum dal Medioevo all’età moderna: dal Roselli al Tergo-

lina, in M. BERTRAM (Hrsg.), Stagnation oder Fortbildung? Aspekte des allgemeinen

Kirchenrechts im 14. und 15. Jahrhundert, Tübingen, 2005 (Bibliothek des deutschen

historischen Instituts in Rom, 108), pp. 345-354.

14 UBERTO DA CESENA, Questio disputata Bononie, a cura e con introduzione di C. NATALINI, prefazione di D. QUAGLIONI, Foligno (Pg) 2019, sub 2: «Episcopus vel alter superior precepit vel statuit, propter honestatem conservandam, quod nulla mulier, in loco iurisdicionis sue, utatur ornamentis fucati coloris sive auri vel argenti sive gemmarum ultra certam quantitatem seu longis vestibus ultra certam mensuram…». Da questa edizione cito di qui in poi.

15 Cfr. il precedente § 1.

sizione risponde alla necessità di conservare l’honestas all’interno della

civitas. Pertanto la donna che contravvenga a tal genere di statuto, sarà

punita17. A dimostrazione Uberto sciorina una serie di autorità canoni- stiche, riprese dal Decreto e dal Liber Extra, per offrire le fonti giuridi- che del principio secondo cui i precetti giusti obbligano al rispetto e al- l’inflizione della pena, se trasgrediti. Inoltre, gli statuti in argomento sono conformi alla divina scrittura, dunque – con il sostegno di nume- rose auctoritates grazianee – non ne è in discussione la validità. Ri- compaiono copiose, ancorché opportunamente selezionate, le fonti ve- terotestamentarie, neotestamentarie, patristiche, alle quali si è fatto cen- no all’inizio. Molti passi, tratti dal Deuteronomio, dalle lettere petrine e paoline, dal Vangelo, da Girolamo, Cipriano, Agostino, Gregorio Ma- gno, san Bernardo, sono portati a sostegno dell’idea che indossare oro, perle, vesti preziose sia indizio di vanità e immoralità: perciò è peccato. La trattazione condotta fino a qui, con tutto il corredo delle fonti cano- nistiche e teologiche, spinge Uberto a concludere che lo statuto, in cui sia proibito l’abbigliamento eccessivo, è uno statuto giusto, per il fatto che, vietando ciò che è immorale, riconduce alla moralità18. Come si può osservare, la prima parte della quaestio è argomentata in perfetta aderenza con la posizione dell’Ostiense. Il criterio della necessità di mantenere l’honestas nella civitas diviene, in frater Ubertus come in Enrico da Susa, il punto di forza per rispondere affermativamente al primo quesito: è legittimo e coercitivo lo statuto che dispone in tema di ornamenti. E che il carattere morale della questione suntuaria debba ormai essere riguardato dal lato della giuridicità è chiarissimo nell’os- servazione finale di Uberto19:

17 Ibid., sub 2-4: «Episcopus vel alter superior precepit vel statuit, propter honestatem conservandam, quod nulla mulier, in loco iurisdicionis sue, utatur ornamentis fucati coloris sive auri vel argenti sive gemmarum ultra certam quantitatem seu longis vestibus ultra certam mensuram. Contrafacientem excomunicavit. Queritur utrum quelibet contrafaciens hanc penam incurrat. Et videtur primo quod sic, quod probatur pluribus argumentis. Yusta episcoporum precepta quemlibet ad obediendum ligant, quod si non fecerit, punitur. Set hoc preceptum episcopi est iustum. Igitur ligat, et contrafacientes penam incurrunt».

18 Ibid., sub 7: «…Preterea illud preceptum est iustum ed ideo observandum quia, inhonestatem prohibens, ad honestatem reducit».

In moribus enim nostris et eciam in iure non solum attenditur iusticia set eciam honestas, ideo multa sunt que, licet de sui natura in lege iusticie non sunt mala, prohibentur tamen propter inhonestatem, extra, de vi. et ho., Cle. officia (X 3.1.15).

La statutaria (In moribus enim nostris) si alimenta dei medesimi princìpi su cui è modellato il diritto comune (etiam in iure), perciò talo- ra la legge vieta, in ragione dell’immoralità (propter inhonestatem), ciò che per natura non è peccaminoso (de sui natura in lege iusticie non

sunt mala). Si è così di fronte ad una rivisitazione in chiave giuridica

della vecchia argomentazione, annunciata in Isidoro di Siviglia e svi- luppata da Tommaso, secondo cui non l’ornamento, ma l’uso di esso conduce al peccato. Un principio accolto nelle linee di fondo persino nel Liber Extra, nell’auctoritas allegata da Uberto a questo riguardo, X 3.1.15, i cui destinatari in verità sono i chierici, ma ugualmente rilevan- te perché ammette qualche apertura in relazione a ciò che «competit ex officio dignitatis»: vale a dire in relazione all’honestas specifica del- l’officium.

L’estensione e la valutazione di merito di questo ‘uso’, fissata nello statuto, evidentemente imprime il significato nuovo attribuito al- l’utilitas ecclesiae da cui siamo partiti.