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Consuetudo e mos: una questione di legislazione suntuaria?

D’altra parte, a mantener chiara la linea di continuità e insieme di novità già tracciata da Tommaso, c’è la dottrina di Bartolo sulla pru- denza. Si dovranno leggere in logica successione, ai nostri fini, la trat- tazione della prudentia iconomica e della prudentia politica. La prima: riguarda il governo della famiglia, è espressa dal diligente padre di fa- miglia, la cui rettitudine può essere presunta in base all’onestà del com- portamento abituale: «ex vita enim et conuersatione honesta presumi- mus animi rectitudinem»37. Pertanto il governo della famiglia imprime il carattere dei mores dell’intera civitas. Naturalmente essi variano in ragione del tempo e del luogo. Devono però essere tenuti distinti dalla

longa consuetudo, avente la medesima forza della legge38:

Quid igitur mores institutum sit, quid honestior vita inserendum est postea qualiter probentur mores, licet per loca et tempora uarientur? Tamen hoc intelligendum est de bonis moribus ciuitatis ubi agitur, ut Labeo dixerit super edicto de iniuriis (Dig. 47.10.15.6). Nonnumquam tamen dicuntur mores ciuitatis, idest populi ipsius ciuitatis, ut sunt

36 Sull’estensione e funzione dell’arbitrium iudicis nella città medioevale cfr. M. MECCARELLI, Arbitrium. Un aspetto sistematico degli ordinamenti giuridici in

età di diritto comune, Milano, 1998 (Università di Macerata. Pubblicazioni della

Facoltà di Giurisprudenza, 93), pp. 161-188. 37 Ibid., p. 287.

mores, qui uim legis optinent, ut consuetudines, que pro lege seruantur, et ad hanc inducendam longi temporis cursus requiritur…; et de hiis non loquimur in presenti. Nonnumquam uero dicuntur mores ciuitatis, idest singulorum de ciuitate. Hii legis uicem non obtinent et uitas hominum non constringunt.

Bartolo intende fare chiarezza sulla necessità di distinguere tra le consuetudini e i mores (mores, qui uim legis optinent, ut consuetudines,

que pro lege seruantur, et ad hanc inducendam longi temporis cursus requiritur…; et de hiis non loquimur in presenti)39. E proprio da questa spiegazione discende l’assimilazione della solutio prospettata da frater

Ubertus sul piano della dottrina giuridica ufficiale di cui Bartolo è mas-

simo esponente. La questione, sul piano teorico generale, si poneva da lunga data ed in termini alquanto complessi40. Ma si potrebbe dire che proprio il tema suntuario offra l’argomento decisivo per mettere un punto fermo, e per segnare un indirizzo interpretativo destinato a fare chiarezza nella difficile relazione-separazione tra diritto e morale41. I

39 Le consuetudines di tal genere, per quanto possano prendere il nomen di mores hanno la medesima forza giuridica delle leges. Pertanto, il rispetto dei boni mores, in questo caso, è criterio di riferimento per stabilire la legittimità degli atti giuridici. La questione è esposta da Bartolo in altra parte dei suoi scritti: ciò che è contrario ai boni

mores (alias consuetudines civitatis) deve essere dichiarato invalido, come avviene ad

esempio nel caso del iuramentum confirmatorium contractus invalidi. Il tema è studiato da O. CONDORELLI, Bartolo e il diritto canonico, in Bartolo da Sassoferrato nel VII

centenario della nascita. Diritto, politica, società. Atti del L Convegno storico naziona- le, Todi-Perugia, 13-16 ottobre 2013, Spoleto, 2014 (Atti dei Convegni del Centro

Italiano di Studi sul Basso Medioevo. Accademia Tudertina: Nuova serie 27), pp. 521- 533.

40 Sul punto cfr. C. ZENDRI, Pierre Grégoire tra Leges e Mores. Ricerche sulla

pubblicistica francese del tardo Cinquecento, Bologna, 2007 (Archivio per la storia del

diritto medioevale e moderno, 11), pp. 126-127 e bibl. ivi cit.

41 Se ne ha prova nel caso esemplare della risposta formulata da papa Eugenio IV nel 1440 alla petitio ‘An artifices facientes ornamenta mulierum possent absolvi’. Nel- l’escludere – sulla base della dottrina di san Tommaso e di Alessandro di Ales – che ai sarti possa essere negata l’assoluzione in confessione, per via del proprio mestiere di confezionamento di vesti e ornamenti di lusso, la commissione incaricata dal papa di studiare la questione, asserisce che «Thomas et Alexander de Ales non intelligunt de consuetudine proprie dicta sed pro modo vivendi in civitate»: per questo testo della

mores si distinguono in mores civitatis e mores singulorum de civitate.

I primi riguardano la civitas in senso unitario, configurano la

consuetudo civitatis e sono tutelati, se violati, dall’actio iniuriarum,

come previsto in Dig. 47.10.15.642. I secondi invece riguardano i singo- li appartenenti alla civitas, e non hanno la medesima forza coercitiva delle consuetudini (Hii legis uicem non obtinent et uitas hominum non

constringunt), non sono osservati, nel modo di queste ultime, come se

fossero leggi. Evidentemente Bartolo porta a completo compimento, sul piano giuridico-filosofico, da un lato la querelle impostata oltr’Alpe sulla distinzione tra consuetudines e mores43, dall’altro la distinzione d’aristotelica memoria tra ethos e hexis su cui già si era concentrata la riflessione di san Tommaso44. Il mos che interessa il sumptus non è quello della civitas ma quello dei singoli della civitas. L’ordinamento giuridico, pertanto, può e deve indicare e promuovere i boni mores civi-

tatis, ma non può intervenire coercitivamente mediante lex. Il compor-

tamento del singolo potrà essere valutato non in relazione alle leges ma in relazione ai mores civitatis. Ecco perché il ruolo specifico di ciascu- na persona diviene il punto di riferimento per la messa in atto del disci-

ornatu et habitu mulierum, cui l’autore mise mano dopo aver partecipato ai lavori della

commissione incaricata da papa Eugenio IV – cfr. T.M. IZBICKI, The Origins of the «De

ornatu mulierum» of Antoninus of Florence, in W. STEPHENS (ed.), Studia Humanitatis.

Essays in Honor of Salvatore Camporeale. Special Supplement to MLN Italian Issue. Volume 119.1, January 2004, Baltimore, 2004, p. 155. Sulle molte redazioni del trattato

del Pierozzi cfr. P. STOPPACCI, Indagini preliminari sul De ornatu et habitu mulierum di

Antonino da Firenze. Tradizioni, redazioni e fortuna, in B. PIERI, U. BRUSCHI (a cura di), Luoghi del giure. Prassi e dottrina giuridica tra politica, letteratura e religione.

Atti della giornata di studio. Bologna, 30 maggio 2008, Bologna, 2009, pp. 303-324.

42 Dig. 47.10.15: «Item apud Labeonem quaeritur, si quis mentem alicuius medica- mento aliove quo alienaverit, an iniuriarum actio locum haberet. et ait iniuriarum adver- sus eum agi posse… § 6 Idem ait ‘adversus bonos mores’ sic accipiendum non eius qui fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores huius civitatis».

43 Sul punto cfr. E. CORTESE, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune

classico, II, Milano, 1964 (Ius Nostrum. Studi e testi pubblicati dall’Istituto di Storia

del Diritto italiano dell’Università di Roma La Sapienza, 6.2) pp. 151-158. Sulla distin- zione medioevale tra consuetudo e mores cfr. da ultimo E. CONTE, Consuetudine, Cou-

tume, Gewohnheit and Ius commune. An Introduction, in Rechtsgeschichte, 24 (2016),

p. 238.

plinamento suntuario. Spetterà dunque al giudice, piuttosto che al legi- slatore, operare in tale direzione. Non però al iudex nell’esercizio del proprio officium – secondo il ragionamento che aveva offerto a frater

Ubertus la motivazione per limitare la validità/effettività delle norme

suntuarie – ma in ragione dell’arbitrium iudicis. Ciò risulta chiaro lad- dove Bartolo, nel trattare la questione generale della necessità di con- servazione della abundantia per la vita della comunità afferma45:

Prioribus est concessum arbitrium super abundantia, fecerunt aliquid quod non poterant vigore eorum officii, poterant tamen facere vigore arbitrii sibi concessi.

Qui è efficacissima la comparazione tra l’officium e l’arbitrium

iudicis: ciò che il giudice non potrebbe fare in ragione del proprio officium può invece fare in forza dei poteri equitativi che a lui derivano

dalla qualità di arbiter.

Risulta funzionale a questo inquadramento interpretativo l’ulteriore elemento originale e centrale della dottrina sviluppata da Bartolo. Egli imposta il problema del sumptus femminile tenendo a riferimento non il

maritus ma il paterfamilias, cioè a dire non lo ius maritorum – in ra-

gione del quale frater Ubertus era riuscito a fermare la legislazione sta- tutaria episcopale in materia di ornamenti – ma il paterfamilias, vale a dire lo ius spettante al capo della famiglia su quanti – tra cui la moglie – sono soggetti alla sua potestas. Si dovrà riflettere, al riguardo, sul se- guente passo bartoliano46:

Quilibet enim secundum suum placitum suam regit familiam, sua animalia pascit suaque predia colit et generaliter sue rei quisque moderator et arbiter est.

Il paterfamilias regge la famiglia come a lui piace (secundum suum

placitum suam regit familiam), ed è perciò il solo a guidarla e a decide-

re di ciò che a lui appartiene: ne è arbiter (sue rei quisque moderator et

45 Riporto il passo bartoliano da M. MECCARELLI, op. cit., p. 184, nota 59. 46 BARTOLO, Tractatus testimoniorum, p. 288.

arbiter est)47. In particolare – come Bartolo chiarisce in altra parte dei suoi scritti48 – il paterfamilias domina la moglie «politice, secundum iuris determinationem»49. Mediante l’attribuzione della responsabilità del sumptus al capofamiglia, il contributo bartoliano dà una forte acce- lerazione verso il concetto finale che ci è parso di intravvedere già chia- ro in Alberico: i mores, legati alla situazione contingente dei singoli, difficilmente possono divenire oggetto di una norma statutaria.