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Sennonché, le motivazioni addotte in contrarium inducono frater

Ubertus a riconsiderare la superiorità del vescovo rispetto ai laici per

negare la tesi fin qui tanto solidamente argomentata, per dimostrare cioè la non punibilità della donna contraffacente alle norme suntuarie dello statuto episcopale, e l’ineffettività di tal genere di statuto32:

In contrarium sic probatur. Non valet sententia vel statutum alicuius super eo quod ad eum vel ad eius officium non spectat. Set ornatus mulierum seu modus ornandi non spectat ad episcopum. Ergo super eo non potuit aliquid statuere vel disponere. Maior probatur XCV<I> d., Bene quidem (D.XCVI c.1), de re. iu., li. VI, Ea que (VI 5.ult.26), et notatur XI, q. III, in summa (Giovanni Teutonico, gl. Sed ponatur, ad C.XI q.3 d.a.c.1, ed. Lugduni 1559, p. 612a-b)…

Il vescovo non può disporre con riguardo agli ornamenti, o meglio con riguardo al modo di ornarsi (modus ornandi). Inizia qui la pars

destruens della dottrina dell’Ostiense, sfruttata invece ‘tra i pro’, per

quanto implicitamente, come si è osservato. Non è peraltro in discus- sione la potestas, ossia la giurisdizione episcopale in materia di orna-

tus, ma piuttosto l’esistenza o meno del potere-dovere (officium) del

vescovo-giudice di intervenire in sede giurisdizionale nei confronti del- le donne sposate con sentenze disciplinatrici del modus ornandi, cioè delle forme consuete degli ornamenti33. Le conseguenze di una simile

32 UBERTO DA CESENA, Questio disputata Bononie, sub 19.

33 Questa distinzione si inquadra nella generale tendenza dei giuristi del diritto co- mune ad «operare una separazione tra la iurisdictio, che si sarebbe intesa… come

habitus, e l’officium, con cui si sarebbe invece espresso l’exercitium, cioè l’esplicazione

conclusione sembrano andare oltre la fattispecie studiata. Si osserverà come il nostro canonista, lungi dal mettere in discussione la potestas-

iurisdictio episcopale in materia di ornamenti, possibili fonti di peccato,

e senza addentrarsi nella delicata relazione iponimica tra ‘statuere’ e ‘iurisdictio’, teorizzata dalla canonistica fin dal primo Duecento34, indi- vidua i limiti dell’officium iudicis: limita cioè la validità processuale degli atti giurisdizionali posti in essere dal vescovo in qualità di giudi- ce. Ad orientare in questo senso la riflessione di Uberto sovviene l’alle- gazione del passo della glossa ordinaria al Decreto (ad C.XI q.3 d.a.c.1) in cui Giovanni Teutonico sostiene l’invalidità della sentenza precettiva pronunciata dal giudice al di fuori del proprio officium35. C’è dunque un principio di ordine generale e di carattere meramente processuale in ragione del quale la norma suntuaria resta sospesa tra ineffettività ed invalidità; e la donna sposata finisce per non essere tenuta all’osser- vanza dei limiti statutari.

Ma per quale motivo il modus ornandi femminile deve essere riget- tato dall’officium episcopale? Fa ingresso a questo riguardo, nella

quaestio, lo ius maritorum e l’interrogativo che esso porta con sé: la

publicam. Ambiguità e tecniche del diritto comune, Napoli, 1984 (Storia e Diritto. Stu-

di, 12), p. 308.

34 Cfr. P. COSTA, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica me-

dievale (1100-1433), Milano, 1969 (Università di Firenze. Pubblicazioni della Facoltà

di Giurisprudenza, 1), pp. 153-156.

35 GIOVANNI TEUTONICO, gl. Sed ponatur, ad C.XI q.3 d.a.c.1: «…Sententia autem mandati uel precepti non ligat nisi id quod precipitur spectet ad officium precipien- tis…» (ed. Lugduni, 1559, p. 612a-b). Il riferimento puntuale all’officium, quale si leg- ge in questa glossa, suggerisce di sciogliere l’allegazione di frater Ubertus (et no. XI,

q. III, in summa) – in cui egli rinvia cripticamente alla Summa al Decreto – non con la Summa di Uguccione da Pisa, come suggerirebbe il termine ‘Summa’, ma con la Glossa

ordinaria di Giovanni Teutonico. Uguccione, a proposito della sentenza precettiva, argomenta con riguardo alla praelatio iudicis, ciò che più tardi Giovanni definirà ap- punto officium: «Sequitur de sententia preceptionis. Si ergo prelatus precipit quod sit contra Deum, non est ei obediendum… Si dominus uero precipit aliquid de quo sit du- bium an sit contra Deum uel non, uel de quo sit certum quod non sit contra Deum, obe- diendum est si est de eis que spectant ad eius prelationem… Si uero non est de eis que pertinent ad eius prelationem, liberum est subdito obedire uel non obedire…» (UGUC- CIONE DA PISA, Summa Decretorum, gl. Sed ponatur, ad C.XI q.3 d.a.c.1, Città del Vati-

disposizione statutaria può legittimamente assorbire lo ius maritorum? Innanzitutto: attraverso la locuzione ius maritorum Uberto identifica come diritto il ‘diritto dei mariti’ (ius maritorum) alla soggezione della moglie. Così egli afferma espressamente36:

…ornatus mulieris solius viri arbitrio videtur esse permissus, de conse., di. V, Fucare (D.V c.38 de cons.), XXXIII, q. V, Quod deo (C.XXXIII q.5 c.4). Est enim vir immediate caput mulieris, e. c. et q., Hec ymago (C.XXXIII q.5 c.13), XXXII, q. VI, Non mechaberis (C.XXXII q.6 c.5). Non ergo mulier ligatur statuto vel sententia que non valet.

Si ricorderà, l’argomento ha origine neotestamentaria: l’Apostolo Paolo giustifica il velo femminile come segno della soggezione della donna all’uomo37. Ma soprattutto, Isidoro di Siviglia aveva a suo tempo evidenziato l’assunto che il marito è ‘capo della moglie’, e che dunque l’abbigliamento della donna è indice della dignitas e della potestas ma- ritali. San Tommaso poi, in linea con il Decretum grazianeo, aveva sot- tolineato l’obbligo della moglie di compiacere il marito38. Uberto si appoggia proprio all’auctoritas grazianea in cui si fa riferimento a que- sto tema (D.V c.38 de cons.). Tuttavia la questione assume ora ben di- versa rilevanza, in ragione dell’ulteriore allegazione di quelle parti del Decreto (C.XXXIII q.5 c.4 et c.13) – studiate più sopra39 – in cui si spiega come si concretizzi tal genere di soggezione: vale a dire median- te il ‘permesso’ prestato dal marito all’abbigliamento scelto dalla mo- glie, in modo da configurare una sorta di accordo di natura vagamente consensuale, la cui natura giuridica non è quella del comando contenen- te un’imposizione, bensì quella dell’autorizzazione: l’autorizzazione maritale rispetto ad una volontà riconducibile non all’uomo ma alla donna. Non v’è dubbio che il marito sia capo della moglie: ciò è attesta- to nel c.13 della C.XXXIII q.5 in cui a parlare è nuovamente Agostino.

36 UBERTO DA CESENA, Questio disputata Bononie, sub 19in fi.

37 Cfr. supra, cap. I, § 1. Sul valore simbolico del velo femminile in Occidente cfr. M.G. MUZZARELLI, A capo coperto. Storie di donne e di veli, Bologna, 2018.

38 Cfr., per Isidoro, nel precedente cap. I, il § 3; per Tommaso, nel cap. IV, il § 3. 39 Cfr. il § 1 del cap. III. Sugli ulteriori sviluppi del tema della soggezione della moglie al marito cfr. G. MINNUCCI, La donna giudice, Innocenzo III e il sistema del

L’uomo, in quanto creato ad immagine di Dio, non deve velare il capo. Al contrario la donna deve indossare il velo «quia non est gloria et ima- go Dei»40. Infine sempre Agostino, in un passo rifluito in C.XXXII q.6 c.5, dichiara espressamente: «caput enim mulieris est vir». Ed è implici- to che Uberto non può non leggere queste fonti alla luce del principio generale fissato nel c.12 della medesima C.XXXIII q.541, secondo cui esiste un ordo naturalis per il quale la donna è soggetta all’uomo. Tant’è che il marito dovrà rispondere di fronte a Dio non soltanto della propria condotta ma anche di quella della moglie. Perciò egli è

immediate caput mulieris ed a lui spetta di autorizzare l’ornamento del-

la moglie. Da qui risulta che lo ius maritorum ha natura giuridica invio- labile.

Giunti a questo traguardo, si pone la necessità di andare più a fondo: con quale significato si deve intendere la relazione tra lo ius maritorum e gli iura aliorum?