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li. La revisione, approvata dal Parlamento nel 2005, fu bocciata dagli elettori nel 20064.

A questa prima ragione se ne può aggiungere un'altra, di natura più istituzionale e meno visibile. L’idea che in Parlamento possano accedere, per la prima volta5, mem- bri non parlamentari ha provocato una reazione oppositiva -forse non razionalizzata e quasi istintiva- da parte delle istituzioni parlamentari, che ha sicuramente contribuito a far calare una coltre di silenzio intorno all’art.11. D’altronde, quasi a farsi perdo- nare tale atteggiamento, il Parlamento mostrava di essere interessato a trovare una soluzione definitiva e non provvisoria al così criticato bicameralismo perfetto ela- borando una serie di iniziative legislative e di progetti di studio di notevole impat- to6.

A giustificare questa reazione ha contribuito, almeno a partire dal 2005 con la legge n. 207, anche l'adozione di una legge elettorale che non ha favorito la formazione di maggioranze sicure nelle due Camere. Il rischio di maggioranze diverse tra Ca- mera e Senato è divenuto realtà con l’elezione del 2013. Una tale situazione d'insi- curezza non ha certo favorito la creazione di un clima favorevole all'inserimento di una componente di rappresentanti degli enti territoriali all'interno della CPQR, che potrebbe comportare ulteriori rischi di tenuta per le maggioranze parlamentari.

L’insieme di questi fattori aiuta a spiegare, dunque, l'oblio in cui è caduto l’art.11. Verrebbe da concludere che riprendere a ragionare intorno alla sua attuazione non è altro che fiato sprecato se, invece, recenti vicende istituzionali non consigliassero un atteggiamento più attento e prudente.

Il primo fatto istituzionale che spinge a riprendere in considerazione il tema del- l'attuazione dell'art.11 è il fallimento della riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi. Brutto o buono che fosse quel progetto, esso provava a rompere la tradizio- ne del nostro bicameralismo perfetto, inserendo Regioni e Comuni nel circuito le- gislativo (e non solo) della Repubblica. Visto che questo fallimento segue a quello del 2005/2006, che pure intendeva porre fine al bicameralismo perfetto, è ragionevole pensare che di riforme costituzionali di ampio respiro non si tornerà a parlare nel breve periodo. Ragionare intorno all'attuazione dell’art.11, quindici anni dopo la sua introduzione nell’ordinamento giuridico, potrebbe quindi essere un esercizio non me- ramente accademico.

Il secondo fatto istituzionale è rappresentato dalla sent. 215/2016 della Corte costituzionale. Non è questa la sede per addentrarsi nell'analisi dettagliata dell’im- portante decisione. In estrema sintesi la Corte costituzionale ha stabilito che quan- do il legislatore delegato riforma istituti incidenti su competenze statali e regiona- li, che siano tra loro inestricabilmente connesse, è necessario ricorrere all'intesa, e non al mero parere, con le Regioni; intesa da adottare all'interno di una delle sedi del sistema delle Conferenze.

La sentenza inverte una giurisprudenza assestata che ragionava di irrilevanza formale degli atti delle Conferenze sul procedimento legislativo (sent. 437/2001). Se questa posizione della Corte dovesse consolidarsi (una posizione che, ancora una volta, sottolinea la «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni par- lamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi», quasi a enfatizzare la man-

cata attuazione dell’art.11), le conseguenze non saranno di poco conto, per alme- no due motivi.

In primo luogo, ogni volta che il Parlamento farà ricorso alla delega legislativa su materie su cui insistono competenze statali e regionali in maniera strettamente connessa, il Governo dovrà cercare la previa intesa con le Regioni prima dell'ap- provazione del decreto legislativo7. In secondo luogo, l’imposizione del vincolo pro- cedimentale dell'intesa all'interno della legislazione delegata lascia impregiudica- ta la questione dell'ampiezza del vincolo medesimo. In altri termini, è legittimo chie- dersi se tale vincolo debba valere solo per la legislazione delegata o per ogni nor- mazione primaria statale avente ad oggetto materie con forte intreccio competen- ziale. Un'’intrepretazione stretta della sentenza non può che portare verso la prima soluzione. In questa direzione pare andare anche l’autorevole parere del Consiglio di Stato, il quale, dopo aver osservato che la sentenza non si pronuncia sui proce- dimenti legislativi alternativi alla delegazione legislativa, ritiene «problematico in- dividuare per il Parlamento vincoli procedimentali diversi e ulteriori rispetto a quel- li tipizzati dalla Carta costituzionale»8. Ora, indipendentemente dalle interpretazione, appare evidente che è alto il rischio che la sentenza possa provocare uno squilibrio tra fonti primarie (solo l’uso della delega legislativa, ma non anche quello della leg- ge ordinaria, obbligando all’intesa). Da qui la possibile spinta per il Parlamento ad attuare finalmente l’art.11, così disinnescando il possibile sbilanciamento.

Un terzo significativo fatto istituzionale può essere rinvenuto nella recente at- tività della CPQR, la quale, l’11 novembre 2015, ha avviato un’indagine conosciti- va sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare ri- guardo al ‘sistema delle conferenze’, conclusasi, ad ottobre 2016, con la redazione di un approfondito documento finale9. Condotta nel periodo a cavallo tra l’appro- vazione parlamentare della legge costituzionale e lo svolgimento del relativo refe- rendum confermativo del 4 dicembre 2016, l’indagine, pur essendo focalizzata sul sistema delle conferenze, contiene continui riferimenti all’opportunità dell’attuazione dell’art.11, espressi dai soggetti auditi e fatti propri dalla Commissione nel Documento approvato10. Da non trascurare è anche la struttura del documento che, redatto su- bito prima del referendum del 4 dicembre, tiene conto dei due possibili scenari: di quello a costituzione invariata e di quello a costituzione mutata per effetto del re- ferendum. L'integrazione della Commissione parlamentare viene presentata, nel do- cumento, come «uno strumento per assicurare ‘a monte’, nell’ambito del procedimento legislativo, il rispetto del quadro delle competenze delineato dal titolo V della Co- stituzione».

Ancor più pregnante appare infine la recentissima deliberazione, da parte del- la medesima Commissione, di un'indagine conoscitiva nell’ambito dell'esame del- la relazione all’Assemblea sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie terri- toriali e sull'attuazione degli statuti speciali, adottata il 9 febbraio 201711. La deli- berazione è preceduta da una pregevole relazione del Presidente della CPQR, on.le Gianpiero D’Alia, che, nel fare il punto dei risultati raggiunti dalle due indagine co- noscitive appena menzionate, svolge un’attenta analisi dei principali punti proble- matici legati all’attuazione dell’art.11. La relazione si rivela di estremo interesse per-

ché è svolta in costante confronto con i contributi elaborati dal Comitato paritetico delle Giunte per il Regolamento della Camera dei deputati e del Senato della Re- pubblica nel 2002, valutati, per un verso, un imprescindibile punto di partenza e, per l'altro, come espressione di un contesto -quello immediatamente successivo al- l'entrata in vigore della riforma del 2001- profondamente mutato soprattutto per effetto della giurisprudenza costituzionale.

Al termine di questa breve ricognizione, non posso esimermi dall'osservare che essi sono, con evidenza, ancora troppo recenti per fare prognosi plausibili. Certo è che il loro insieme giustifica un ripensamento sull'opportunità di attuare la previ- sione contenuta nella legge costituzionale del 2001. Se il Parlamento, in questo scor- cio di legislatura, desse seguito alle meritorie iniziative della Commissione parla- mentare per le questioni regionali, di cui si è appena dato conto, sarebbe questo il segno dell'avvio di una nuova fase delle istituzioni parlamentari. Si darebbe vita, in- somma, a una piccola grande riforma: piccola nel senso che non sarebbe necessa- rio un procedimento di revisione costituzionale e grande perché gli effetti di inte- grazione sarebbero notevoli.

In via conclusiva mi preme solo ribadire che l’art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, oltre a contenere un’innovazione molto significativa per la configurazio- ne della funzione legislativa, presenta il vantaggio di consentire un’attuazione in- crementale. A differenza delle incognite istituzionali e delle difficoltà politiche con- tenute in ogni progetto organico di riforma del bicameralismo, la sua attuazione co- stituisce, se così si può dire, un approccio soft alla spinosissima questione della mo- difica della seconda Camera, consentendo l’introduzione graduale degli interessi de- gli enti territoriali all’interno del procedimento legislativo nazionale. Infatti, ove tali interessi si pongano in contrasto con l’indirizzo politico di maggioranza, quest’ulti- ma conserva comunque la possibilità di affermare la propria volontà. Allo stesso tem- po è indiscutibile l’apporto ‘sperimentale’ che un tale coinvolgimento potrebbe rap- presentare per l’adozione di deliberazioni legislative condivise anche dall’insieme dei poteri locali, che hanno il compito di dare attuazione, in via legislativa e ammi- nistrativa, a quelle deliberazioni medesime. Tale apporto diventerebbe così un im- portante elemento di valutazione per meglio apprezzare la possibilità di uno sviluppo ulteriore verso un effettivo bicameralismo differenziato in senso territoriale.

Il carattere incrementale dell’innovazione costituzionale in esame si esprime so- prattutto nel ventaglio di possibilità attuative insite nella formulazione dell’art.11. La dottrina, nell’analizzare i possibili significati derivanti dall’uso del verbo potere nel primo comma della disposizione in esame, si è per lo più soffermata sulla que- stione del carattere immediatamente vincolante dell’enunciato normativo. Mi pare allora opportuno aggiungere che –ove ne fosse avvertita l’opportunità politica- il le- gislatore può senz’altro graduare e frazionare nel tempo l’attuazione della Com- missione. È possibile cioè pensare all'integrazione della Commissione, senza ne- cessariamente dover predisporre l’immediata attribuzione dell’intera gamma di po- teri derivanti dalla norma. La modulazione dei poteri e delle competenze della CPQR costituisce un’altra preziosa possibilità da prendere in considerazione.

1. Ecco il testo completo dell’art.11: (1) «Sino alla revisione delle norme del titolo I della parte seconda della Costituzione, i regola- menti della Camera dei deputati e del Se- nato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Re- gioni, delle Province au tonome e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali». (2) «Quando un pro- getto di legge riguardante le materie di cui al terzo comma dell’art.117 e all’articolo 119 della Costituzione contenga disposizioni sul- le quali la Commissione parlamentare per le questioni regionali, integrata ai sensi del comma 1, abbia espresso parere contrario o parere favorevole condizionato all’intro- duzione di modificazioni specificamente for- mulate, e la Commissione che ha svolto l’esame in sede referente no vi si sia ade- guata, sulle corrispondenti parti del progetto di legge l’Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei suoi componenti». (e quindi non solo la riforma costituzionale fallita del 2005/6, ma anche la c.d. bozza Violante (ddl A.C. 553) nella XV Legislatura (2009), il progetto di riforma della XVI legislatura (A.C.5386, 2012) che, seppure in forma mi- nore, cambiava il bicameralismo, poi Grup- po di lavoro sulle riforme istituzionali no- minato dal Presidente della Repubblica il 30.3.2013, poi ancora la Commissione per le riforme costituzionali, nominata dal Pre- sidente del Consiglio Letta nel 2013 e com- posta da 35 membri, infine il progetto c.d. Boschi-Renzi sul quale si è andati a refe- rendum lo scorso 4 dicembre.

2. A.C., XIV Legislatura, Giunta per il regola- mento, 4 giugno 2002. A questa proposta hanno fatto poi ulteriormente seguito i la- vori svolti dalla Giunta per il regolamento

di Camera e Senato, illustrati nella relazione degli onorevoli Boato e Deodato pubblica- ta integralmente in allegato al resoconto del- la seduta della Giunta per il regolamento del 28 novembre 2002.

3. Per non appesantire eccessivamente l’ana- lisi, si è preferito inserire gli essenziali ri- ferimenti bibliografici alla fine dello scrit- to.

4. La legge fu pubblicata in G.U.R.I. 18 no- vembre 2005 n.269 e il referendum si svol- se nei giorni 25 e 26 giugno 2006. 5. Si prescinde ovviamente dall'ipotesi del-

l'integrazione del Parlamento in seduta co- mune con rappresentanti della Regione ai fini dell'elezione del Presidente della Re- pubblica.

6. E quindi vanno ricordate non solo la rifor- ma costituzionale fallita del 2005/6, ma an- che la c.d. bozza Violante (ddl A.C. 553) nel- la XV Legislatura (2009) e il progetto di ri- forma della XVI legislatura (A.C.5386, 2012) che, seppure in forma minore, cam- biava il bicameralismo; ma anche, per quanto non riconducibile all’attività del Parlamento, il Gruppo di lavoro sulle ri- forme istituzionali nominato dal Presiden- te della Repubblica il 30.3.2013, seguito dal- la Commissione per le riforme costituzio- nali, nominata dal Presidente del Consiglio Letta nel 2013 e composta da 35 membri; infine, tornando nuovamente al Parla- mento, il progetto c.d. Boschi-Renzi sul quale si è andati a referendum 4 dicembre 2016.

7. Va tuttavia osservato che, nel caso di spe- cie, la materia, per parte regionale, tocca- va la potestà residuale regionale sicché potrebbe ritenersi che il principio sancito dalla Corte valga solo in questo caso.

8. Consiglio di Stato, Commissione speciale, Parere del 17 gennaio 2017, n.83, in https://www.giustizia-amministrativa.it. 9. Commissione parlamentare per le questio-

ni regionali, Doc.XVII-bis, n.7.

10. Cfr. in particolare p. 6, 88.

11. Cfr. il resoconto di giovedì 9 febbraio 2017, p.199 ss.

Uno dei principali effetti negativi, derivanti dalla mancata attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione (l. cost. n. 3 del 2001) e, più in generale, dalla di- sattenzione che il legislatore statale – successivamente a tale riforma – ha mostra- to nei confronti dei Comuni, delle Città Metropolitane e delle Province, concerne l’eser- cizio delle funzioni amministrative.

Più in particolare, contravvenendo al nuovo dettato dell’art. 118 Cost., ed alla regola dell’allocazione – in sussidiarietà verticale – delle funzioni amministrative nei confronti degli Enti locali, numerose Regioni a statuto ordinario hanno viceversa con- servato a sé ampi settori di attività amministrativa, ed hanno posto in essere un si- stema di forte ingerenza sull’amministrazione esercitata dalle autonomie locali.

Tutto ciò ha sostanzialmente perpetuato il previgente principio del c.d. “paral- lelismo”, tra la funzione legislativa e la funzione amministrativa (art. 118 Cost., te- sto originario), ed ha confermato la negligenza che le Regioni avevano di regola già serbato nei confronti del medesimo art. 118 Cost., ultimo comma, ancora testo ori- ginario (“La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni, o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”).

Più in concreto, e sul versante statale, l’ultimo conferimento generalizzato del- le funzioni amministrative, in favore degli Enti locali, risale tuttora al vigente d.lgs. n. 112 del 1998, soltanto minimamente aggiornato.

Le ragioni di questo odierno assetto istituzionale possono essere così compendiate. Lo Stato, nonostante la delega legislativa (più volte temporalmente reiterata nel suo termine finale) recata nell’art. 2, legge n. 131 del 2003, e rivolta alla attuazio- ne del nuovo art. 117, comma 2, lett. p), Cost., non ha provveduto a trasformare l’at- tuale “Testo unico degli Enti locali” (ancora datato all’anno 2000) in una snella “Car- ta delle Autonomie Locali”, informata ad una legislazione di “principi”, e dedicata: a disciplinare esclusivamente il sistema elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali degli Enti locali; a valorizzare la loro autonomia normativa – statu- taria e regolamentare – ad oggi espressamente riconosciuta negli articoli 114, secondo comma, e 117, sesto comma, Cost.

Ancora lo Stato è venuto meno – nelle materie di legislazione concorrente (art. 117, comma 3, Cost.) – alla emanazione delle leggi dirette a fissare, in ciascuna di queste materie, i relativi “principi fondamentali”: quei principi che, sia nella disci- plina normativa di riferimento, che nella conseguente allocazione delle funzioni am-

ministrative agli Enti locali, avrebbero potuto e dovuto porre i conseguenti limiti alla legislazione regionale.

È così che numerose Regioni a statuto ordinario, nell’esercizio della propria po- testà legislativa – ed in specie all’interno di quelle materie “concorrenti” che, in as- senza dei predetti “principi fondamentali” fissati nella legislazione statale, sono di fatto divenute materie di legislazione regionale esclusiva – hanno mantenuto a sé ampi ambiti di amministrazione attiva e diretta, evitandone il conferimento in fa- vore degli Enti locali; ed hanno altresì, sebbene sulle funzioni amministrative co- munque attribuite alle autonomie locali, conservato numerosi strumenti di ingerenza e controllo.

Per parte loro gli Enti locali – perpetuando anche in questo caso le carenze di una “cultura” normativa che, a partire dalla legge n. 142 del 1990, ha sempre eviden- ziato limiti profondi – non hanno valorizzato né lo strumento statutario né tanto meno, e vieppiù, la riserva di autonomia regolamentare (art. 4, terzo e quarto comma, leg- ge n. 131 del 2003), per disciplinare l’organizzazione, lo svolgimento e la gestione delle funzioni amministrative loro attribuite.

Gli effetti di questo odierno assetto istituzionale possono essere verificati osservan- do, anche soltanto all’interno di una “materia” – ma una materia di indubbia im- portanza, quale quella del “governo del territorio” –, le funzioni amministrative con- servate da alcune Regioni, le conseguenti forme di amministrazione attiva, e le mo- dalità con le quali la stessa amministrazione regionale si ingerisce all’interno del- l’amministrazione locale.

A dimostrazione di ciò sta, come esempio paradigmatico, la legge della Regio- ne Lombardia, n. 12 del 2005 (“Legge per il governo del territorio”): come noto in questa materia – ascritta alla legislazione concorrente (art. 117, comma 3, Cost.) – manca tuttora la relativa legge statale di fissazione dei “principi fondamentali”. Da qui la sostanziale competenza legislativa esercitata, in via esclusiva, dalla Regione Lombardia e dalle altre Regioni a statuto ordinario.

Sul piano della organizzazione amministrativa, la legge regionale n. 12 del 2005: istituisce un apposito “Osservatorio permanente della programmazione territoria- le” (art. 5), volto a sovraintendere alle concrete pianificazioni locali; prevede forme di “supporto agli Enti locali” (art. 23), anche assistite dalla “erogazione di contributi” economici (art. 24), che l’amministrazione regionale implementa “per la predispo- sizione degli atti di programmazione e pianificazione” locale, evidentemente in vi- sta di una loro possibile uniformità standardizzante.

Ancora, e sul piano della attività amministrativa: si dettagliano esaustivamen- te, in specie con riferimento alla efficacia dei singoli “piani di governo del territorio” comunale, gli obblighi conoscitivi che gli Enti locali sono tenuti ad assolvere nei con- fronti dell’amministrazione regionale (art. 13, comma 11); l’esercizio degli “inter- venti sostitutivi” regionali, attivati allo scopo di sopperire alla mancata approvazione dei “piani attuativi comunali”, è consentito in assenza delle ordinarie garanzie di par- tecipazione e leale collaborazione (art. 14); la definizione degli “interventi edilizi”

(art. 27), i contenuti del “regolamento edilizio” comunale (art. 28), ed ancora le fat- tispecie di “intervento sostitutivo” regionale – sulla inerzia serbata dall’amministrazione comunale, in sede di rilascio del permesso di costruire – sono minuziosi e cogenti; altrettanto ampi e pervasivi sono i “poteri regionali di annullamento e di inibizio- ne” (art. 50), sui permessi di costruire adottati in violazione di previsioni contenu- te in atti di pianificazione territoriale, e “definite di interesse regionale”.

Sulla falsariga della legge regionale lombarda, si colloca – con contenuti so- stanzialmente analoghi – la legge della Regione Lazio n. 38 del 1999 (“Norme sul governo del territorio”), evidentemente profondamente emendata, in tal senso, suc- cessivamente all’anno 2001.

A dimostrazione del fatto che – pur sempre in tale “materia” – le Regioni possono invece percorrere itinerari differenti, diretti ad affidare agli Enti locali ampie funzioni amministrative, ed una rilevante autonomia organizzativa, sta la legge della Regione Emilia-Romagna n. 20 del 2000 (“Disciplina generale sulla tutela e l’uso del terri- torio”), anch’essa emendata a seguito della riforma costituzionale dell’anno 2001: ivi la Regione esercita le proprie competenze legislative, e le correlate potestà di pro- grammazione e pianificazione, ma retrocede dalla amministrazione diretta – sulla urbanistica e sulla edilizia – in favore delle amministrazioni locali.

1. PREMESSA

Dall’esito del referendum del 4 dicembre 2016, oltre a derivare le conseguenze for- malmente ‘necessitate’ (e cioè che, essendo stata bocciata dal corpo elettorale, quel- la riforma della Costituzione è rimasta una proposta, non determinando alcun effetto giuridico), sembra non infondato inferire che sul piano politico-istituzionale sia – non soltanto opportuno (vista la nettezza della risposta referendaria), ma anche – dovuto rivisitare la legislazione ordinaria che era stata emanata in vista della rifor- ma, o, meglio, impropriamente sulla base di essa: vista la prassi che negli ultimi lu- stri si è andata consolidando in ragione della maggior speditezza della procedura di approvazione delle leggi ordinarie rispetto a quella delle leggi costituzionali, la locuzione ‘sulla base’ si lascia preferire, rivelandosi, benché giuridicamente erronea, più calzante per descrivere il fenomeno sotto il profilo della effettività.

Il dibattito in corso fra le forze politiche, peraltro, sembra soffrire di una precoce amnesia istituzionale: esso in effetti pare svolgersi come se quel referendum non si