Regione, se prevalgano, per così dire, gli elementi di governo o gli elementi di go- vernance. A questo proposito, vale la pena proporre una soluzione che non si limiti a ripristinare lo status quo ante, ossia l'elezione diretta per tutte le Province, ma che sia sufficientemente elastica e allo stesso tempo rigorosa da un punto di vista dog- matico, oltreché rispettosa delle garanzie costituzionali dell'autonomia locale. La so- luzione è ispirata dalla comparazione con il modello tedesco e, del tutto inevitabil- mente, risente quindi del contesto federale nel quale si è sviluppata. La Corte co- stituzionale federale di Karlsruhe e più di recente quella del Land Schleswig-Holstein (sentenza del 26 febbraio 2010, LVerfG 1/09) hanno, infatti, svolto un test per ve- rificare che enti locali associativi, intermedi tra i Comuni e il Land, i cui organi po- litici sono privi di legittimazione democratica diretta, non svolgessero in misura pre- valente funzioni di governo rispetto a funzioni di governance. L'impostazione della giurisprudenza tedesca è la seguente: la natura territoriale o associativa degli enti locali non è data una volta per tutte, ma può mutare nel tempo sulla base delle fun- zioni che vengono loro conferite o delegate. Perciò tanto al legislatore, quanto ai Co- muni è fatto divieto di conferire o delegare in misura prevalente funzioni di gover- no a enti associativi che abbiano organi formati con elezioni di secondo grado. O il legislatore decide di introdurre l'elezione diretta oppure non può conferire o auto- rizzare la delega da parte dei Comuni di funzioni di governo in via prevalente agli enti associativi. Applicare questa giurisprudenza al caso italiano significherebbe apri- re le porte a una differenziazione anche nella legittimazione democratica di Province e Città metropolitane da Regione a Regione (magari fissata con legge statale nel sen- so di stabilire che se Province e Città metropolitane esercitano un numero di funzioni aggiuntive assegnate loro dalla Regione allora l'elezione dovrà essere diretta, vice- versa l'elezione rimarrà indiretta), il che è forse problematico dal punto di vista del- la compatibilità con l'art. 117, co. 2 lett. p) Cost., che impone una legislazione elet- torale uniforme (?) a livello statale, ma è logico e ragionevole nella misura in cui il novero delle funzioni viene sensibilmente a modificarsi a livello regionale, oltreché funzionale alla realizzazione di diversi sistemi regionali delle autonomie.
D’altra parte, del fatto che debba essere il profilo funzionale a guidare il discorso sulla legittimazione democratica sembra essere convinta anche la Corte costituzio- nale che, con la sua sentenza 24/03/2015, n. 50, ha rilevato come le Regioni ricorrenti avessero posto la questione di costituzionalità sul rispetto della Carta europea del- l'autonomia locale «in termini generali e astratti, senza alcun riferimento puntuale né alla concreta disciplina né ai compiti attribuiti alle Città metropolitane e alle nuove Pro- vince, profilo, quest’ultimo, non irrilevante anche nella prospettiva della Carta europea». A tal proposito, è quindi vero che l'art. 3, comma 2 CEAL pretende l’elezione a suffragio universale e diretto degli organi politici di tutti gli enti a cui la Carta si applica, ma tale disposizione va letta in combinazione anche con l’art. 3, comma 1 CEAL, ossia nel senso che gli enti locali abbisognano di una legittimazione democratica diretta qualora esercitino sotto la propria responsabilità prevalentemente funzioni di governo nell'interesse della comunità territoriale. Viceversa, la “giurisprudenza” del Congresso autorizza l’elezione indiretta di tali organi nel caso in cui prevalgano le funzioni di coordinamento orizzontale e di assistenza per gli enti di prossimità. Tale ultimo sem-
bra essere il caso delle Province italiane secondo il giudizio della Consulta. Nondi- meno, spiega la Corte, il legislatore deve comunque predisporre «meccanismi alter- nativi che permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori de- gli interessi coinvolti». Nell’ordinamento italiano tale meccanismo sarebbe stato as- sicurato dalla sostituzione di coloro che sono componenti “ratione muneris” dell’organo indirettamente eletto quando venga meno il munus.
Anche ammettendo che tutte le Province e le Città metropolitane esercitino fun- zioni prevalentemente di coordinamento e assistenza v'è da dubitare che tale mec- canismo sia sufficiente per assicurare una reale partecipazione dei soggetti coinvolti. La rappresentatività delle comunità locali in seno al consiglio provinciale o a quel- lo metropolitano è, infatti, un valore costituzionale da utilizzare come parametro per verificare se tale partecipazione sia realmente assicurata. A questo proposito, vale allora la pena riflettere fino a che punto l'uguaglianza del voto in uscita sia garan- tita con il sistema elettorale di Città metropolitane e Province, a causa dell’unicità dei collegi elettorali per ciascuna Provincia o Città metropolitana, del passaggio dal voto di preferenza al voto su liste bloccate con eventuale preferenza (cfr. art. 1, com- mi 74, 75, 76, così come modificati dal decreto-legge 24 giugno 1990, n. 90 e con- vertito in legge 11 agosto 2014, n. 114) e a causa di un indice di ponderazione del voto più che sbilanciato verso la fascia demografica di Comuni più grandi. Aver poi superato l'elezione contestuale di Consiglio e Presidente, pur essendo necessario in vista della creazione di un ente di coordinamento dei Comuni non rappresentativo della comunità territoriale, pone problemi dal punto di vista del buon funzionamento della forma di governo che si assume presidenziale, vista la competenza generale- residuale attribuita al Presidente, ma che in realtà, per esigenze economico-orga- nizzative, è evoluta verso forme quasi assembleari con la creazione di pseudogiun- te (consiglieri delegati) e la nomina di presidenti alternativi a quelli eletti da parte del consiglio (si veda in Piemonte il caso di Asti). La scarsa armoniosità dei rapporti tra organi è insomma il frutto della non contestualità delle elezioni di consiglio (due anni) e presidente (quattro anni), oltreché della assenza di strumenti adeguati per far valere la responsabilità politica dell’esecutivo provinciale. Taluni hanno argo- mentato ritenendo che, a maggior ragione a livello locale, in collegi elettorali di di- mensioni ridotte le esigenze di governabilità possano fare premio sulle aspettative di rappresentatività con maggiore nettezza rispetto a collegi di più ampie dimensioni. Peccato però che, all'esito di uno scrutinio di proporzionalità, il sacrificio di rap- presentatività imposto dalla legge elettorale con collegio unico e ponderazione del voto non sembri in realtà di per sé necessario a garantire maggiore governabilità, non esistendo un vero rapporto maggioranza-opposizione. Sembra quindi opportuno rivedere i rapporti tra organi, eventualmente nel senso di trasformare il consiglio pro- vinciale in organo eventuale, da sostituire con l’assemblea dei sindaci, ad oggi piut- tosto ininfluente, probabilmente almeno laddove i Comuni della Provincia siano non più di trenta o quaranta (in particolare nelle Province toscane e in alcune Province dell'Emilia-Romagna e delle Marche). Infine, risulta in palese violazione dell'art. 51 Cost. oltreché del diritto costituzionale comune europeo cristallizzato all'art. 7, co. 2 CEAL l’esercizio di un mandato politico senza la corresponsione di un'indennità,
che va dunque ripristinata in proporzione alle attività svolte e a seconda delle di- mensioni del Comune di provenienza del consigliere o Sindaco.
Per quanto riguarda le Città metropolitane, pesa da un lato la scelta di farne del- le proiezioni dei Comuni capoluogo, prevedendo l'automatica coincidenza del Sin- daco metropolitano con il Sindaco del Comune capoluogo, dall’altro l’opposta (e con- traddittoria) scelta eventuale di farne enti di governo anziché enti di governance fe- derativi, differenziando il passaggio al suffragio universale e diretto a seconda del- le dimensioni della Città metropolitana. Quanto al primo profilo, la Corte costitu- zionale ha rilevato che la sua coincidenza con il Sindaco del Comune capoluogo «non è irragionevole in fase di prima attuazione del nuovo ente territoriale (attesi il parti- colare ruolo e l’importanza del Comune capoluogo intorno a cui si aggrega la Città metropolitana), ma non è, comunque, irreversibile, restando demandato, come detto, allo Statuto di detta Città di optare per l’elezione diretta del proprio Sindaco» (punto 3.4.4. del Considerato in Diritto). Se dunque la Corte sembra prefigurare che la coin- cidenza tra Sindaco metropolitano e Sindaco del Comune capoluogo possa in un fu- turo dimostrarsi irragionevole, allo stato attuale manca la legge dello Stato che di- sciplini l'elezione diretta per i consigli metropolitani e i sindaci metropolitani di Mi- lano, Napoli e Roma Capitale i cui Statuti sono stati emendati (vi sono proposte del- la Lega Nord giacenti in Parlamento, mentre Vandelli suggerisce di ripristinare so- stanzialmente la legge elettorale previgente sulla base degli artt. 74-75 TUEL). Per il resto, deve altresì rilevarsi come irragionevole appaia sin d'ora la disposizione di cui all’art. 1, comma 22 della cd. legge Delrio nella parte in cui stabilisce che solo le comunità delle Città metropolitane più popolose (Roma Capitale, Milano e Na- poli) possano prescindere dal frazionamento del Comune capoluogo in più Comu- ni per dotarsi di un Sindaco e di un Consiglio metropolitani a suffragio universale e diretto. A questo punto, al fine di consentire a ciascuna Città metropolitana di sce- gliere quale modello seguire (quello associativo di Francia o Spagna o quello di go- verno del Regno Unito), è ragionevole che tale regola sia applicabile a tutte le Cit- tà metropolitane, come ipotizzato nel ddl Delrio originario. Nel merito, la soluzio- ne del frazionamento non mi sembra francamente praticabile nel contesto italiano. La costruzione della Greater London Authority, citata da Vandelli, non è avvenuta a tavolino, ma rispetta i confini tra boroughs di origine medievale (fuori e dentro le mura, per così dire) e si è sviluppata attraverso l’aggregazione e non lo scorporo.
In Italia lo scorporo del territorio di un Comune ai fini dell’istituzione di nuovi Comuni coincide con la fase di un procedimento che, pur dovendosi iniziare con un referendum metropolitano, deve però concludersi con l’approvazione di una legge regionale istitutiva dei nuovi Comuni. Per le Città metropolitane meno popolose, allo stato, la scelta in ordine all’elezione diretta dei propri organi politici verrebbe in re- altà subordinata a una decisione della Regione; Regione che, a sua volta, non sarebbe del tutto libera di istituire nuovi Comuni sul proprio territorio, ma che, oltre ai li- miti demografici stabiliti dall’art. 15, comma 1 T.U.E.L., dovrebbe poi tenere conto anche «dell’indefettibile regola dell’invarianza finanziaria» (di recente a tal propo- sito Corte costituzionale, sent. n. 171/2014, rel. Carosi), in base alla quale «le ope- razioni di scorporo non possono prescindere da una previa analisi di fattibilità eco-
nomico-finanziaria dal momento che l’attuazione della volontà autonomistica non può gravare sulla fiscalità generale come avverrebbe nel caso in cui lo Stato o la Re- gione fossero tenuti a finanziare gli equilibri di tali operazioni» (Punto 4.1. del Con- siderato in Diritto, sent. 50/2015). Lo scorporo dei Comuni capoluogo, come ad esem- pio Torino e Genova, avrebbe un impatto non trascurabile sull’ordinamento di tale area vasta, non soltanto dal punto di vista del trasferimento dei beni e del personale alle nuove entità, ma anche sotto il profilo della ripartizione del patrimonio e degli oneri debitori. In Provincia di Torino è ben noto il caso del Comune di Mappano. Già solo per farne nascere uno ci sono voluti dieci anni. Senza contare che il territorio della Città metropolitana di Torino, constando di 317 Comuni, è già oggi profon- damente frammentato, sicché il buon andamento dell’attività amministrativa loca- le ex art. 97 Cost. rischierebbe di risultarne ulteriormente pregiudicato qualora si addivenisse a uno scorporo del principale centro urbano in più Comuni di modeste dimensioni.
Parlando del governo locale, tra le conseguenze che la mancata approvazione refe- rendaria della legge di revisione costituzionale “Renzi-Boschi” ha scongiurato, spic- ca la cancellazione delle provincie dal testo costituzionale.
Quella parte dell’opinione pubblica e della classe politica che ha fatto dell’abo- lizione di questo livello di governo quasi una “battaglia di civiltà” sarà indotta a pen- sare che debba esserci una forza ultraterrena che interviene a salvare le province sul- l’orlo del precipizio ogni volta che la loro fine sembra cosa fatta. Se si guarda alla loro storia nello Stato italiano unitario, a ogni cambio di regime o grande passaggio ri- formatore la loro necessità e il loro ruolo sono stati messi in discussione.
L’origine ambigua delle provincie come circoscrizioni territoriali in cui prima di tutto si riparte l’amministrazione dello Stato in contrapposizione con la forte cari- ca identitaria locale storicamente propria dei comuni è probabilmente la principa- le causa della cattiva stampa di cui hanno quasi sempre goduto.
Secondo l’opinione che sembra prevalere, peraltro, la cancellazione del riferi- mento alle province nel testo della Costituzione non avrebbe comportato immediati mutamenti dell’attuale quadro legislativo. Il riferimento, si intende, è alla effettiva cancellazione delle province dalla geografia istituzionale italiana. La riforma costi- tuzionale veniva considerata una sorta di legittimazione postuma della legge 56/2014 (Delrio) specialmente con riferimento alla questione della rappresentati- vità indiretta di enti territoriali costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. Eliminato il riferimento alle province dalla Carta costituzionale, peraltro, eventua- li futuri interventi soppressivi da parte del legislatore ordinario non avrebbero più trovato ostacoli nella rigidità delle previsioni costituzionali.
La Corte costituzionale con la nota sentenza n. 50 del 2015 aveva, peraltro, ri- tenuto infondati i dubbi di incostituzionalità del modello. Come argomentato dal Go- verno per bocca del sottosegretario Bressa in una risposta a interrogazione del feb- braio 2017 alla Camera, dalla mancata approvazione della riforma costituzionale non deriverebbe, pertanto, alcun vizio di legittimità costituzionale della legge Del- rio, paventata da alcuni deputati, avendo la Corte costituzionale chiarito che un mec- canismo elettivo di secondo grado è compatibile tanto con il principio democratico quanto con quello autonomistico. Ciò detto, è anche sul piano dell’opportunità po- litica che il problema della natura elettiva dei consigli provinciali – venuta meno la prospettiva abolizionista – rimane aperto. Su ciò si ti tornerà brevemente tra un mo- mento.
L’argomento utilizzato dalla Corte nella citata sentenza per superare l’obiezio- ne legata alla necessaria natura direttamente rappresentativa degli enti territoria- li costituenti la Repubblica consiste nel richiamo al principio di differenziazione, di cui come noto si parla all’art. 118 Cost. con riferimento al conferimento delle fun- zioni. Invero, tale impiego di un principio organizzativo – il cui obiettivo è favorire a ogni livello di governo, a seconda dei vari contesti territoriali e dimensionali, dif- ferenze nell’allocazione de compiti agli enti locali – per costruire un principio ri- guardante invece la “forma di stato” dei poteri pubblici territoriali, tutti allo stesso modo dotati di autonomia e di poteri propri, suscita diverse perplessità, puntualmente segnalate dalla dottrina all’indomani della sentenza in questione.
Proprio il riferimento al principio di differenziazione consente di interrogarsi sul- le prospettive. Il tema della differenziazione è continuamente evocato come antidoto alla uniformità di forme di governo, organizzazione e funzioni che sin dall’inizio ha caratterizzato il sistema costituzionale delle autonomie territoriali. In realtà, tale dif- ferenziazione è rimasta lettera morta sia sul piano dell’allocazione dei compiti, cui si riferisce direttamente l’art. 118 Cost., sia su quello istituzionale-organizzativo, che dovrebbe essere conseguenza del primo e collegarsi alle misure e processi di asso- ciazionismo/fusione. È utile ricordare che secondo l’art. 4.2, lett. g) l. 59/1997 il prin- cipio di differenziazione riguarda «l’allocazione delle funzioni in considerazione del- le diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e struttura- li degli enti riceventi».
Una delle ragioni di questa situazione, cui chi scrive ha fatto altre volte riferimento su questa Rivista (S. Civitarese Matteucci, Sistema regionale-locale e finanziamento delle autonomie, Istituzioni del Federalismo 1/2, 2010, 81 ss.), risiede nel mancato decollo di un sistema ‘regionale’ delle autonomie – di quel sistema regionale-loca- le previsto dall’art. 4 del testo unico enti locali – a causa del perdurante ruolo uni- formante della disciplina statale sugli enti locali.
La riforma del titolo V della Costituzione del 2001 non incise sul punto, piutto- sto consolidò il modello del doppio canale Stato-Regioni, Stato-enti locali, nel qua- le il canale Regioni-enti locali finisce per riguardare spazi marginali. Lo stesso art. 114, prefigurando un sistema policentrico o a rete, nel quale enti locali e regioni sono sullo stesso piano, finisce per confermare il ruolo centrale dello Stato. Il più evidente sintomo della permanenza di questo modello è costituito dalla giurisprudenza del- la Corte costituzionale sull’art. 117, comma 2, lett. p) della Costituzione, che ha con- tinuato a interpretare la competenza legislativa esclusiva dello Stato su elezioni, or- gani di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Province come sostanzialmente coestensiva con la materia innominata “ordinamento degli enti locali”.
Non è detto che per una politica di differenziazione delle forme di governo lo- cale sia indispensabile attribuire più decisamente alle regioni il ruolo di disciplina dell’assetto delle autonomie locali. Basti pensare al caso inglese, ove le regioni non vi sono e i governi locali hanno molteplici regimi organizzativi e funzionali. Inoltre, vi è il problema, ancora più complesso, delle regioni stesse come sono ora. Se cer- tamente, come afferma Luciano Vandelli nel presentare una importante ricerca sul regionalismo (Vandelli, Bassanini, Il federalismo alla Prova: regole, politiche, diritti
nelle regioni, il Mulino 2012, p. 12), oggi le regioni si sono radicate nel tessuto isti- tuzionale e nella percezione dei cittadini, resta la questione della dimensione e del numero delle regioni nonché di una dialettica uniformità/differenziazione che si basa praticamente solo sull’anacronistica divisione tra le regioni a statuto ordinario e spe- ciale, stante anche l’inattuazione dell’art. 116 della Cost. Come dire che la forzosa indifferenziazione regionale (per cui Lombardia e Molise sono uguali) costituisce un ulteriore ostacolo alla differenziazione del governo locale.
Ciò detto, a me sembra che nel contesto italiano, sia difficile ipotizzare governi locali differenziati senza puntare a un ruolo chiave delle regioni su questo. Per que- sto motivo, a mio modo di vedere, un aspetto positivo della riforma costituzionale del 2016 nella direzione della differenziazione era costituito da quanto previsto dall’art. 40.4 della legge costituzionale, secondo cui le disposizioni in materia di enti di area vasta sarebbero state adottate con legge regionale, fatti salvi i profili ordinamentali generali definiti con legge dello Stato, unitamente alla soppressione del farraginoso procedimento per la revisione delle circoscrizioni provinciali previsto dall’art. 133. Da questa previsione derivava, d’altronde, necessariamente anche il progressi- vo superamento delle province come ridisegnate dalla legge Delrio, per andare ver- so enti di area vasta concepiti dalle regioni. Certo è vero che si sarebbe dovuta at- tendere l’interpretazione da parte del legislatore statale dell’espressione «profili or- dinamentali generali» prima di poter parlare di modelli regionali diversificati del go- verno di area vasta.
La coesistenza delle ‘provincie Delrio’ con la cornice costituzionale vigente non è, però, così priva di asperità come sembra ritenere il governo e in ogni caso la que- stione dell’area vasta e delle città metropolitane, come disciplinate dalla legge stes- sa, è ancora tutta sul tappeto. Prendendo a prestito le parole di due giovani studio- si, «il lungo e non facile cammino delle città metropolitane in Italia merita miglior conclusione che non la creazione di peculiari enti consistenti in province capoluo- go sotto mentite spoglie» (M. Carrer, S. Rossi, Le città metropolitane in Europea, IFEL (Istituto per la Finanza e l’ Economia Locale) – Fondazione Anci, 2014, p. 96). Una diversa concezione delle città metropolitane richiede viceversa di differenziare que- ste dalle provincie e di consentire forme di coordinamento e associazionismo real- mente flessibili sotto il coordinamento e la regia regionali.
Non è questa la sede per occuparsi delle città metropolitane, ma va detto che an- che in questo caso la scelta è stata quella di calare un modello uniformante dall’al- to che tra l’altro non corrisponde ad alcuna delle esperienze riscontrabili negli al- tri paesi europei.
Restando alle provincie, vi sono quattro aspetti della l. 56/2014 che la manca- ta entrata in vigore della riforma costituzionale riporta alla luce. Essi riguardano la