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delle autonomie regionali: compito non semplice ma ineludibile

2. PERCHÉ IL PROGETTO AUTONOMISTICO RIMANE“FONDANTE” LA REPUBBLICA(IL NESSO TRA ARTICOLO2 E5 DELLA COSTITUZIONE CON IL TITOLO V) E PERCHÉ VI È“BISOGNO” DI

REGIONI

Il regionalismo ha giocato e può ancora giocare un ruolo rilevantissimo nel nostro Paese.

Quello del 1948 si è collocato in un contesto storico e sociale che spinse tutte le maggiori forze politiche a condividere un progetto comune: cancellare le disugua- glianze personali e territoriali: di qui una Costituzione pensata all’interno di una pro- spettiva fortemente unitaria, indipendentemente da ogni distinzione e differenza ter- ritoriale. Ricordiamo tutti come le diverse posizioni ideologiche all’interno dell’As- semblea Costituente siano state ricondotte ad un’unità nell’orizzonte della garan- zia di uguali condizioni di vita ai cittadini.

Alle differenze territoriali, infatti, non venne conferito un valore in sé (a parte la vicenda delle Regioni speciali che non a caso si consumò prima e al di fuori di quei dibattiti), ma, al contrario, il loro rilievo venne associato per un verso al principio democratico (art. 1), e per l’altro alla garanzia dello sviluppo della personalità uma- na, attraverso la valorizzazione delle comunità territoriali (art. 2). L’articolo 5, per- tanto, che costituisce la sintesi perfetta di tali principi, venne volutamente espunto dall’originaria collocazione nel Titolo V per essere inserito nei Principi fondamen- tali.

L’espansione del welfare unitario (che ha garantito ai partiti una forte rendita po- litica) ha poi prodotto, come noto, la crisi che si è aperta all’inizio degli anni Novanta che, non a caso, è stata anche caratterizzata da una forte domanda di riconoscimento delle specificità locali e regionali e, dunque, dalla richiesta proveniente non solo dal mondo politico, di spezzare l’accoppiata Stato dei partiti-Stato sociale, per una mag- giore considerazione della logica delle differenze territoriali soprattutto nelle sedi di concertazione.

A questa crisi il decentramento del 1997-1998 ha fornito più di una risposta tec- nica (differenziazione, adeguatezza sussidiarietà, semplificazione…), mentre la re- visione costituzionale del 2001, ha costituto una risposta più prettamente “politica”. Al di là delle carenze presto evidenziate sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza costituzionale, in ogni caso quella revisione costituzionale tentava di ristabilire un equilibrio tra esigenze di uniformità e necessità di differenziazione territoriale nel contestuale esercizio sia degli strumenti di differenziazione disponibili dalle Regioni sia degli strumenti di differenziazione disponibili dallo Stato.

Nonostante quanto sopra detto e quanto ancora si potrebbe dire in proposito (so- prattutto dal punto di vista della incapacità delle stesse Regioni di interpretare un regionalismo, anziché riprodurre fedelmente le divisioni politiche nazionali, come accade da sempre nelle varie Conferenze), di Regioni vi è un reale bisogno.

Prima ancora che in forza del dato formale della loro previsione costituzionale, per la scala territoriale che potrebbero impersonare nella co-regolazione di deter- minate politiche ed interessi (tutto il terreno dei diritti del welfare, dai servizi sociali all’istruzione, alle politiche attive del lavoro); per la presenza radicata di soggetti del

“sociale” (dalle fondazioni bancarie alle organizzazioni non profit) che nella di- mensione regionale investono capitali economici ed umani, per la naturale re- sponsabilità politica ed economica che lega (o dovrebbe legare) gli amministratori ai loro territori; e ancora per l’esigenza di un regolatore del “traffico” istituzionale sempre più intenso, e ormai in grado di intasare qualunque percorso, attraverso la selva non solo degli enti competenti territoriali e funzionali su qualunque questio- ne, ma altresì dei procedimenti e delle procedure messe in atto dagli stessi; infine per essere, in linea generale e salve le eccezioni delle regioni “piccole”, la scala ter- ritoriale ottimale per le dotazioni infrastrutturali (intese come capitale pubblico di alcune categorie infrastrutturali tra cui certamente trasporti, comunicazioni, ener- gia, istruzione, ambiente e sanità), come gli economisti da tempo ripetono, anche specificando che per questi la scala regionale non coincide sempre e perfettamen- te con i confini delle nostre attuali Regioni.

Comuni e Province, per un verso o per l’altro, si pongono su livelli diversi che pro- prio per le dimensioni territoriali (tolte le eccezioni delle grandi città e province, ov- viamente) non hanno la massa critica per essere interlocutori politici di imprese, fon- dazioni, Università, etc.., per rimanere alle istituzioni nazionali. Il che non equiva- le a disconoscere il loro ruolo, semplicemente a riallineare quanto il Titolo V aveva faticosamente messo insieme: il rafforzamento dei poteri politici delle Regioni da un lato, e l’ampliamento in teoria illimitato delle funzioni amministrative degli altri enti territoriali, dall’altro lato.

Sociologi, politologi ed economisti asseriscono che la dimensione regionale non solo non ha perso rilievo nel processo di sviluppo complessivo di un Paese ma, al con- trario, lo ha progressivamente acquistato, in forza di dinamiche diverse che si svi- luppano all’interno dei diversi ordinamenti. Oggi più che mai il contesto locale-ter- ritoriale in cui si insediano determinate attività può essere causa determinante di suc- cesso o insuccesso delle stesse.

La scarsità delle risorse del centro (risorse che una volta rendevano sostanzial- mente indifferente la localizzazione delle iniziative, soprattutto industriali) fa sì che la tenuta delle iniziative economiche sia più che mai collegata al territorio in cui si sviluppano, in quanto sorrette dalla possibilità che tale contesto, nel suo comples- so, le legittimi ideologicamente e le supporti economicamente.

Che poi la scala territoriale delle attuali Regioni risponda completamente a que- ste esigenze è tutt’altro discorso, come da ultimo ci ha ricordato la Società Geogra- fia Italia, ripercorrendo tutte le occasioni mancate per trasformare le Regioni geo- grafiche dei compartimenti statistici, su cui fu condotto il primo censimento unita- rio del 1861, in realtà funzionali allo sviluppo economico e sociale del Paese, come normalmente accade altrove.

In un Congresso nazionale tenutosi nell’aprile del 1947 la stessa Società di geo- grafia richiamava l’attenzione sull’esigenza di definire un nuovo assetto regionale sulla base delle reali capacità di autogoverno espresse dall’andamento diacronico del rapporto tra società e territorio.

Un assetto in cui i requisiti delle Regioni avrebbero dovuto essere: “un’individualità geografica ben definita sotto il profilo culturale, una dimensione sufficientemente

ampia da garantire i livelli di soglia demografica e produttiva, un’adeguata dotazione infrastrutturale.

3. LE RIFORME COSTITUZIONALI SONO DAVVERO UNA VARIABILE“INDIPENDENTE”?

Maglia territoriale e relazioni con il centro sono indubbiamente tra i maggiori fat- tori di crisi del regionalismo italiano. Soprattutto quest’ultimo, in larga parte di- menticato, è invece parte indispensabile del modello. Ed anzi, la mancanza di un nes- so tra riforma del Titolo V e modello bicamerale è stata probabilmente tra le cause principali del rendimento negativo dello stesso Titolo V.

La differenziazione della Seconda Camera, pertanto, risulta indispensabile allo scopo di integrare le logiche autonomistiche nei processi decisionali centrali e con- tribuire a strutturare un modello di regionalismo. Le Seconde Camere con rappre- sentanza differenziata, infatti, sono elemento distintivo delle categorie “astratte” di Stato federale e Stato regionale, mentre la prospettiva del federalismo come processo storico, fondandosi sulla dimostrazione che tale divaricazione non esiste in “natu- ra”, ne sottolinea la necessità se e in quanto funzionale allo sviluppo del sistema nel suo complesso.

La costruzione di un modello di regionalismo difficilmente può prescindere da un diverso assetto strutturale degli organi (politici e amministrativi) centrali.

L’avvertimento di M.S.GIANNINI all’indomani del c.d. secondo decentramento (d.P.R. 616 del 1977) si è rivelato profetico: il fallimento dell’intera operazione per l’incapacità di connettere trasferimento di funzioni amministrative e modifica del- l’apparato ministeriale.

In altri termini occorre finalmente affrontare il vero nodo e cioè che l’attuazio- ne del regionalismo inevitabilmente pone il problema di una incisiva riforma del “cen- tro”, sia quello politico (l’assetto del bicameralismo e i processi legislativi in primo luogo), sia quello amministrativo (la riforma delle amministrazioni statali e la scom- parsa di quelle statali decentrate).

Inoltre e in conclusione, nessun discorso “serio” sul regionalismo può prescin- dere dall’attuazione dell’art. 119. In realtà nessuna riforma del sistema locale “se- ria” può prescindervi. È ormai a tutti noi noto come uno dei punti più problemati- ci di attuazione della riforma Delrio si stia proprio consumando su questo terreno e cioè sui mancati trasferimenti di risorse alle Province per l’assolvimento di funzioni fondamentali (tra il cui il mantenimento di alcune delle infrastrutture del Paese: le scuole, le strade).

Dunque, se non vi è chiarezza su questo punto, è meglio dichiarare sin da subi- to che non vi è possibilità di sviluppo del regionalismo e tornare a ripensare il mo- dello stesso.

L’elaborato contiene qualche breve considerazione sullo “stato” del giudizio in via principale, che mi pare costituisca sempre meno lo strumento di risoluzione dei pro- blemi di costituzionalità delle leggi, almeno nei termini in cui era stato originaria- mente pensato e strutturato.

Valutiamo, in primo luogo, alcuni dati.

Per quanto riguarda il versante dei ricorsi regionali nei confronti di atti legisla- tivi statali, se consideriamo la giurisprudenza dell’ultimo triennio (2014 – 2016), si osserva come gli enti che hanno provocato il maggior numero di decisioni della Corte siano stati la Provincia autonoma di Trento (ben 45 decisioni da essa provo- cate del triennio), seguita dalla Provincia di Bolzano (39) e dalla Regione Veneto (32). Più indietro la Sicilia (30), la Valle d’Aosta (22) e la Sardegna (19). In sostanza, dun- que, ben 99 ricorsi su un totale di 272 (pari quindi al 36%) provengono dall’ordi- namento complessivamente inteso del Trentino Alto – Adige (Regione e due Province autonome); 187 ricorsi (quasi il 69%) dalle cinque regioni ad autonomia speciale. Ciò significa, dunque, che soltanto 85 ricorsi provengono da regioni a statuto ordi- nario e di questi ben 32, come detto, dalla sola Regione Veneto. In sostanza, quin- di, meno del 20% dei ricorsi complessivi provengono da tutte le regioni ordinarie ad esclusione del Veneto.

Una considerazione al riguardo è banale: al giudizio in via principale accedono, nella maggioranza dei casi, soltanto alcune regioni, e quelle ad autonomia specia- le in particolare. Le regioni a statuto ordinario, con qualche rara eccezione, non con- siderano quello lo strumento mediante il quale ottenere risposta ai loro dubbi di co- stituzionalità.

E ciò può spiegarsi, almeno in parte, considerando gli esiti del giudizio davan- ti alla Corte.

Sempre considerando le decisioni del triennio – rispettivamente su ricorso sta- tale e su ricorso regionale (o provinciale) – che contengono uno o più dispositivi di accoglimento, emerge che, nel 2014, 41 decisioni rese dalla Corte su ricorso stata- le contengono almeno un dispositivo di accoglimento, a fronte delle 8 su ricorso re- gionale; nel 2015, il rapporto è di 25 a 12; nel 2016, di 29 a 12. Facendo una per- centuale sul triennio, se si escludono le decisioni che si concludono totalmente con un’estinzione per rinuncia, o per cessazione della materia del contendere ovvero an- cora per improcedibilità, abbiamo la conclusione che, quando a ricorrere è il Governo nazionale, nel 70% dei casi si ha una pronuncia di illegittimità costituzionale (o, per