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e garanzia dell’autonomia locale tra principi costituzionali e carta europea delle autonomie local

12. RIFORME AMMINISTRATIVE E DEMOCRAZIA LOCALE

Come si è cercato di dimostrare, il sistema italiano delle autonomie locali, sostan- zialmente immobile da decenni, cresciuto in modo del tutto abnorme e illegittimo con la creazione di una galassia di strutture parallele e sottratte al controllo demo- cratico, ha un urgente bisogno di una radicale riorganizzazione, nella direzione di una vera semplificazione5. Una radicale riorganizzazione che è una vera riforma, at- tuata non “perché ce lo chiede l’Europa”, ma per stare in Europa con il ruolo e il peso di un grande paese fondatore dell’Unione, risanato e rinvigorito, tanto sul piano del- la funzionalità e dell’imparzialità, quanto sul piano della democrazia.

In un sistema amministrativo semplificato le Regioni assumono il ruolo di gui- da della riorganizzazione del sistema locale all’interno dei propri territori; le Città metropolitane sono in grado di svolgere funzioni di governo strategico di aree de- cisive per la crescita economica del Paese; le Province vengono razionalizzate e fi- nalmente legittimate ad un ruolo di governo di area vasta e di servizio tecnico e co- noscitivo all’intero sistema locale; i Comuni vengono posti in grado di gestire, attraverso “amministrazioni comunali” di dimensioni adeguate, la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini.

Una riforma che non nasca dall’assillo del risparmio di spesa, peraltro mai rag- giunto con i modesti interventi fin qui realizzati, ma dalla volontà di corrisponde- re appieno al principio dell’autonomia garantito dalla Costituzione.

L’autonomia locale riprenderebbe quel contenuto e quel vigore che si è andato perduto: autonomia come autogoverno democratico, per la cura degli interessi ge- nerali delle comunità e dei diritti fondamentali dei cittadini, ai diversi livelli di go- verno. Autonomia come responsabilità, verso i cittadini e verso lo Stato, di una cura efficiente e imparziale del bene comune.

Diviene così chiaro che il rispetto dei principi di autonomia, della nostra Costi- tuzione e della Carta europea delle autonomie locali, non è affatto in contraddizione con processi di riorganizzazione, anche profonda, del sistema amministrativo, se que-

sti processi sono volti a restituire agli enti locali quella “capacità effettiva, per le col- lettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubbli- ci” che è, secondo la Carta europea, il fondamento stesso dell'autonomia locale (art. 3, comma 1, della CEAL).

Nel ripristino della capacità di governare democraticamente gli interessi locali si realizzerebbe, dopo tanti tradimenti, un necessario tributo alla quella nobile cul- tura italiana dell’autonomia locale da cui siamo partiti.

1. Vedi il Rapporto La Charte européenne de

l’autonomie locale dans le droit interne des Etats, approvato dalla Camera dei poteri lo-

cali il 29 settembre 2011 (CPL (21)2). Vedi anche F. Merloni, La tutela interna-

zionale dell’autonomia degli enti territoria- li. La Carta europea dell’autonomia locale del Consiglio d’Europa, in Scritti in onore di G. Palma, Torino, Giappichelli, 2012.

2. Sui quali uno studio del Congresso dei po- teri regionali e locali del Consiglio d’Euro- pa: F. Merloni (editor), Regionalisation

trends in European countries 2007-2015,

Strasburgo, marzo 2015.

3. Cerulli Irelli, V., Pianificazione urbanistica

e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985.

4. Anche qui segnalo il mio F. Merloni, Il ruo-

lo della Regione nella costruzione di una nuova amministrazione territoriale, in S.

Mangiameli (a cura di), Il regionalismo ita-

liano dall’Unità alla Costituzione e alla sua riforma, Milano Giuffré, 2012.

5. Vedi F. Merloni, Semplificare il governo lo-

cale? Partiamo dalle funzioni, in S. Man-

giameli (a cura di), Le Autonomie della Re-

pubblica: la realizzazione concreta, Mila-

I limiti e i difetti attuali del regionalismo italiano risalgono in parte alle sue origini, in parte agli orientamenti politici e legislativi oggi prevalenti.

I limiti di origine sono noti. In primo luogo il ritardo con cui si è iniziato ad attuare il disegno costituzionale dell’ordinamento regionale ordinario, favorendo così la ri- costruzione e il consolidamento del tradizionale assetto centralistico dello Stato. E poi ancora il dualismo fra Regioni speciali e Regioni ordinarie, queste ultime caratteriz- zate per lo più da un incerto senso di autoidentificazione delle comunità regionali, con la conseguente relativa artificiosità delle dimensioni territoriali. Regioni ordinarie disegnate dal legislatore statale con caratteristiche diverse dalle speciali, specie sul terreno finanziario. Inoltre, le diffuse tendenze al particolarismo localistico, che con- duce spesso gli enti locali di base, i Comuni, a temere più il “neo-centralismo” regio- nale che il tradizionale controllo dello Stato centrale. Infine l’assetto fortemente cen- tralizzato del sistema delle forze politiche e delle stesse rappresentanze di interessi. Gli slogan dei regionalisti negli anni Settanta del secolo scorso invocavano “le Regioni per la riforma dello Stato”; “le Regioni per la programmazione”; “le Regio- ni per la partecipazione”. Ora, nuovi modelli di amministrazione si sono visti forse di più, talvolta, a livello statale che non a livello regionale. L’idea di una program- mazione economica decentrata è andata svanendo insieme alla stessa idea della pro- grammazione economica come era pensata in quegli anni. Gli stessi istituti di par- tecipazione hanno spesso mostrato maggiore vitalità a livello nazionale (si pensi al referendum) che a livello ragionale.

La riforma del titolo V decisa nel 2001 ha costituito più il frutto di un tentativo di inseguire sul terreno del consenso una nuova forza politica (la Lega Nord) por- tatrice (allora) di istanze autonomistiche o addirittura secessionistiche, che non il frutto di un convinto e coerente disegno di politica istituzionale. E proprio per que- sto la riforma è rimasta fin dall’inizio, e fino ad oggi, largamente inattuata, e ab- bandonata a se stessa.

La legislazione statale non si è per nulla sviluppata secondo il modello della leg- ge quadro che stabilisce principi. Il disegno di un vero “federalismo fiscale” è stato di fatto abbandonato; il ruolo di coordinamento finanziario spettante allo Stato è sta- to sempre più esercitato nel senso non solo di restringere l’autonomia delle Regio- ni sul lato delle entrate, ma anche nel senso di un controllo e di un condizionamento minuzioso della spesa regionale, non solo in termini complessivi ma anche in rela- zione a singole destinazioni di spesa.

Il riparto delle competenze legislative disegnato in Costituzione con la riforma del 2001 è viziato, come si sa, da alcuni evidenti errori, nei due sensi, sia cioè del- la attribuzione alla competenza concorrente di ambiti di materia chiaramente na- zionali come la distribuzione nazionale dell’energia, sia della attribuzione alla com- petenza statale esclusiva di ambiti in cui inevitabilmente interferiscono competen- ze regionali come la tutela dell’ambiente. Invece di correggere tali errori, si è ma- nifestata una accentuata conflittualità in sede di giudizio costituzionale (anche per il venir meno di strumenti preesistenti di composizione dei conflitti come il rinvio governativo delle leggi al consiglio regionale); e si è fatto un utilizzo smodato da par- te del legislatore statale delle sue competenze di tipo “trasversale”, tradottosi spes- so in una innaturale restrizione di ambiti tipici dell’autonomia regionale (si pensi al- l’organizzazione amministrativa regionale, sempre più strettamente condizionata da norme statali in nome della competenza sull’ “ordinamento civile”). Molto è rima- sto affidato all’uso di clausole di flessibilità “giurisprudenziali” come l’“attrazione in sussidiarietà” o la leale cooperazione.

A tutto ciò si è aggiunta una debolezza complessiva delle classi politiche e de- gli apparati amministrativi delle Regioni nel dare vita a decisioni legislative e am- ministrative innovative e convincenti, così che anche di fronte all’opinione pubbli- ca spesso le Regioni sono apparse prevalentemente sedi di sprechi o di malcostume nell’uso delle risorse pubbliche.

Per il futuro, al fine di puntare alla rivitalizzazione di una sana pratica autono- mistica, si possono tracciare alcune indicazioni di metodo e di merito.

Sul piano del metodo – forse in prospettiva il più importante – si dovrebbe an- zitutto promuovere a livello statale quell’adeguamento dei “principi” e dei “meto- di” della legislazione alle “esigenze dell’autonomia e del decentramento”, che l’ar- ticolo 5 della Costituzione impone, rivitalizzando il modello costituzionale – da tem- po sostanzialmente abbandonato – della “legge quadro”.

Sul terreno delle procedure legislative, è auspicabile che si sperimenti finalmente la integrazione della commissione bicamerale per le questioni regionali con rap- presentanti delle Regioni e dei poteri locali, prevista dalla riforma del 2001 e mai attuata: essa potrebbe anche contribuire ad una migliore organizzazione, attraver- so opportune integrazioni e modifiche dei regolamenti parlamentari, del lavoro del- le due Camere sui temi riguardanti le autonomie.

Nel merito, il tema di fondo è sempre quello dell’equilibrio da realizzare fra esi- genze di uniformità nazionale ed europea, ed esigenze di rispetto e di sviluppo del- le legittime differenze.

In ordine al riparto delle competenze, a parte le singole correzioni utilmente ap- portabili allo schema del 2001, sarebbe, da un lato, da riprendere il tema delle au- tonomie speciali, da ricondurre alle ragioni permanenti della specialità, per altro ver- so superando differenze di trattamento rispetto alle autonomie ordinarie, specie sul piano finanziario, che non si giustificano; dall’altro lato, sarebbe da sviluppare il si- stema delle autonomie differenziate previsto dall’art. 116, terzo comma, della Co- stituzione. Andrebbero poi affrontati i temi del miglioramento degli strumenti di col- laborazione, sia a livello nazionale sia a livello territoriale, in attuazione dei prin-

cipi di sussidiarietà e di leale cooperazione, specie per quanto attiene alla pro- grammazione e realizzazione delle grandi infrastrutture.

A sua volta, il sistema degli enti locali andrebbe ripensato alla luce degli stessi principi. Sarebbe tempo di superare il dualismo fra Regioni ordinarie e Regioni spe- ciali anche per quanto riguarda l’assetto dei poteri locali, attribuendo a tutte le Re- gioni, e non solo a quelle speciali come oggi accade, una competenza generale, sia pure di tipo concorrente, in tema di ordinamento degli enti locali. Andrebbe rivisto a fondo, dopo l’improvvida “anticipazione” di una riforma costituzionale che non c’è stata, realizzata con la legge n. 56 del 2014 (la c.d. legge Delrio), l’assetto degli enti di area vasta, ripristinando il ruolo costituzionale delle Province almeno nelle Re- gioni di maggiori dimensioni, ridefinendone compiti e organi, e consentendo lo svi- luppo pieno di quella nuova forma di ente locale che è la Città metropolitana. A tal proposito, la revisione complessiva delle dimensioni territoriali degli enti di area va- sta potrebbe anche innescare una riflessione e una eventuale revisione delle stesse identità territoriali delle Regioni.

Sarebbe da superare decisamente la scelta, fatta con la legge del 2014, di disci- plinare gli organi di Province e Città metropolitane - salvo per queste ultime diver- sa determinazione dello statuto, alle condizioni fissate dalla legge - come organi for- mati da Sindaci o da consiglieri comunali dei Comuni dell’area, eletti (salvo il Sin- daco metropolitano, che è di diritto il Sindaco del Comune capoluogo) dagli stessi, e che conservano la carica comunale ricoperta e non ricevono per la nuova carica alcuna indennità. In realtà non si dà vita in tal modo a un vero “governo” dell’ente territoriale, espressione della relativa comunità.

Il difetto non è tanto nel fatto che si prevede una elezione di secondo grado (di per sé non incompatibile con la struttura di un ente territoriale espressione della co- munità dell’area), ma nel fatto che la carica “di area vasta” viene ricoperta esclusi- vamente da titolari di cariche elettive in uno dei Comuni dell’area, che rimangono tali in via principale e solo aggiungono la carica nell’ente più ampio. In tal modo sono queste ultime cariche le sole che conferiscono agli eletti legittimazione democrati- ca. Gli eletti non “rappresentano” autenticamente l’intera popolazione dell’area va- sta, né gli interessi generali che fanno capo a tale popolazione, ma la popolazione del solo Comune in cui sono stati eletti. È il modello “consortile”, in cui le scelte di governo nascono dai rappresentanti dei Comuni che fanno parte del consorzio, men- tre la popolazione complessiva dell’ente di area vasta, e i loro interessi comuni, ri- mangono privi di una reale rappresentanza. È un aspetto, questo, che non è stato col- to nemmeno dalla sentenza n. 50 del 2015 della Corte costituzionale che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate sulla legge n. 56, ma che oggi – ca- duta la riforma costituzionale che avrebbe dovuto seguire – dovrebbe essere preso nuovamente in considerazione.

C’è poi l’aspetto cruciale dell’ordinamento finanziario delle Regioni e degli enti locali. Un vero e solido sistema autonomistico non può prescindere dalla attribuzione agli enti territoriali di uno spazio di autonomia quanto alle entrate, in particolare tributarie, ovviamente nel quadro di coordinamento del sistema tributario complessivo che spetta allo Stato tracciare, e quanto alle spese. Autonomia non vuol dire certo

possibilità per gli enti decentrati di imporre tributi senza limiti, né di accrescere la spesa senza limiti. Al contrario, l’ente locale deve sapere con precisione quali sono gli spazi di autonomia di cui dispone quanto al prelievo, deve prendere le decisio- ni quanto al prelievo entro quegli spazi e quanto alle spese con essi alimentate, nel rispetto dei compiti e di fini ad esso attribuiti, e rispondere agli elettori del prelie- vo imposto e dell’uso delle risorse prelevate.

Né sono in discussione i principi di equilibrio dei bilanci locali e di limiti all’in- debitamento espressamente sanciti dall’art. 119 Cost. come modificato nel 2012 (sem- mai in proposito si può osservare come risulti non facilmente armonizzabile con i principi di autonomia la previsione secondo cui l’indebitamento di ciascun ente lo- cale è subordinato alla condizione che – come dispone l’ultimo comma dell’art. 119 – sia rispettato l’equilibrio di bilancio “per il complesso degli enti di ciascuna Regione”). A questo quadro di “federalismo fiscale” è improntato il sistema costituzionale degli enti territoriali: ma oggi, dopo l’avvio realizzato con la legge n. 42 del 2009, si può dire che anch’esso sia stato abbandonato e quotidianamente contraddetto.