• Non ci sono risultati.

territoriali italiane

4. GLI ENTI LOCALI ED IL RAPPORTO REGIONI ENTI LOCAL

Dedico una brevissima riflessione conclusiva ad uno snodo da sempre centrale del- lo Stato delle autonomie italiano.

Concordo con le osservazioni critiche e preoccupate espresse nella traccia in- troduttiva relative alla sorte delle Province nell’ordinamento italiano: una molto cri- ticabile sentenza della Corte costituzionale, anticipatoria e preparatrice di una ri- forma mai approvata dal corpo elettorale, ha vulnerato profondamente lo status co- stituzionale delle Province, per come delineato in primis nell’art. 114 della Costituzione, ed ha creato un pericoloso precedente in tema di garanzia costituzionale dell’auto-

nomia degli enti territoriali. Ciò che è concretamente sempre più evidente negli ul- timi mesi è che lo svuotamento di risorse finanziarie delle Province, conseguente al loro indebolimento istituzionale, pone a rischio l’assolvimento da parte delle stes- se di funzioni fondamentali per le collettività territoriali (si pensi alla viabilità ed al- l’edilizia scolastica).

Sullo sfondo resta, tuttavia, a mio parere, un disegno costituzionale sin dall’origine non chiaro sui rapporti tra l’istituzione regionale e quella degli enti locali territoriali operanti all’interno della Regione. Il rafforzamento dei legami con la Regione au- spicato nella traccia introduttiva costituisce sicuramente un punto irrinunciabile, sal- vo poter considerare (e, quindi, valutare nei suoi pro e nei suoi contra) una più net- ta soluzione “federalista” di attribuzione di più ampie competenze alla Regione nei confronti dei “propri” enti locali.

1. Di un atteggiamento mentale che induce al “pessimismo o, quanto meno, ad una vigi- lata e cauta attesa”, scrive anche A. Ruggeri,

Prospettive del regionalismo in Italia (nota mi- nima su una questione controversa). Inter-

vento alla Tavola rotonda su L’evoluzione dello Stato regionale in Italia. Quali pro- spettive?, in occasione della presentazione degli Scritti in ricordo di Paolo Cavaleri, Ve- rona, 10 marzo 2017, in corso di pubblica- zione in Le Regioni.

2. Per il richiamo ad alcune di tali indagini, rin- vio ad E. Gianfrancesco, Parlamento e Re-

gioni: una storia ancora in attesa di un lieto fine, in AA.VV. (a cura di V. Lippolis, N.

Lupo), Il Parlamento dopo il referendum

costituzionale, in Il Filangieri. Quaderno 2015-2016, Napoli, 2017, p. 261 ss.

3. Come sottolinea G.C. De Martin, Prospetti-

ve ed incognite postreferendum, in Dialoghi,

n. 4 del 2016 ed in Astrid Rassegna, n. 21/2016, p. 1 s. – il principio autonomisti- co sancito nell’art. 5 della Carta repubbli- cana era pur con qualche squilibrio svilup- pato organicamente nella riforma costitu- zionale del 2001.

4. Cfr. sul punto, gli esempi e le considerazioni di R. Tosi, Il neocentralismo della Corte co-

stituzionale: dei canili e di altre storie, in Le Regioni, 2016, p. 619 ss.

5. Sentenza che ha addirittura preoccupato, per le sue potenzialità anti-unitarie, J. Mar- shall, La Corte costituzionale, senza accor-

gersene, modifica la forma di Stato?, in Giorn. dir. amm., 2016, p. 705 ss., spin-

gendolo a guardare dall’Empireo dei Padri del Costituzionalismo – ove siede – le pic- cole cose italiane.

6. Sul tema delle competenze lato sensu con- correnti, si segnalano di recente due con- tributi di taglio sovra-nazionale: AA.VV (A. Gamper, P. Bußjäger, F. Karlhofer, G. Pal- laver, W. Obwexerv Eds.), Föderale Kom- petenzverteilung in Europa, Nomos Verlag, Baden-Baden, 2016; AA.VV. (N. Steytler Ed.), Concurrent Powers in Federal Systems, Brill Nijhoff, Leiden-Boston, 2017. Per una difesa del modello della competenza concorrente di tipo ripartito con riferi- mento all’esperienza italiana, cfr. ora S. Mangiameli, Il regionalismo italiano dopo la

crisi e il referendum costituzionale. Appunti per concludere una lunga transizione, in

www.issirfa.cnr.it, sez. Studi e interventi (marzo 2017).

7. Che il fallimento del referendum del 4 di- cembre richieda una riflessione sull’inter- pretazione che tutti gli operatori del re- gionalismo italiano (legislatore, governo, amministratori e Corte costituzionale) sono chiamati a dare alla disciplina dei rappor- ti tra Stato e periferia è stato sottolineato da S. Bartole, Stato e Regioni dopo il referendum, in Le Regioni, 2016, p. 431.

8. Su tale indagine, cfr. G. D’amico, Il sistema

delle conferenze alla prova di maturità. Gli esi- ti di una indagine conoscitiva, in Forumco- stituzionale.it (19 gennaio 2017).

9. Pag. 11 dell’Indagine conoscitiva. 10. Ad esempio in alcuni degli interventi svol-

ti in occasione del Seminario del 19 giugno 2017 organizzato da Italiadecide presso la Camera dei Deputati di presentazione del Quaderno de Il Filangieri richiamato a nota 2 del presente scritto.

1.

I Comuni sono gli unici enti insostituibili per curare gli interessi delle collettività lo- cali, sono gli enti di prossimità in cui si sviluppa la personalità degli individui e si rea- lizza la solidarietà sociale, caratteristica fondante dei sistemi democratici. È inuti- le spiegare questa ovvia affermazione che trova conferma nella storia istituzionale di tutti i Paesi e nelle Costituzioni di tutti gli ordinamenti.

È solo a partire da questo assunto che si può provare a ragionare sull’attuale si- tuazione delle autonomie territoriali nel nostro Paese, sulla loro reciproca integra- zione o conflittualità, sulla loro effettiva partecipazione alle politiche nazionali, sul- la capacità di soddisfare i bisogni sociali più che su astratte formule di ingegneria costituzionale.

Come è noto, le stigmate dell’accentramento statale connesse alla nascita del- lo Stato unitario caratterizzano il nostro ordinamento, pur se ovviamente in misu- ra differenziata, in un’altalena tra maggiore autonomia o più forte accentramento. È opinione diffusa e condivisibile che l’apertura autonomistica rappresentata dal- la legge sulle autonomie locali del 1990 abbia subito una brusca battuta d’arresto con la legislazione della crisi economica del 2008 che ha addossato sugli enti loca- li (e non sull’amministrazione centrale) i tagli necessari a soddisfare la spending re- view richiesta dall’ accettazione del regime del fiscal compact.

Il regime giuridico degli enti locali deve essere oggetto di interventi normativi. Già era inattuale la disciplina del T.U. 267/2000, antecedente alla riforma costitu- zionale del 2001. A maggior ragione ora, la mancata approvazione delle modifiche costituzionali rende indispensabile la totale revisione di una normativa fondata sul- la legge Delrio, che presupponeva una riforma costituzionale invece incompiuta.

2.

La mancata autonomia degli enti territoriali si fa risalire alla camicia di forza imposta dalla gerarchia delle fonti. Se la legge – statale o regionale – prevale sulla normati- va degli enti territoriali, il principio autonomistico, pur previsto dalla Costituzione, rimane un mero flatus vocis. Né appare risolutivo il richiamo alla separazione del- le fonti, che attribuisce una sorta di riserva di regolamentazione agli enti autono-

mi nelle materie assegnate agli Statuti. È noto infatti che il legislatore ordinario – derogando a questo principio – è più volte intervenuto sulle materie statuarie con norme puntuali, creando una contorta stratificazione normativa.

Certo l’autonomia sarebbe stata garantita anche mantenendo la gerarchia nor- mativa ove il legislatore statale si fosse attenuto alla previsione costituzionale secondo la quale la Repubblica deve adeguare “i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Solo questo tipo di legislazione avrebbe evitato lo svuotamento delle autonomie territoriali, ma dobbiamo prendere atto che così non è avvenuto.

Perciò, dal punto di vista normativo, non si può che ribadire l’esigenza di una ra- pida riforma del testo unico sugli enti locali, adeguandolo alle reali esigenze mani- festate dai territori.

3.

La cennata subordinazione normativa è stata ampiamente oggetto del dibattito isti- tuzionale, mentre molto meno si è approfondita la causa prima di una soffocante le- gislazione statale, sostanzialmente irrispettosa del dettato costituzionale delle au- tonomie.

Il dato è, invero, tutto politico. L’organizzazione compatta e verticistica del- l’amministrazione italiana di tutti i tempi si coniuga perfettamente con la centra- lizzazione verticistica dei partiti politici, che ha impedito lo sviluppo di una classe politica locale che potesse realmente sostenere le ragioni dell’autonomia anche in contrasto con l’amministrazione centrale.

L’analisi sociologica dimostra la subalternità delle classi politiche locali a quel- le centrali. L’aspirazione ad un cursus honorum che consentisse di transitare dai con- sessi locali al parlamento nazionale ha limitato l’autonomia delle classi politiche lo- cali, succubi della forza dei partiti nazionali tradizionali o, a maggior ragione, di quel- li leaderistici e/o a “democrazia telematica”. Tale processo è peraltro supportato da sistemi elettorali in cui le candidature non nascono dal territorio, ma sono imposte dai vertici organizzativi dei partiti, a maggior ragione ove vi siano listini o capilista bloccati.

Bisogna, perciò, tenere presente che l’autonomia degli enti territoriali può es- sere conseguita con una maggiore responsabilizzazione delle classi politiche loca- li, rendendole più autonome dai vertici dei partiti nazionali.

Si tratta ovviamente di un percorso complesso, ma necessario. Le forme giuri- diche per favorire tale processo attengono a modifiche dei sistemi elettorali che con- sentano una rappresentatività territoriale. Si tratta di adottare varie misure, tra cui la più significativa potrebbe essere la costituzione di collegi elettorali di piccole di- mensioni con l’individuazione dei candidati attraverso consultazioni popolari.

Si coinvolgerebbero così le persone in un rinnovato esercizio democratico – oggi molto limitato da elezioni di secondo grado – con l’individuazione di candidati au- torevoli quanto più autonomi dai vertici dei rispettivi partiti.

Al di là delle possibili soluzioni prospettate, preme segnalare che ogni ragiona- mento sulle autonomie territoriali non può prescindere dalla necessità di garanti- re effettiva autonomia politica alle classi dirigenti locali, altrimenti destinate a pe- renne subordinazione.

L’autonomia della classe politica locale si coniuga bene con l’esigenza altrettanto avvertita di una maggiore e più forte expertise della dirigenza locale.

La mancanza di responsabilità decisionale fino alla riforma degli enti locali del 1990 ha costituito un alibi per la dirigenza amministrativa, ma allo stesso tempo non ha stimolato ad acquisire capacità manageriali, ora richieste per la gestione degli enti.

Le diseguaglianze tra sistemi locali non sono perciò dovute solo a differenze eco- nomiche tra i territori, ma anche a diseguali capacità delle classi dirigenti locali. E quando invece, dopo il 1990, la dirigenza locale ha dovuto acquisire competenze ma- nageriali, la nascita delle società miste, prevista nella stessa legge, ha spesso dirot- tato i migliori verso queste ultime con ulteriore impoverimento delle strutture bu- rocratiche dei Comuni.

4.

Le modifiche normative e la formazione della dirigenza locale sono elementi essenziali per una rinnovata autonomia comunale.

Il terzo elemento attiene alla dimensione territoriale degli enti locali, argomento che ritorna ciclicamente nel dibattito istituzionale, con i conseguenti ragionamen- ti circa l’utilità dei diversi livelli di governo.

I dati statistici confermano un’originaria frammentazione e differenziazione de- gli enti territoriali: solo il 10% degli 8.101 Comuni italiani ha più di 10.000 abitanti e 5.470 di essi non raggiungono il numero di 5.000 abitanti.

La frammentazione degli enti territoriali è invero una caratteristica di tutti gli ordinamenti europei, ma non si può negare che le modificazioni demografiche e so- ciali richiedano opportuni interventi. L’individuazione dei livelli di governo non può essere, infatti, un esercizio sulla carta, ma deve tener conto del contesto migliore in cui gli interessi delle persone residenti possono essere meglio soddisfatti, distinguendo tra interessi di prossimità e quelli che richiedono una più vasta area di esercizio.

L’attribuzione di competenze agli enti territoriali solo in funzione della loro qua- lifica giuridica non è più sufficiente, in quanto la dimensione e la posizione territo- riale, il numero degli abitanti e la situazione socio-economica diventano fattori de- terminanti per la capacità di svolgere quelle funzioni astrattamente attribuite a tali enti. I principi di adeguatezza e differenziazione introdotti dall’art. 118 Cost. pos- sono costituire un elemento correttivo, incentivando l’associazionismo tra piccoli Co- muni, al fine di raggiungere un numero di abitanti sufficiente per la gestione eco- nomica dei servizi.

Ma anche queste misure non sempre hanno prodotto utili effetti. Ritorna perciò l’idea di riperimetrazione e/o accorpamento dei Comuni, un’ipotesi già formulata nella riforma degli enti locali del 1990, che introduceva strumenti di natura volon-

taria (convenzioni, consorzi, unioni), lasciati alla libera determinazione degli enti territoriali, con incentivi di carattere economico e fiscale. Pochi i risultati raggiun- ti, spesso per la miope difesa da parte dei Comuni della loro autonomia, senza va- lutare che tale decisone spesso prelude al dissesto finanziario, presupposto del com- missariamento degli enti.

Falliti i tentativi di accorpamento volontario, dal 2010 il legislatore emana nor- me che, in nome dell’adeguatezza e della differenziazione, obbligano i Comuni a con- sorziarsi ove vogliano svolgere determinate funzioni o servizi. La difficoltà di que- sta modifica istituzionale è evidente nel rapido susseguirsi in tempi brevi di una con- gerie di norme che prospettano soluzioni differenziate, oggetto di rapide e continue modifiche e rinvii.

Le nuove disposizioni introdotte dalla legge Delrio limitano le funzioni provin- ciali in vista della poi denegata abolizione delle Province, puntando su una vasta col- laborazione tra Comuni, che, avendo fino a 5.000 abitanti, possano avvalersi della convenzione e/o dell’Unione di Comuni per raggiungere il numero minimo di 10.000 abitanti ovvero di 3.000 se appartenenti o appartenuti a Comunità montane.

5.

La mancata abolizione dalla Costituzione delle Province rimette tutto in gioco. Le Regioni che tempestivamente avevano regolamentato le nuove funzioni dell’ente di area vasta, delle unioni di Comuni e dei singoli Comuni sono ora costrette ad un ri- pensamento.

Certo non ogni male viene per nuocere. La disinvolta riduzione delle funzioni provinciali in vista dell’abolizione dell’ente aveva portato, tra l’altro, a configurare le unioni di Comuni come surrogato delle funzioni provinciali.

Un errore non da poco. Le unioni avvengono tra Comuni che mantengono le loro funzioni di prossimità, senza diventare surrogati di un ente di area vasta per la ge- stione di servizi di dimensioni sovra comunali.

Invero, le premesse non sono incoraggianti se il primo orientamento di quasi tut- ti i legislatori regionali è stato quello di riportare in capo alla Regione alcune fun- zioni delle Province. Questo nuovo centralismo regionale, giustificato con la necessità di non interrompere bruscamente servizi necessari ma non più gestibili dalle Pro- vince, rappresenta paradossalmente il percorso opposto a quello perseguito dalle leg- gi Bassanini che, al contrario, volevano realizzare il precetto costituzionale di Re- gioni “leggere”, scevre di funzioni amministrative e relativi apparati burocratici.

Bisognerà perciò mettere mano alla normativa regionale, con una nuova rior- ganizzazione territoriale a “scala geografica variabile”, prevedendo procedimenti dif- ferenziati a cui possano partecipare in maniera flessibile enti diversi. Declinato in termini giuridici, ciò significa che sempre più spesso sarà necessario ricorrere a rap- porti collaborativi tra soggetti istituzionali in forme strutturate (ad es., la Conferenza Stato- Regioni- Città) od occasionali (conferenze di servizi).

ghi di condivisione decisionale, tuttavia si può e si deve ancora credere che una se- ria riforma delle modalità decisorie delle conferenze che attribuisca alle parti pari dignità possa e debba ancora essere la via maestra del pluralismo istituzionale.

1.

Come le vicende legislative più recenti hanno di nuovo messo in rilievo, il proble- ma di fondo che investe l’ordinamento della autonomie locali, ma che investe, si po- trebbe dire, l’ordinamento politico-amministrativo nel suo insieme, sembra essere sempre quello di riuscire a realizzare un’efficienza del sistema che ancora non si rie- sce a raggiungere.

L’ordinamento degli enti locali è stato alterato, stravolto in parti non trascura- bili dal legislatore degli ultimi anni, che ha fatto prevalere quasi esclusivamente le esigenze di contenimento della spesa e di coordinamento della finanza pubblica: esi- genze che hanno trovato, d’altro canto, nell’ultima riforma costituzionale del 2012, nella cornice finanziaria rigida da questa delineata per l’intero sistema pub- blico, un espresso riconoscimento e una valenza costituzionale.

Resta il fatto che la legislazione in materia di ordinamento locale dal 2011 in poi e, in particolare, la legge n.50/2014 ha inciso sullo stesso assetto degli enti porta- tori delle autonomie locali guardando unilateralmente pressoché soltanto ai profi- li finanziari.

Dall’altro lato, gli interventi mossi da esigenze di carattere finanziario, al momento in cui hanno inciso sull’ordinamento delle autonomie locali, hanno inciso nel me- desimo tempo sulla stessa effettività dei diritti e delle funzioni che le autonomie lo- cali sono chiamate ad assolvere.

Le autonomie locali sono parti costitutive dell’ordinamento repubblicano e del sistema politico amministrativo che lo incarna. Nel momento in cui le si toccano in termini riduttivi o comunque unilaterali, ne viene condizionata la funzionalità com- plessiva dell’intero sistema.

È questo il tema di fondo che si ripresenta: il sistema politico-amministrativo è un sistema pluralistico che, in attuazione e a sviluppo del principio democratico, deve nello stesso tempo concorrere ad assolvere finalità, diritti, funzioni in modo effet- tivo ed eguale per tutto il Paese e la collettività nazionale.

Coordinamento della finanza pubblica, autonomie locali e diritti sono i tre ver- tici di un triangolo problematico che devono trovare un contemperamento, certo non facile, ma tale da assicurare, da un lato, l’equilibrio finanziario dell’intero sistema, dall’altro, l’effettività di condizioni di eguaglianza per il tramite delle stesse autonomie territoriali (regionali e locali).

È significativo al riguardo l’orientamento più recente della Corte costituziona- le. Se il legislatore di recente ha fatto prevalere le esigenze finanziarie e la Corte in una prima stagione ha legittimato tali modalità di intervento legislativo appellan- dosi alla competenza statale in tema di coordinamento della finanza pubblica, la giu- risprudenza costituzionale degli ultimi anni sembra essere invece più attenta alla ri- cerca di un equilibrio che tenga conto dell’esigenza di non esautorare l’esercizio del- le funzioni e dei diritti a cui le autonomie locali sono preposte (cfr. fra le altre sen- tenze nn.188/2015,10/2016, 129/2016).

Si dice che l’autonomia locale non deve essere concepita come limitativa di diritti, ma anzi come ampliativa, espansiva degli stessi e proprio perciò deve essere difesa. Tuttavia, per quanto meritevole possa essere, non può considerarsi sufficiente un incoraggiante révirement della giurisprudenza costituzionale.

Vi è indubbiamente una crisi del sistema locale e occorre por mano a una ri- composizione del sistema stesso in presenza delle nuove condizioni di quadro.

2.

Anche nel documento introduttivo del seminario si dice infatti che si deve cercare di realizzare un sistema di autonomie responsabili, vale a dire – se ben intendo – por- re le condizioni perché le autonomie locali siano non solo garantite sotto il profilo istituzionale, ma siano ricomposte al meglio sotto il profilo dimensionale, organiz- zativo, funzionale e finanziario così da poter essere responsabili nel duplice senso di essere capaci di rispondere e di rendere conto nei riguardi delle loro collettività e della collettività nazionale nella conduzione e nell’esercizio delle funzioni.

Spesso si dice che si debba coniugare il massimo di autonomia con il massimo di responsabilità sotto il duplice profilo indicato della responsiveness e della ac- countability.

Il che significa, certo, porre mano alla revisione del tuel, che è un edificio so- pravvissuto nella sua parte istituzionale ai mutamenti successivi della riforma co- stituzionale del 2001 e della legislazione e in parte travolto o reso insignificante dal sopravvenire delle esigenze ricordate.

Tutto ciò in prospettiva significa pensare all’intero sistema politico amministra- tivo che assicuri il più possibile l’integrazione delle autonomie regionali e locali nel- l’ordinamento.

È quanto pare abbia voluto delineare in maniera lungimirante l’art.5 Cost. quan- do dispone che, ferma restando l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, questa ade- gua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze delle autonomie locali che riconosce e promuove.

Sappiamo come sia stato difficile cercare di realizzare nel corso dei decenni che ci separano dalla Costituzione l’equilibrio e l’integrazione voluti dall’art.5. Dappri- ma si sono preferite soluzioni di conio marcatamente centralista, poi ci si è mossi con una maggiore apertura verso le istanze autonomistiche, ma senza mai realizzare quel felice incontro fra unità del sistema e pluralismo autonomistico, lasciando nell’uno

e nell’altro caso irrisolto il problema di raggiungere l’uguaglianza o la coesione so- ciale territoriale che ancora manca nel Paese.

Vi è stato però un tentativo di realizzare questo incontro o integrazione fra uni-