territoriali dopo il referendum del dicembre 2016 e l’opportunità di adeguarla alla politica europea
4. IL RAGIONEVOLE ADEGUAMENTO DELLA RIVISITAZIONE ALLE POLITICHE EUROPEE DI COESIONE TERRITORIALE IN PARTICOLARE : IL POSSIBILE RIORDINO ISTITUZIONALE DELLE
AUTONOMIE TERRITORIALI IN CONSIDERAZIONE DELLA MODALITÀ PROCEDURALE EUROPEA
CHE PRESUPPONE UN ASSETTO GEOGRAFICO E SOCIO-ECONOMICO DENOMINATO‘MACRO-REGIONE’
Le indicazioni da inserire nell’agenda politico-istituzionale sin qui brevemente offerte si rivelano viepiù opportune laddove si consideri la tendenza europea ad incentivare sem- pre più incisive forme di cooperazione territoriale a carattere transnazionale, allo sco- po di realizzare quel percorso di integrazione che costituisce la ratio essendi dell’U.E.
Appare invero del tutto ragionevole ritenere che il Legislatore nazionale debba provare ad adeguare la legislazione ordinaria, da doversi emanare per ripristinare la coerenza delle fonti di normazione primaria con il quadro costituzionale rimasto immutato, almeno alle linee programmatiche essenziali della politica europea di coe- sione territoriale, la quale favorisce, tra l’altro, la promozione di una ‘modalità pro- cedurale’, per così dire, che presuppone la definizione di un assetto geografico e so- cio-economico denominato ‘macro-regione’.
Come è noto, sebbene di coesione territoriale si discuta sin dagli anni ottanta del secolo scorso, è solo con il Trattato di Lisbona che l’obiettivo viene formalmente in- trodotto nei Trattati fondamentali, così affiancandosi a quelli, tradizionali, di coe- sione economica e sociale.
Anche ad una prima lettura, il Titolo XVIII del TFUE (artt. 174-178) fornisce gli elementi per comprendere come si deve realizzare l’obiettivo in parola: in esso, in- fatti, le politiche di coesione vengono collegate con i Fondi Strutturali e d’Investi- mento Europei (art. 175, TFUE). Non è un caso che nel più recente Regolamento UE in materia di fondi europei (il n. 1303/2013) sia presente la prima definizione nor- mativa di ‘strategia macro-regionale’, la quale viene intesa come «quadro integrato approvato dal Consiglio europeo, che potrebbe essere sostenuto dai fondi SIE tra gli altri, per affrontare sfide comuni riguardanti un’area geografica definita, connesse agli Stati membri e ai paesi terzi situati nella stessa area geografica, che beneficia- no così di una cooperazione rafforzata che contribuisce al conseguimento della coe- sione economica, sociale e territoriale» (art. 2, n. 31, Reg. 1303).
Da questa definizione è possibile ricavare il tratto fondamentale delle strategie macro-regionali: la loro ‘vocazione funzionale’. Ed invero, lungi dall’intento di isti-
tuire un nuovo ente territoriale che vada a sovrapporsi (o sostituirsi) a quelli nazionali preesistenti, la genesi di una macro-regione consegue piuttosto alla individuazione di obiettivi comuni il cui perseguimento richiede un’azione congiunta: tale azione prescinde dai confini politico-amministrativi, sulla base di un approccio, a dir così, ‘integrato’ e a ‘geometria variabile’, capace perciò di consentire la piena partecipa- zione anche di soggettività interne agli Stati – in primis, evidentemente, gli enti ter- ritoriali – tanto alla scelta delle strategie da adottare, quanto alla loro concreta rea- lizzazione.
Ebbene, non v’è chi non veda la scarsa attenzione fin qui mostrata dal Legisla- tore nazionale a valorizzare il ruolo delle autonomie territoriali locali nella realiz- zazione dei percorsi di coesione territoriale: gli ultimi interventi in materia (stan- do almeno alle dichiarazioni d’intenti) appaiono orientati, per lo più, a rimediare alla perdurante inefficienza nello sfruttamento dei fondi europei.
Allo scopo di rendere il sistema amministrativo coerente con le politiche euro- pee di coesione, infatti, sono state create due distinte figure: da un lato, il Diparti- mento per la coesione territoriale, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Mi- nistri, con il compito di predisporre proposte di programmazione economica e fi- nanziaria e di destinazione territoriale delle risorse della politica di coesione euro- pea e nazionale (D.P.C.M. del 15/12/2014); dall’altro, l’Agenzia per la coesione ter- ritoriale, anch’essa comunque sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Pre- sidente del Consiglio dei Ministri (o di un eventuale Ministro o Sottosegretario de- legato), con il compito di monitorare e vigilare sull’attuazione dei programmi e sul- la realizzazione dei progetti che utilizzano i fondi europei, promuovendone la qua- lità, tempestività, efficacia e trasparenza (art. 10, D.L. 31/8/2013, n.101, conver- tito in L. 30/10/2013, n. 125).
Ora, è chiaro che nessuno può consentirsi di sottovalutare la necessità assoluta di un uso efficiente delle (ormai sempre più esigue) risorse pubbliche. Tuttavia se, per un verso, è lecito dubitare della coerenza dell’appena richiamato sdoppiamen- to di attribuzioni in capo a figure distinte; per altro verso, non si può non segnala- re che la disciplina vigente risulti in contrasto con il risultato referendario del dicembre 2016, il quale sembra rendere necessario ed urgente l’inserimento nell’agenda po- litico-istituzionale della (ennesima, ma indispensabile) rivisitazione della legislazione (almeno ordinaria) nella prospettiva di una significativa rivitalizzazione del ruolo delle autonomie territoriali locali.
Non può più essere sottovalutato, insomma, che l’attuale assetto complessivo del- la disciplina nazionale relativa ai fondi europei (pienamente coerente con la ispirazione neo-centralista che permeava il progetto di riforma costituzionale ‘affossato’ dal re- ferendum) riservi alle Regioni e agli enti territoriali locali una funzione meramen- te consultiva, che sembra tradire (non solo il principio fondamentale del pluralismo istituzionale e autonomistico consacrato dall’art. 5 Cost., ma anche) lo spirito del- la ‘coesione territoriale’, che l’indirizzo politico europeo vuole attuato mediante il partenariato (oltre che tra ‘pubblico’ e ‘privato’) tra i diversi livelli di governo.
In definitiva, la normativa europea di implementazione delle strategie macro- regionali sembra postulare l’introduzione di nuove forme di intervento pubblico, più
incisive e perciò capaci di valorizzare il ruolo delle autonomie territoriali locali, tan- to nella fase ascendente, di predisposizione dei progetti finanziabili con fondi europei, quanto nella fase discendente, della loro concreta attuazione una volta finanziati. A tal fine sarebbe ipotizzabile la previsione, nell’ambito delle procedure volte alla predisposizione dei piani d’azione nazionali relativi ai fondi europei, di un sistema di Conferenze ‘dedicate’, alle quali sia prevista la presenza soltanto delle autonomie territoriali locali (interessate da, o meglio) implicate in ciascuna singola strategia ma- cro-regionale (allo stato attuale – è bene ricordare – ambiti territoriali italiani e re- lativi soggetti, istituzionali e non, sono coinvolti nella ‘Strategia per la Macroregio- ne Adriatico Ionica’ e nella ‘Strategia per la Macroregione Alpina’, percependosi solo i primi vagiti di una ‘Strategia per la Macroregione del Mediterraneo Occidentale’).
Siffatte nuove forme di coordinamento, però, nel garantire la partecipazione sol- tanto degli enti territoriali locali che siano effettivamente parti in causa, dovrebbe- ro contemplare in capo a questi – accanto alla funzione consultiva, tradizionalmente propria del sistema delle Conferenze, anche – una significativa funzione di indiriz- zo, che permetta loro di incidere maggiormente sulle scelte programmatiche, sin qui troppo spesso riservate al solo potere centrale.
In piena corrispondenza con la connotazione funzionale delle strategie macro- regionali, inoltre, sarebbe opportuno ampliare le attribuzioni degli enti territoriali locali nella fase discendente, dotandoli dei poteri necessari per concludere accordi specifici (sul modello di cui all’art. 15, L. 241/1990) anche con figure soggettive pub- bliche (PP.AA., territoriali e non) degli Stati transfrontalieri coinvolti nella singola strategia (pur se non membri dell’U.E.).
In altre parole, le forme di cooperazione e concertazione transnazionale, che ve- dono oggi quali attori principali gli Stati, andrebbero invece allargate alla parteci- pazione di soggetti esponenziali di livelli territoriali più circoscritti, in tal modo ga- rantendosi il rispetto del valore autonomistico attraverso i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, l’uno e gli altri prescritti dalla Costituzione.
Se questa conclusione può considerarsi pienamente legittima sul piano della ‘po- litica del diritto’, con riguardo alla quale l’unico parametro di riferimento è, e non può che essere, la Weltanshauung che ispira chi le avanza, sul più rigoroso piano del- la ‘scienza giuridica’, invece, essa richiede di interrogarsi su una questione non sem- plice: se ed entro quali limiti la politica europea di incentivazione delle macro-re- gioni ed il ‘meccanismo’ che essa implica possono influire sull’archetipo istituzionale dello Stato membro, finendo per incidere sul rapporto struttura/funzione codifica- to nelle fonti nazionali (costituzionali e primarie).
Non è certo questa la sede per risolvere una questione di siffatta portata e rile- vanza. Ciò nondimeno, sebbene la ‘diretta ed immediata’ capacità conformativa del- l’assetto istituzionale degli enti territoriali di uno Stato membro da parte delle Isti- tuzioni Europee susciti dubbi e perplessità non del tutto infondati, appare quanto meno ‘improvvido’ che lo Stato membro si lasci sfuggire la opportunità di adegua- re – in via ‘mediata e indiretta’ – la sua legislazione così da riuscire a cogliere al me- glio le occasioni favorevoli offerte dalla disciplina europea. D’altra parte, appare in- negabile che il corrispondere agli input derivanti da quest’ultima (oltre a quello del
favor per la politica di incentivazione delle macro-regioni, non va trascurato quel- lo, con esso pienamente coerente, che viene dalla Carta Europea delle Autonomie Locali) si rivela conforme pienamente – e, verrebbe di dire, quasi ‘magicamente’ – al valore fondamentale sul quale i Padri fondatori hanno costruito l’impianto della Repubblica.
Le sintetiche proposte appena avanzate, naturalmente, non possono rappresentare altro che meri spunti per la riflessione politico-istituzionale, la quale, peraltro, ap- pare urgente e non più rinviabile. Sembra, infatti, improcrastinabile un ripensamento del ruolo delle autonomie territoriali locali, per valorizzarne definitivamente le ca- pacità di programmazione, di allocazione e di gestione dei fondi europei.
In un periodo storico qual è quello attuale, caratterizzato dalla ormai endemi- ca scarsità di risorse pubbliche, quelle europee rappresentano una occasione che non va perduta: la legislazione nazionale (costituzionale e ordinaria) non si può più con- sentire il lusso di escludere Regioni ed enti territoriali locali dalla disciplina delle pro- cedure per la realizzazione delle politiche europee di coesione territoriale, né tan- tomeno di relegarli in una posizione di subordinazione rispetto al potere naziona- le centrale.
Malgrado l’esito negativo, assai netto e chiaro, del referendum popolare sulla riforma costituzionale che si è tentata, sembra che Parlamento e Governo non abbiano mi- nimamente mutato il loro atteggiamento di inapplicazione del Titolo V della vigente Costituzione.
Particolarmente grave appare l’assenza di iniziative adeguate da parte del Pre- sidente del Consiglio e del Ministro che istituzionalmente dovrebbe essere respon- sabile dell’ordinamento regionale, ovviamente quale voluto dalla nostra Costituzione.
Intendiamoci: l’applicazione del vigente Titolo V, quale molto modificato nel 2001, ha messo in evidenza che, pur all’interno di una positiva opera di rilancio delle au- tonomie regionali e locali, nel testo costituzionale esistono anche alcuni gravi difetti di fondo, difetti che vanno necessariamente sterilizzati e poi eliminati. Mi riferisco non tanto a carenze, pur gravi, che potrebbero anche essere solo temporanee e su- perabili nel tempo (si pensi, ad esempio, all’assenza di norme transitorie o alla ca- renza di organi e procedure di raccordo fra Stato e Regioni), quanto ad alcuni difetti particolarmente gravi nel riparto dei poteri legislativi (e quindi anche amministra- tivi e finanziari) fra Regioni e Stato.
Mi riferisco in particolare ad alcune conseguenze della pessima redazione del vigente art. 117 Cost., sia nell’individuazione di alcune delle materie di competen- za ripartita, sia ancora di più in riferimento ad alcune delle sterminate ed impor- tantissime materie di competenza residuale delle Regioni, ai sensi del quarto com- ma dell’art. 117 Cost., non essendo state definite in modo minimamente preciso ed adeguato le competenze statali, sia esclusive che ripartite.
Per essere –come doveroso- assolutamente chiari: buona parte dei problemi re- lativi alle materie di legislazione concorrente, a cui spesso si è fatto strumentalmente riferimento nelle polemiche politiche, potrebbe essere agevolmente superata dal- l’adozione delle relative leggi cornice, che spetta al Parlamento (si pensi, ad esem- pio, al commercio con l’estero, alla tutela e sicurezza del lavoro, all’ordinamento spor- tivo, alla tutela della salute, alla protezione civile, al governo del territorio, ecc.). I problemi difficili sorgono, invece, per quelle materie (professioni, ricerca scientifi- ca e tecnologica, porti ed aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia) che appaiono alme- no in parte tali da intaccare comunque il ruolo del legislatore nazionale nell’esclu- dere dall’area delle leggi cornice alcuni segmenti legislativi che sono di palese in- teresse nazionale.
Ma il problema maggiore deriva dal fatto che non risultano essere state enumerate né nelle materie di competenza esclusiva statale, né nelle materie concorrenti mol- te importantissime materie, con la conseguenza che allora esse, sulla base della clau- sola residuale, spetterebbero al legislatore regionale: tutti si sono accorti della man- cata elencazione dei lavori pubblici o della circolazione stradale o dei servizi sociali, essendo sorte note vicende processuali risolte dalla giurisprudenza della Corte co- stituzionale (con sentenze più o meno soddisfacenti), ma analogamente potrebbe dirsi per tutte le materie relative alle attività produttive (industria, commercio, agri- coltura, artigianato, navigazione, attività minerarie) o ad altre materie come la cac- cia e la pesca. Si noti come quest’ultimo gravissimo difetto non sarebbe stato nep- pure corretto (se non in piccola parte) dalla riforma costituzionale che si è tentata, che se ne era largamente dimenticata.
Emerge qui un problema davvero drammatico per un organo di giustizia costi- tuzionale: cosa mai fare, in presenza di norme costituzionali palesemente errate? La risposta della Corte costituzionale – in assenza di ogni politica istituzionale a li- vello nazionale – è consistita nell’ardita utilizzazione di tutta una serie di tecniche argomentative (interpretazioni fortemente riduttive delle aree competenziali del- le Regioni, larga espansione di alcune materie di competenza esclusiva dello Stato, chiamate in sussidiarietà, richiamo addirittura all’eccezionalità della situazione sot- to giudizio) che hanno temporaneamente tamponato il problema, seppure al costo evidente di eccedere il ruolo di un organo di giustizia costituzionale, con tutte le con- seguenze che ne seguono. Tutto ciò sulla legislazione regionale, ma anche su quel- la statale, che non di rado ha legiferato come se il nuovo Titolo V non esistesse.
Che fare ora, dopo la conferma della vigenza del Titolo V?
Non si tratta solo di dare infine attuazione sperimentale all’art. 11 della legge cost. n.3/2001, ma di assumere responsabilmente una solenne e pubblica linea isti- tuzionale fondata sulla volontà di distinguere ciò che del Titolo V deve essere ne- cessariamente mutato tramite precise revisioni costituzionale da tutto ciò che, in- vece, deve essere rapidamente tradotto in legislazioni attuative, siano esse di tra- sferimento delle funzioni, siano legislazioni di cornice o norme finanziarie. Occor- re, in altri termini, assumere la politica regionale in attuazione del Titolo V come un oggetto primario di dibattito e di decisione, che potrebbe permettere finalmente di riprendere il tema generale della riforma delle nostre istituzioni nazionali, regionali e locali.
1.
L’esigenza di garantire alle autonomie territoriali adeguati strumenti di partecipa- zione al procedimento legislativo ordinario, pur sostenuta da una parte cospicua del- la dottrina in un’ottica di completamento della riforma del Titolo V, non ha finora trovato definitivo sbocco sul piano del diritto positivo. Negli anni successivi alla pre- detta novella costituzionale, infatti, per un verso è stata progressivamente abban- donata la prospettiva di dare attuazione all’articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che prevede la possibilità per i regolamenti parlamentari di integrare la composizione della commissione parlamentare per le questioni regionali median- te rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali; per al- tro verso, nel 2006 e nel 2016, si è assistito al fallimento in sede referendaria di al- trettanti tentativi, invero problematici, di trasformare il Senato della Repubblica in una camera territoriale, nel contesto di ipotesi di revisione costituzionale di più am- pia portata. In questo quadro è stata dunque la Corte costituzionale a preoccupar- si di valorizzare il principio di leale collaborazione quale chiave di volta delle rela- zioni fra gli enti costitutivi della Repubblica.
2.
A fronte della «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto pre- visto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3» (così, tra le mol- te, la sent. n. 6 del 2004), la Corte ha sistematicamente situato il baricentro della lea- le collaborazione a valle dell’atto legislativo statale, qualora esso disciplini funzio- ni amministrative o rinvii all’esercizio di poteri di normazione secondaria per la pro- pria attuazione. È peraltro noto come in queste circostanze, per la Consulta, il coin- volgimento delle autonomie debba avvenire nelle forme dell’intesa (tendenzialmente forte), non essendo sufficiente al riguardo il semplice parere. Tale impostazione – particolarmente ricorrente nel filone giurisprudenziale relativo alla cosiddetta “chia- mata in sussidiarietà” e in quello nel quale vengono in considerazione intrecci tra materie statali e regionali non risolvibili attraverso il criterio della prevalenza di uno dei titoli competenziali coinvolti – mostra tuttavia un limite di fondo.
ordinario
Essa, infatti, comporta che la partecipazione delle autonomie territoriali debba considerarsi esclusa in ordine alla fase di confezionamento della decisione legisla- tiva e, dunque, di elaborazione delle politiche pubbliche, sostanziandosi piuttosto nell’attribuzione di poteri inderdittivi che consentono alla regione e agli enti loca- li di condizionarne, mediante il modulo dell’intesa, il processo attuativo. Ne discende che la via prefigurata dalla Corte appare percorribile solo laddove l’atto legislativo prefiguri una fase attuativa in via regolamentare o amministrativa, ma non nel caso in cui esso detti una disciplina sostanziale immediatamente operativa.
Siffatta sottolineatura trova puntuale riscontro nella giurisprudenza costituzionale concernente le materie trasversali. Benché, infatti, queste ultime configurino per de- finizione titoli competenziali suscettibili in ogni caso di interferire, limitandole, con le competenze regionali concorrenti e residuali, la Corte ha potuto affermare la pie- na incidenza della leale collaborazione esclusivamente nei casi in cui le discipline poste in essere dal legislatore statale fondino l’esercizio di poteri regolamentari o para regolamentari. Così ad esempio – in tema di livelli essenziali concernenti i diritti ci- vili e sociali (art. 117, comma 2, lett. m) Cost.) e di coordinamento della finanza pub- blica (art. 117, comma 3 Cost.) – la necessità dell’intesa è stata ribadita con riferi- mento al decreto del presidente del consiglio dei ministri volto a determinare i livelli essenziali di assistenza sanitaria (sent. n. 88 del 2003), nonché al decreto del pre- sidente del consiglio dei ministri che suddivide tra gli enti territoriali il contributo al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (sent. n. 88 del 2014).
3.
Le considerazioni da ultimo sviluppate offrono un punto di vista utile a spiegare le ragioni della svolta recentemente impressa dalla Corte alla propria giurisprudenza attraverso la sent. n. 251 del 2016, con la quale – superando un precedente orien- tamento negativo (v., ad esempio la sent. n. 278 del 2010) – è stata affermata la di- retta incidenza del principio di leale collaborazione anche nei confronti del proce- dimento legislativo delegato. Nel caso di specie, infatti, la declaratoria di incostitu- zionalità ha colpito numerose disposizioni di delega di tipo sostanziale contenute nella legge n. 124 del 2015 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione del- le amministrazioni pubbliche), sul presupposto che le medesime, pur ricadendo in numerosi campi materiali di competenza (anche) regionale, prevedono che i decreti legislativi attuativi siano adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Con- ferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni o uni- ficata. In altri termini, l’assenza di una fase attuativa in via amministrativa o rego- lamentare induce la Corte a estendere per la prima volta il meccanismo dell’intesa a un atto legislativo, allo scopo di compensare il sacrificio delle attribuzioni regio- nali che esso produce.
La decisione in esame presenta significativi risvolti problematici. Anzitutto, essa sembra recare alcune forzature al modello costituzionale di delegazione legislativa, nella misura in cui estende all’intesa il novero dei contenuti necessari della legge de-
lega elencati dall’art. 76 Cost. Ma soprattutto, il nodo interpretativo più rilevante in questa sede è se il ragionamento svolto dalla Consulta possa essere esteso anche alla legge ordinaria. Sul punto, che è comunque oggetto di valutazioni diversificate in dottrina, è la stessa Corte a pronunciarsi negativamente, in particolare nella sent. n. 192 del 2017, ove si legge (punto 8.3.1.1) che il principio di leale collaborazio- ne non si impone «nel procedimento mediante il quale il Parlamento, attraverso le