mia politica e finanziaria, quando nei fatti essi risultano completamente svuotati di funzioni, rappresentatività politica, mezzi e personale.
Il tema è giuridico e politico, al tempo stesso.
Dal punto di vista giuridico, il problema può così riassumersi: gli artt. 114, 117, 118 e 119 Cost. pongono una riserva costituzionale di funzioni a favore delle Pro- vince, e non pare consentito al legislatore statale e regionale decidere liberamente di sottrarre competenze e spazi di autonomia alle Province, formalmente in conformità al principio di sussidiarietà ma sostanzialmente in aperto contrasto con esso. Una simile “riforma ordinamentale”, per utilizzare un’espressione della Corte, conflig- ge con la dignità di un ente costitutivo della Repubblica, con il concetto di autono- mia, con il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni, con la riserva di fun- zioni proprie alle province, con i principi stessi di sussidiarietà e adeguatezza nel- l’allocazione delle funzioni amministrative.
In sostanza una legge ordinaria, approvata “in attesa della riforma costituzionale”, ha modificato l’equilibrio tra enti costitutivi della Repubblica (che pure non sono do- tati di pari importanza e funzioni) voluto direttamente dalla Costituzione. Si badi, siamo di fronte ad un fenomeno diverso dalla semplice riallocazione delle funzioni in nome del principio di adeguatezza (o sussidiarietà ascendente): il legislatore or- dinario può ben decidere che la Provincia non rappresenti più il livello ottimale di eser- cizio di una specifica funzione amministrativa e, quindi, “spostare” tale funzione al livello regionale o statale. Ma se questa operazione viene fatta dal legislatore stata- le per la quasi totalità delle funzioni (salvo alcune funzioni ritenute “fondamentali”, e dunque incomprimibili a Costituzione vigente) spettanti ad un determinato livel- lo di governo; se essa viene estesa a tutti gli enti che compongono quel livello di go- verno e, di qui, sostanzialmente imposta ai legislatori regionali a seguito di una se- rie di tagli finanziari e di personale che rendono impossibile mantenere tali funzio- ni in capo a quello stesso livello, allora siamo di fronte ad una modifica strutturale dell’assetto voluto dalla Costituzione per l’ordinamento territoriale, che mira ad un riaccentramento di funzioni amministrative a favore delle Regioni e ad un sostanziale svuotamento del ruolo della Provincia [cfr. M. Gorlani, Quale futuro per le province dopo l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre, in federalismi.it, 5/17]. In so- stanza, si tratta di una riforma strutturale della mappa locale travestita da operazione di riordino delle funzioni in rispondenza ai criteri sussidiarietà e adeguatezza.
E non valga a questo riguardo obiettare che le Regioni avrebbero ben potuto con- servare in capo alle province altre funzioni, oltre a quelle fondamentali (comma 89): come è stato giustamente osservato, la definizione dell’assetto dei "nuovi" enti in- termedi (Province e CM) è divenuta una variabile dipendente da fattori esogeni, qua- li le risorse rese disponibili a seguito dalle riduzioni imposte dallo Stato, e il perso- nale che residuerà dalle procedure di mobilità verso le altre pubbliche amministrazioni [G.M. Salerno, La sentenza n, 50 del 2015: argomentazioni efficientistiche o neo-cen- tralismo repubblicano di impronta statalistica? in federalismi.it, n.7/15]. In un con- testo simile, le Regioni non potevano fare altro che riportare su di sé, o nella migliore delle ipotesi allocare presso ambiti interprovinciali e unioni di comuni, la stragran- de maggioranza delle funzioni provinciali.
Le incongruenze riferite all’area vasta, e alla provincia in particolare, non si li- mitano al piano della legittimità costituzionale, ma si estendono a quello politico. Nel merito, il disegno sotteso alla legge 56/14 di svuotare le province e trasformarle in uno strumento di raccordo e coordinamento delle politiche comunali sembra por- si in contrasto con la dimensione di ente politicamente autonomo, deputato alla cura degli interessi di area vasta, titolare di funzioni proprie e destinatario funzioni con- ferite sulla base dell’art. 118, che la provincia mantiene dopo il referendum del 4 di- cembre.
Senza voler enfatizzare l’esito referendario, non sembra contestabile che, dopo il 4 dicembre 2016, le Province si confermano enti dotati di piena autonomia (am- ministrativa, finanziaria e politica), oltre che caratterizzati da rappresentatività po- litica di un territorio e una popolazione (non a caso l’art. 132 Cost. parla di “popo- lazioni delle province”). Come tali, le Province non possono essere trattate alla stre- gua di mere agenzie di supporto degli enti locali (dei comuni, in particolare) per via della rappresentatività indiretta che ad essi attribuisce una legge ordinaria. In altri termini, il passaggio alla rappresentatività indiretta delle province – ammesso che questa, con il venire meno della prospettiva abolizionista, possa continuare a rite- nersi legittima – non può giustificare l’ulteriore declassamento politico delle province a mere strutture di raccordo comunali (o case di comuni, come è stato detto) poi- ché questo non risulta conforme agli artt. 5, 114, 118 e 119 della Costituzione [così S. Civitarese, Il Governo delle province dopo il referendum, in Istituzioni del federali- smo, 3/2016].
Del resto è la stessa Corte costituzionale ad affermare, in uno con la legittimità della loro elezione indiretta, che le Province seguitano ad essere enti esponenziali e rappresentativi: gli organi provinciali – si legge nella sent. 50/15, nella prospet- tiva della compatibilità tra la legge 56/14 e la Carta europea dell’autonomia loca- le – rispettano l’esigenza di una effettiva rappresentatività dell’organo rispetto alle comunità interessate attraverso il meccanismo che comporta la sostituzione di co- loro che sono componenti “ratione muneris” dell’organo indirettamente eletto, quan- do venga meno il munus. È dunque inaccettabile l’equazione tra rappresentatività indiretta e ruolo di agenzia comunale che oggi sembra comunemente riferita alle “nuo- ve” province.
Altrettanto inaccettabile è che le città metropolitane, enti di area vasta al pari delle province e come esse indirettamente rappresentativi, siano invece trattati come enti politici a tutto tondo, al punto da ammettere per legge la eventuale (e possibi- le) elezione diretta degli organi metropolitani. Se, in origine, l’esclusione del siste- ma a elezione diretta per le Province si giustificava in vista della futura cancellazione di queste ultime (e non delle Città metropolitane) dal novero degli enti costitutivi della Repubblica di cui all’art. 114, comma 1 Cost., dopo la consultazione referen- daria questo ragionamento sembra destituito di fondamento. La previsione legisla- tiva di un meccanismo di elezione solo indiretta per le province, dinanzi alla possi- bilità di un’elezione diretta del sindaco metropolitano (a condizione che siano rispettati alcuni presupposti), assume attualmente i contorni di una palese disparità di trat- tamento che difficilmente potrebbe superare un nuovo scrutinio di legittimità da par-
te della corte costituzionale [G. Boggero, “In attesa della riforma del Titolo V”. L’at- tesa è finita: quid juris?, in Istituzioni del federalismo, 3/2016].
Oltre che per le Province, lo scollamento tra Costituzione formale e Costituzio- ne materiale risulta macroscopico con riferimento al ruolo delle Regioni nel quadro delle autonomie territoriali.
Con la ricollocazione delle funzioni provinciali voluta dalla legge Delrio, le Re- gioni tendono a configurarsi come soggetti dotati di massicci compiti di gestione, ben lontane da quel ruolo di mera legislazione e programmazione, auspicato dalla dot- trina sin dagli anni ’70. Nella maggioranza delle legislazioni regionali le funzioni con- fermate in capo alle Province o alle Città metropolitane sono state individuate come categoria residuale rispetto alle funzioni riallocate presso la Regione o, quando pre- visto, anche ai Comuni [Rapporto sulla legislazione 2015/6]. Molte Regioni hanno colto l’occasione del riordino delle funzioni d’area vasta per attribuirsi – eventual- mente demandandone l’esercizio ad agenzie regionali – il complesso delle funzioni in precedenza conferite alle Province e non rientranti tra quelle considerate fonda- mentali dalla legge 56/14. Così, oggi molte Regioni italiane si presentano «fortemente irrobustite in compiti di gestione in ambiti quali agricoltura, difesa del suolo, ambiente, caccia e pesca, formazione professionale, e difficilmente possono configurarsi come quegli enti di (mera) legislazione e programmazione in passato da molti preconiz- zati e auspicati» (L. Vandelli, Quali prospettive per il sistema delle autonomie, dopo il referendum del 4 dicembre 2016, in corso di pubblicazione su Le Regioni, 2017).
Riaffiora sul punto l’antica contrapposizione tra le due diverse anime del re- gionalismo, che, sin dal dibattito costituente, reclamavano un ruolo essenzialmen- te politico o essenzialmente amministrativo per le Regioni. Per evitare la creazione di un ulteriore livello burocratico – una quarta burocrazia accanto a Stato, enti na- zionali, enti territoriali – la Carta costituzionale del 1948 dispose contestualmente di ridurre al minimo gli apparati burocratici regionali e di affidare l’esecuzione am- ministrativa ad enti che già operavano a livello locale, sfruttandone la dotazione tec- nico-amministrativa (art. 118, comma 3, Cost. vecchio testo “La Regione esercita nor- malmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici.”). Vero è che, per altro verso, il prin- cipio del parallelismo intestava alle Regioni importanti funzioni amministrative, ma il modello originario di amministrazione regionale era quello dell’amministrazione indiretta: le funzioni amministrative regionali venivano normalmente esercitate me- diante deleghe agli enti locali o avvalimento dei loro uffici, mentre le Regioni si con- figuravano come enti “ad amministrazione indiretta necessaria” [M.S. Giannini, Il decentramento amministrativo nel quadro dell’ordinamento regionale, in Atti del ter- zo convegno di studi giuridici sulla Regione, Cagliari-Sassari, 1-6 aprile 1959, Mila- no, 1962, p. 185 ss. ] cui era affidato il compito di svolgere un’attività di indirizzo, programmazione, pianificazione e assistenza tecnico-amministrativa nei confronti degli enti territoriali minori [Cfr. F. Benvenuti, L’organizzazione impropria della pub- blica amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, p. 968 ss. ].
La riforma del costituzionale del 2001, che esce confermata dal referendum co- stituzionale del 4 dicembre 2016, considera i Comuni “il fulcro dell’amministrazione