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fesa delle “autonomie”. Ma è chiaro che la sconfitta della prima opzione non impli- ca la riaffermazione della seconda come campo del tutto separato dalla prima; essa implica, semmai, l’acquisizione ancor più forte della necessaria priorità della seconda nel cuore, per così dire, della prima o, meglio ancora, nella cornice che le vede en- trambe riconosciute e parimenti degne.

L’argomentazione potrebbe portare molto lontano, ma il suo fulcro è questo: oggi, discutere di autonomia territoriale ha senso laddove se ne apprezzi nuovamente l’at- tinenza con un principio fondamentale di autonomia (art. 5 Cost.) che ne fa linguaggio e metodo – e criterio organizzativo… – anche del “centro”, e che non postula affat- to che questo “centro” sia in opposizione alle “autonomie” propriamente dette, ben- sì che si adegui alle pari esigenze che ispirano la Repubblica.

Ripartire dall’autonomia, allora, non può che significare la riscoperta del qua- dro comune dell’autonomia: il che comporta, da un lato, accettare l’idea che l’au- tonomia non sia prerogativa delle sole autonomie (o, peggio ancora, di alcune, sole, tra le autonomie…), ma anche dello Stato e del potere pubblico tout court; dall’al- tro, tornare alle intuizioni tuttora potenzialmente feconde della dottrina che nel- l’autonomia non leggeva (soltanto) la tutela di circuiti politico-rappresentativi di tipo comunitario, ma traguardava (anche) un’istanza di razionalizzazione dei conflitti territoriali e di apertura alla società civile.

Nella cornice Repubblicana, quei conflitti dovrebbero trasformarsi da dualismi “intersoggettivi” a confronti “oggettivi”: perché il valore aggiunto dell’autonomia, così intesa, è il miglioramento dell’efficacia e della sostenibilità diffuse delle politi- che repubblicane per mezzo della promozione di un trasversale metodo di apertu- ra e partecipazione dei processi decisionali, non la moltiplicazione irriducibile di un costante antagonismo tra lo Stato apparato e i tanti “microcosmi” del Paese.

3. …VALORIZZARE A FONDO LA RIFORMA DEL2001

Assunta questa direzione, emerge bene la seconda sfida: valorizzare davvero a fon- do la riforma del 2001, da considerarsi unitamente a tutto ciò che la sua faticosa ap- plicazione ha dimostrato.

Ciò vuol dire, innanzitutto, che non ci si può illudere di riprendere le fila ori- ginarie di quel disegno, ammesso che ve ne fossero di univocamente individuabi- li. Quell’assetto, come si sa, non è quello che il puro testo ci consegna; quell’asset- to, anzi, è quello che si è evoluto fino alla sentenza n. 251/2016 della Corte costi- tuzionale.

È un assetto, in altri termini, nel quale i confini materiali di competenza sono de- stinati ad essere irrimediabilmente superati dall’esigenza di “disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi” (così la sent. n. 251 cit.), e in cui le istanze del- le autonomie sono di conseguenza consegnate alle modalità con cui l’autonomia (re- pubblicana, nel senso anzidetto) è riconosciuta e raccolta già all’interno della di- mensione statale. Vale a dire, all’interno di quell’ambito che possiede istituzional- mente l’iniziativa di avviare qualsiasi discorso unitario.

Che la scelta, dunque, a fronte di tali sviluppi, sia quella di valorizzare in modo ancor più forte il sistema delle conferenze o quella di dare finalmente vita a quan- to previsto dall’art. 11 della legge cost. n. 3/2011 in tema di partecipazione parla- mentare di rappresentanze parlamentari, si tratta solo di prendere rapidamente co- scienza che un innesto al “centro” è improcrastinabile; e delle due opzioni occorre dire che, attualmente, possono servire e l’una e l’altra. Perché nel rilancio dell’au- tonomia (sempre nel senso anzidetto) è chiaro che è inevitabile responsabilizzare in primo luogo lo Stato, specialmente laddove lo si voglia capace di riattivare i cir- cuiti decisionali propri – e quindi le funzioni proprie – delle autonomie territoriali.

Dopodiché è bene anche evidenziare che valorizzare la riforma del 2001 vuol dire anche valorizzarne l’apertura verso un’idea differenziante delle scelte ammi- nistrative. Da questo punto di vista anche l’esercizio delle funzioni proprie non può essere concepito come autoreferenziale. Non si tratta, cioè, di ricondurre il quadro delle possibili competenze amministrative nel numerus clausus degli enti territoriali costituzionalmente riconosciuti. È la logica dell’art. 118 Cost. che va ricompresa: quel- la stessa logica che rischia sempre di funzionare “verso l’alto” (anche all’interno del rapporto tra Regioni e autonomie locali, non solo nelle relazioni che queste hanno con lo Stato…) laddove non se ne colga, anche da parte dei livelli di governo non statali, il dinamismo e il polimorfismo intrinseci.

In proposito, ciò che le autonomie territoriali in primis necessitano di metabo- lizzare è che le molte e rilevanti politiche che incidono sulla vita della popolazione a cui esse si rivolgono hanno bisogno di strumenti che non siano più “confinati” in perimetri amministrativi predefiniti.

In molti casi, infatti, gli agglomerati cittadini, con tutta la loro rete di servizi e di infrastrutture, superano spesso il livello comunale, quello provinciale e anche quel- lo in senso stretto metropolitano, spingendosi talvolta verso direttrici apertamente ultraregionali. Altre volte, invece, la città reclama il suo spazio anche nello spazio dell’ente esponenziale di immediato riferimento, dando vita ad istanze di comuna- lità interna e circostanziata che non possono più dirsi automaticamente assorbite nel- la legittimazione politica dell’istituzione del governo locale.

Riscoprire, allora, l’autonomia, a tutti quei livelli, significa saper differenziare, ipotizzare organizzazioni di raccordo o strumenti di coordinamento flessibili, variabili, che permettano al “contesto” in cui emergono determinati bisogni di scrivere in modo concreto e realistico il proprio “testo” regolativo, e ciò sia quando si tratti di un ter- ritorio facilmente confinato (o confinabile), sia quando si tratti di un territorio mol- to più articolato o frammentato (o in rapida e costante espansione). In ogni caso, ciò significa abbandonare l’illusione di “riconfinare” il rapporto tra bisogni e politi- che; ciò che si può mantenere “nel confine”, piuttosto, è lo spazio della legittimazione di chi è chiamato a coordinarsi con altri soggetti per l’esercizio condiviso di una fun- zione organizzatrice capace di dare risultati di volta in volta differenti, perché pro- iettata su scenari di governo non più affrontabili in solitudine.

4. …RISCOPRIRE LE RAGIONI E IL RUOLO ATTUALI DELLE AUTONOMIE SPECIALI

La terza sfida è comprendere il ruolo e le prospettive attuali delle autonomie speciali. Sul punto sarebbe sufficiente, in coerenza con l’idea stessa di una “specialità”, accorgersi per prima cosa che si tratta di realtà intrinsecamente diverse, per loro lo- gica costituzione, e quindi difficilmente accomunabili in un unico discorso. Discu- tere, ad esempio, della Regione Sicilia non è la stessa cosa che discutere della Val- le d’Aosta o della Regione Trentino – Alto Adige / Südtirol, a sua volta articolata nel- le due Province autonome di Trento e di Bolzano. Va ricordato, solo per inciso, che in queste due ultime realtà territoriali è attualmente in corso proprio un processo istituzionalizzato di ripensamento della disciplina statutaria, così come è in via di progressivo e positivo radicamento un esperimento di cooperazione transfrontaliera che le vede unite, nella programmazione di iniziative amministrative concrete, con un’unità territoriale di un altro Stato, il Land Tirolo.

Ciò premesso, ad ogni modo, non pare che l’orizzonte di queste autonomie sia inevitabilmente la loro decostruzione, o il loro abbandono, né che si possa imma- ginare, all’opposto, una specialità diffusa, propria di tutti i territori regionali, quel- li già esistenti o quelli, se del caso, opportunamente rivisti per l’occasione. A tale so- luzione ostano vincoli giuridici e parametri economici fin troppo discussi.

In una necessaria cornice – come si è detto – di autonomia diffusa e di differen- ziazione in primo luogo amministrativa, il posto delle “speciali” è molto più sensa- to di quanto non sembri, a patto che siano anche quelle autonomie ad abbracciare la logica di coordinamento sopra ipotizzata. Ciò che di quei sistemi va cambiato, in altre parole, non è la profondità o l’ampiezza delle prerogative di cui sono titolari le rispettive comunità politiche; è la capacità di relazionarsi efficacemente nell’in- tegrazione amministrativa delle questioni territoriali più ampie del tessuto repub- blicano, sì da promuoversi quali soggetti più responsabili di altri nella gestione di de- terminate politiche, anche – e forse soprattutto – al di là dei loro più stretti confini.

1. DOPO IL REFERENDUM LE NUBI NON SI SONO DISSOLTE

Avrei volentieri fatto a meno di dissentire con l’affermazione iniziale della traccia di discussione che mi è stata sottoposta, ma non posso ritenere che l’esito del refe- rendum costituzionale del 4 dicembre 2016 abbia interrotto in modo chiaro la “de- riva neocentralista” che da tempo caratterizza la sorte delle autonomie territoriali italiane.

L’atmosfera resta, a mio parere, plumbea per il regionalismo italiano1. Alcuni pro- fili problematici verranno sinteticamente richiamati nei tre paragrafi che seguono. In apertura vorrei, invece, evidenziare un dato presupposto e “meta-giuridico” ma evidentemente condizionante, ovvero l’assenza di elementi che comprovino, in oc- casione della consultazione referendaria, un saldo schierarsi dell’opinione pubbli- ca a favore delle autonomie territoriali e contro il centralismo. Le indagini sociolo- giche sul voto del 4 dicembre evidenziano, infatti, una pluralità di ragioni assai dif- ferenziate che hanno condotto l’elettorato a votare per il “no” senza però che il clea- vage “regionalisti (e più ampiamente autonomisti) vs. centralisti” spicchi in modo chia- ro. Esso sembra restare confuso – e recessivo – rispetto ad altre linee di aggregazione del consenso, tra le quali principali è stata quella “pro o contro Renzi”2.

Cercando di non esagerare con il pessimismo - che porrebbe al costituzionalista inquietanti interrogativi sull’effettivo radicamento e condivisione nella coscienza co- mune di un principio costituzionale fondamentale come quello della promozione e del riconoscimento delle autonomie locali – si può dire che l’opinione pubblica re- sti in attesa di segnali di discontinuità, interni al sistema delle autonomie territoriali ed esterni ad esso, che consentano di recuperare la fiducia nel progetto costituzio- nale di promozione del decentramento territoriale3.

2. LE MATERIE DI COMPETENZA REGIONALE, LA CORTE COSTITUZIONALE E LA MANUTENZIONE COSTITUZIONALE

I difetti e le ambiguità del disegno di riforma della Costituzionale del Governo Ren- zi in tema di riscrittura del riparto di competenze dell’art. 117 Cost. sono stati og- getto di attenta analisi nel corso del dibattito politico e scientifico che ha accompa- gnato il percorso della riforma e restano “agli atti” per gli operatori scientifici e pra-