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della costituzione e della carta europea dell’autonomia locale

Questo è il punto. I legislatori regionali hanno avuto maggiori poteri e, per un verso, non li hanno saputi esercitare, perché hanno continuato a rincorrere la gestione di questi interessi microsettoriali, anziché provare a sperimentare soluzioni nuove o quantomeno “più aderenti” alle specifiche esigenze delle loro comunità; per altro verso, li hanno esercitati male, in maniera del tutto irresponsabile.

Come non ricordare, ad esempio, che subito dopo l’avvio della nuova stagione statutaria tutte le Regioni – senza distinzione di colore politico – hanno aumenta- to il numero dei loro consiglieri, sulla base dell’opinabile presupposto per cui a mag- giori poteri legislativi dovessero corrispondere Consigli più grandi, il che evidente- mente la dice lunga sul loro modo di concepire l’autonomia.

Quando poi sono scoppiati gli scandali sull’uso dei fondi dei gruppi consiliari, le Regioni sono arrivate al punto di chiedere al Governo che intervenisse direttamente sulla loro organizzazione interna! È la vicenda che ha portato, come noto, al decreto n. 174 del 2012 e che ha rappresentato, a mio avviso, il de profundis dell’autonomia regionale.

Allora la riforma costituzionale, per la parte relativa al Titolo V, era chiaramente una marcia indietro rispetto alla strada imboccata nel 2001. Tra l’altro, individua- va dei bersagli sbagliati – penso all’abolizione delle competenze concorrenti – quan- do avrebbe dovuto prenderne di mira ben altri, come le Regioni speciali.

Però mi viene il dubbio che nel 2001 si sia voluto adattare un vestito – il Titolo V – ad un corpo – il reale assetto dei rapporti centro-periferia – che, forse, aveva tut- t’altre fattezze. E non pochi esempi depongono in favore di questa conclusione. Quan- do, ad esempio, la Corte costituzionale (sent. n. 11 del 2014) ci dice che le linee gui- da in materia di autorizzazione degli impianti di energia rinnovabile, recate da de- creto ministeriale, sono principi fondamentali della materia (sic!).

Oppure quando la Regione Abruzzo istituisce quella che è a tutti gli effetti un’area marina protetta, spacciandola in realtà per un parco naturale, senza che questo ab- bia nemmeno un centimetro quadrato di terraferma, solo per evitare l’installazio- ne di una piattaforma petrolifera (sent. n. 36 del 2017).

O ancora, la vicenda della legge piemontese che dà copertura finanziaria all’ente di gestione dei Sacri Monti. Questo ente, nel 2015, è sotto il controllo dell’Assesso- rato all’ambiente. La Regione, a seguito di una riorganizzazione interna, lo sposta sotto il controllo dell’Assessorato alla cultura. Quindi, se per l’anno 2015 la posta di bilancio è quella relativa alla materia ambiente, per il 2016 diventa quella relativa alla materia cultura. Lo Stato, tuttavia, impugna questa norma assumendo che l’UPB del 2016 non è pertinente!

La questione, ovviamente, non è fondata (sent. n. 33 del 2017), ma mi pare che questi esempi non facciano altro che confermare quanta strada ci sia ancora da fare affinché in questo Paese possa maturare un’autentica cultura dell’autonomia.

Cosa fare per il futuro? Credo che l’esito del referendum del 4 dicembre, nel pre- cludere qualsivoglia ipotesi di revisione costituzionale a breve/medio termine, spin- ga finalmente in favore di quella opera di coerente attuazione legislativa che è man- cata in questi anni e che rappresenta una delle cause principali dei “guasti” prodotti dal Titolo V del 2001.

Nonostante tale esito, invece, non andrebbe persa di vista la possibilità di spe- rimentare comunque la leale collaborazione sul piano legislativo, integrando final- mente i rappresentanti delle Regioni e degli enti locali nella Commissione parlamentare per le questioni regionali.

Quanto infine alla sorte della legge Delrio, la motivazione della sentenza n. 50 del 2015 è in larga misura costruita sulla transitorietà di quella disciplina. La Cor- te, infatti, non manca di rilevare come per le Province sia «in corso l’approvazione di un progetto − da realizzarsi nelle forme di legge costituzionale − che ne preve- de la futura soppressione, con la loro conseguente eliminazione dal novero degli enti autonomi riportati nell’art. 114 Cost., come, del resto, chiaramente evincibile dal- l’incipit contenuto nel comma 51 dell’art. 1 della legge in esame».

Non è da escludersi, pertanto, che la mancata definitiva approvazione di quel pro- getto possa portare la Corte anche a mutare orientamento, essendo venuto meno il quadro normativo, ancorché in itinere, che aveva fatto da sfondo alla sua decisione. D’altra parte, con riguardo alle modalità di elezione del nuovo ente di area va- sta, la Corte stessa sembra lasciare aperto uno spiraglio. Nell’ammettere «la possi- bilità di una elezione indiretta, purché siano previsti meccanismi alternativi che co- munque permettano di assicurare una reale partecipazione dei soggetti portatori de- gli interessi coinvolti», essa osserva come «[t]ali meccanismi, nella specie, sussistono […] E di ciò non è menzione nei ricorsi, che si limitano a porre la questione di costitu- zionalità in termini generali e astratti (corsivo aggiunto), senza alcun riferimento pun- tuale né alla concreta disciplina né ai compiti attribuiti alle Città metropolitane e alle nuove Province». Dal che potrebbe ritenersi, in ipotesi, che ove il giudice delle leg- gi fosse nuovamente investito di questa questione in termini più puntuali e concre- ti, gli esiti potrebbero, forse, essere diversi.

1. TRA IDEALITÀ E CONCRETEZZA: TRE ORIZZONTI…

L’esito della consultazione referendaria del 4 dicembre 2016 ha lasciato il segno. Si tratta di una convinzione comune. Meno condivise, tuttavia, sono le motivazioni che dimostrano di sorreggerla.

C’è chi ritiene che quell’esito sia stato, in tutto e per tutto, un modo di porre fine a una determinata stagione politica, senza che tuttavia ne siano rimasti travolti i pro- fili istituzionali o le urgenze sostanziali implicati dalla riforma. C’è chi, invece, so- stiene che la fine di quella medesima stagione politica si sia risolta in una indubbia e consapevole riaffermazione collettiva di una certa idea dell’articolazione territo- riale della Repubblica.

Con tutta probabilità entrambe le prospettive soffrono di un approccio preva- lentemente “retorico”. L’una serve ai “vinti” per argomentare la possibilità di scoprirsi “vincitori” in un prossimo futuro. L’altra serve ai “vincitori” per immaginare la pos- sibilità di ritrovarsi “ancor più vincitori” di quanto sia realistico attendersi. Si trat- ta, all’evidenza, di due visioni eccessivamente ottimistiche, poiché la prima impli- cherebbe la costituzione di un tavolo realmente comune di analisi e di nuova pro- posta, e la seconda presupporrebbe l’esistenza di una volontà socio-politica diffusa e autoevidente. Allo stato dell’arte le condizioni per l’una o per l’altra eventualità dav- vero non sono scontate.

Se c’è una cosa, tuttavia, che il referendum e il dibattito che l’ha accesso posso- no insegnare è la necessità di un approccio più moderato, da giocarsi nell’equilibrio tra il recupero di una necessaria idealità e la difesa di una inevitabile concretezza. Ed è una partita, questa, che, dal punto di vista giuridico, si può giocare verso tre orizzonti diversi, ciascuno dei quali traguarda sfide non facili.

2. …RECUPERARE IL SIGNIFICATO TRASVERSALE DELL’AUTONOMIA

La prima sfida è, forse, quella più complessa, perché si scontra con matrici cultura- li molto forti: occorre recuperare, innanzitutto, il significato trasversale dell’autonomia.

Che cosa ciò voglia dire è presto comprensibile.

Il dibattito attuale rischia di riprodurre un certo schematismo, tipico della di- scussione referendaria, di per sé troppo polarizzata tra la difesa del “centro” e la di-