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1.2 Manifestazioni visibili e spiegazioni ricorrenti della crisi agroalimentare globale Le dinamiche predatorie di accumulazione per espropriazione su cui si fonda il sistema

1.2.2 La competizione food-feed-fuel

Come già accennato, alcuni dei sintomi della crisi alimentare sono stati il crescente consumo di carne e la produzione di agrocarburanti. Nell‘insieme questi due fenomeni costituiscono ciò che è noto in letteratura come ―competizione food-feed-fuel‖, cioè la concorrenza tra il diretto consumo umano degli alimenti, l‘uso mangimistico in zootecnia o l‘impiego in qualità di carburante, che conduce alla riconversione produttiva di enormi estensioni di terre, ad ampie deforestazioni e all‘espulsione di contadini e comunità indigene a discapito della biodiversità.

6,7 miliardi di esseri umani competono per il cibo: non necessariamente fra loro, ma in misura crescente con miliardi di polli, maiali e bovini e da un po‘ di tempo anche con centinaia di milioni di automobili. È la contesa sulla risorsa alimentare, intesa come derrate agricole al bivio, ferme a un crocicchio fatto di politiche dirigiste sugli agrocarburanti, di fame di carne a basso prezzo e alto costo ambientale o di consumo diretto umano secondo traiettorie brevi e rettilinee, quelle che portano ―diritti al cibo‖ (Colombo, Onorati 2009: 59).

Una nuova e crescente attenzione verso le risorse alimentari, dunque, proviene da vari settori, da quello degli allevamenti industriali a quello della produzione di carburanti a base vegetale36.

Per quanto riguarda il settore zootecnico, la domanda mondiale di produzione in tale comparto è in continua crescita. Il prezzo relativamente basso di questi prodotti è stato un elemento decisivo per la loro rapida diffusione ed è stato reso possibile da alcuni fattori che afferiscono al modello di produzione industriale e al sostegno offerto da governi, istituzioni finanziarie internazionali ed agenzie di sviluppo.

Guardando ai modelli di produzione industriale, degli esempi lampanti provengono dall‘Unione Europea, dove vengono favorite la concentrazione degli allevamenti e la dipendenza da risorse (energetiche ed alimentari) esterne. Nell‘area europea la capacità

36 A titolo esemplificativo, si può citare il caso dei cereali, base alimentare di tutte le popolazioni. Si stima che

su 2.232 milioni di tonnellate prodotte nel mondo nel 2008, meno della metà è servita per sfamare direttamente gli esseri umani. Il resto (esclusa la parte destinata alla produzione di sementi) – vale a dire circa la metà della produzione mondiale di cereali – è stato dirottato verso mangiatoie animali e utilizzi industriali

produttiva presenterebbe un basso potenziale dal momento che il territorio è limitato e densamente popolato; tuttavia, il settore zootecnico riveste un ruolo fondamentale nella politica agricola comunitaria. In seguito all‘accordo di Blair House del 1992 (cfr. par. 1.2) le superfici comunitarie furono limitate a colture proteiche ed oleose (soia, colza, girasole) per poco più di 5 milioni di ettari sui 130 milioni di ettari di area agricola totale (di cui il 70% era già destinato all‘alimentazione animale attraverso pascoli e foraggi). Il risultato è stato frutto di una ―scelta miope‖: sulle 47 milioni di tonnellate di soia – che rappresenta la principale fonte di proteine vegetali per la zootecnia – consumate dagli allevamenti europei, solo 12 milioni sono prodotte nei Paesi comunitari, per cui i restanti 35 milioni di tonnellate rappresentano la dipendenza esterna dell‘Unione Europea da proteine vegetali. Ciò non impedisce neppure di importare grandi quantità di organismi geneticamente modificati (OGM), nonostante il continente sia contrario alla loro produzione (Colombo, Onorati 2009: 62).

La soia è divenuto l‘elemento principale nell‘ambito della produzione di mangimi per animali: la sua produzione è arrivata fino a 240 milioni di tonnellate, la maggior parte della quale ad opera di Stati Uniti (quasi 85 milioni), Brasile (64 milioni) ed Argentina (47

milioni)37; inoltre, il suo consumo è cresciuto proporzionalmente in modo molto più

elevato rispetto all‘incremento delle produzioni zootecniche, dunque il suo uso si è molto intensificato per unità di carne prodotta (Colombo, Onorati 2009: 63).

Nel suo Rapporto The livestock’s long shadow38, nel 2006 la FAO ha denunciato il settore

della zootecnia come uno dei principali fattori che danno luogo ai più seri problemi ambientali, alimentari, sanitari e climatici a livello locale e globale. Alcune cifre indicate nel Rapporto, possono far comprendere la rilevanza di tale settore su diverse dimensioni: vale il 40% del PIL agricolo su scala mondiale ed impiega 1,3 miliardi di persone lungo l‘intera filiera di produzione; contribuisce per un terzo all‘assunzione di proteine nella dieta umana; è responsabile del 18% delle emissioni di gas a effetto serra. Un dato molto significativo, per mettere in evidenza soprattutto l‘aspetto della competizione food-feed, è quello relativo all‘utilizzo della terra: il 33% della terra arabile è dedicata alla coltivazione di mangimi e foraggi e, aggiungendo i pascoli si arriva al 70% di tutti i suoli ad uso agricolo, pari al 30% della superficie terrestre libera da ghiacci.

37 Nel caso dell‘Argentina, l‘incremento della produzione di soia OGM ha portato alla repentina transizione

dal pascolo alla coltivazione della soia. Nel 2005 questo prodotto rappresentava circa un terzo del valore delle esportazioni nazionali, contro il 3% di carne bovina e cuoio che negli anni precedenti costituivano una voce di peso per l‘economia argentina nel suo complesso.

Nel Rapporto Livestock to 2020, The Next Food Revolution39, l‘International Food Policy

Research Institute (IFPRI) ha parlato di una ―rivoluzione zootecnica‖ caratterizzata da sette tendenze specifiche: rapido aumento mondiale della produzione e del consumo di prodotti zootecnici; contributo principale dei Paesi in via di sviluppo ai livelli di produzione e consumo; cambiamento progressivo della produzione zootecnica da caratteristiche locali e di piccola scala a dimensioni produttive maggiori e attività ―globali‖; rapido cambiamento tecnologico nella produzione zootecnica e nei sistemi di trasformazione industriale; progressiva sostituzione di carne e latte al posto dei cereali nella dieta; rapido aumento dell‘utilizzo di cereali nell‘alimentazione zootecnica; crescita dello stress ecologico dei pascoli e allevamenti a carattere industriale sempre più in prossimità delle città (Colombo 2002: 94).

La terza componente della competizione food-feed-fuel riguarda la ―corsa all‘oro verde‖ che ha scatenato un rapido aumento, nel corso di pochi anni, della produzione di vegetali destinati alla realizzazione di carburanti alternativi a quelli fossili.

I movimenti sociali e le organizzazioni che si battono contro le dinamiche e le conseguenze di questo fenomeno hanno rinominato ―agrocarburanti‖ quelli che venivano comunemente definiti ―biocarburanti‖ – proprio come le pratiche dell‘―aiuto alimentare‖ erano state rinominate con il più realistico appellativo di ―dumping‖ (Friedmann 2005: 234) – rappresentando ―a latent expression of the unravelling of the recent corporate food regime, beginning with its representational crisis‖ (McMichael 2010: 610).

Abbiamo un nuovo lessico. Biocarburanti, biomassa, bioenergia, biogasolio, bioalcol… di colpo i politici prendono decisioni e impongono cambiamenti con il prefisso ―bio‖ […] La rivoluzione ―bio‖ riguarda l‘uso della terra per produrre un‘energia alternativa a quella estratta dagli strati profondi della crosta terrestre sottoforma di carbone, petrolio e gas (Lang 2010: 140).

La produzione crescente degli agrocarburanti ha contribuito notevolmente all‘incremento della fiammata dei prezzi, determinando una progressiva sottrazione di quote significative di terra e, quindi, risorse alimentari.

Because food and fuel crops are competing for land and resources, high food prices may actually push up fuel prices. Both increase the price of land and water. This perverse, inflationary spiral puts food and productive resources out of reach for the poor (Holt-Giménez, Shattuck 2011b: 79).

Secondo un articolo del Financial Times del 200840, tra il 2001 e il 2006 la quantità di

granturco utilizzata nelle distillerie di etanolo negli Stati Uniti è triplicata (da 18 milioni a 55 milioni di tonnellate). L‘anno successivo la domanda di granturco delle medesime distillerie è arrivata a quota 81 milioni di tonnellate, più del doppio superiore all‘incremento annuale della domanda globale del cereale a livello mondiale. Nel 2008, un quarto del raccolto di granturco americano era destinato alla produzione di etanolo. Dal momento che il granturco americano rappresenta circa il 40% di quello prodotto in tutto il mondo, un aumento di valore del granturco prodotto negli Stati Uniti ed utilizzato per la produzione di agrocarburanti ha sicuramente un impatto sui mercati globali del granturco destinato all‘alimentazione.

Alcuni dati sulle quantità di derrate alimentari prodotte al fine di trasformarle in agrocarburanti, possono fornire un‘idea della portata del fenomeno. Dei 132 milioni di tonnellate di oli vegetali prodotti a livello mondiale, circa il 7% è stato utilizzato nel 2007 per la produzione del biodiesel, con una crescita annua per tali impieghi del 15% tra 2004 e 2007, rispetto al 4,2% dell‘utilizzo di oli vegetali a fini alimentari. Il forte incremento della domanda di mais volta a produrre agrocarburanti negli Stati Uniti, ha portato ad un aumento di un quarto delle superfici investite a tale scopo nella stagione 2007/2008 con la parallela diminuzione del 16% della coltivazione della soia. Anche le scorte di frumento sono crollate negli USA, mentre i prezzi sono raddoppiati in meno di un anno. Un simile andamento si è avuto in Paesi tipicamente produttori ed esportatori di frumento (Argentina, Canada, Unione Europea in generale, Russia e Ucraina), dove si è registrato un aumento delle coltivazioni di semi oleosi volti alla produzione di biodiesel a discapito delle superfici coltivate a grano.

Questa prima generazione di agrocarburanti ha comportato la conversione di messi essenziali per il consumo umano (come mais e grano) in equivalenti dei carburanti fossili, utilizzati soprattutto per alimentare le automobili. Si tratta, dunque, dell‘espansione di un modello che ―alimenta le auto degli occidentali benestanti (e obesi) anziché le bocche degli indigenti e fa salire i prezzi di prodotti alimentari essenziali‖ (Lang 2010: 140).

Spinti dal falso pretesto che darebbero un importante contributo alla lotta ai cambiamenti climatici, gli agrocarburanti hanno così mandato le automobili a sbattere sulle tavole di tutto il mondo, contribuendo all‘innalzamento dei prezzi dei beni alimentari (Colombo, Onorati 2009: 69).

Nonostante la produzione di agrocarburanti abbia raggiunto tali ampie dimensioni solo nell‘ultimo decennio, l‘esplosione del fenomeno deve essere inserita nel complesso dell‘industrializzazione del sistema alimentare. Infatti, il boom degli agrocarburanti può essere considerato come il più recente sviluppo nella relazione tra agricoltura ed industria, iniziata con la Rivoluzione Industriale e che ha condotto all‘industrializzazione globale dell‘agricoltura stessa. A tal proposito Holt-Giménez e Shattuck (2011b: 86) parlano di una agrofuels transition, richiamando l‘originaria transizione agraria.

Attraverso le lenti della food regime analysis, McMichael (2010: 609) interpreta la recente esplosione degli agrocarburanti come ―the ultimate demystification of capitalism‘s subjection of food to the commodity form: deepening the abstraction of food through its conversion to fuel, at the continuing expense of the environment‖, tanto da parlare dell‘approssimarsi ad un food-for-fuel regime. Il fenomeno dell‘espansione degli agrocarburanti, e le conseguenze che ciò ha comportato, evidenzia il fallimento delle pretese neoliberali di nutrire il mondo attraverso il mercato, all‘interno di un corporate food regime fondato su un‘insostenibile ed energivora agro-industrializzazione.

The breaching has three dimensions: failure to deliver on these claims, enabling crossover investment from food to fuel crops, and a violation of trust, as feeding the world claims yield to energy security provisioning for a wealthy minority of humanity (McMichael 2010: 610).

Gli agrocarburanti possono essere considerati un simbolo della crisi dell‘attuale regime alimentare nella misura in cui rompono le regole implicite dell‘ordine mondiale neoliberale, secondo il quale la sicurezza alimentare deve essere garantita attraverso la gestione del mercato globale considerato come il più efficiente distributore di risorse agricole attraverso la guida delle multinazionali (McMichael 2010: 626). Gli agrocarburanti si inseriscono, infatti, nelle dinamiche di accumulazione per espropriazione portate avanti dall‘attuale regime alimentare. Oltre ad aver provocato un aumento dei prezzi alimentari, hanno anche creato una nuova concentrazione di potere monopolistico, mettendo ―i nostri sistemi alimentari ed energetici sotto un unico, enorme tetto industriale‖ (Holt-Giménez, Patel, Shattuck 2010: 103).

La trasformazione del cibo in carburante: a) apre nuovi spazi di mercato alle materie prime eccedenti come il granturco e la canna da zucchero; b) fa salire il valore di tali materie prime nel mercato sia degli alimenti sia dei carburanti; c) crea nuovi processi di trasformazione che permettono alle grandi società sia di aumentare il valore sia di incamerarne di più; d) aumenta la quantità totale di cereali sul mercato. Non sorprende che gli agrocarburanti procedano a tutto vapore nonostante i gravi inconvenienti sociali e ambientali (Holt-Giménez, Patel, Shattuck 2010: 104).

La fede cieca negli agrocarburanti – basata sul desiderio di trovare un carburante alternativo per fronteggiare il ―picco del petrolio‖ ed ulteriormente alimentata dal business che vi gravita attorno – ha scatenato un‘ondata di investimenti in questo settore in termini di ricerche, impianti di trasformazione e conversione di milioni di ettari di terra in piantagioni di canna da zucchero, mais, palma da olio e jatropha. Con la convinzione che le colture utilizzate per produrre carburante ―verde‖ avrebbero condotto ad una rapida transizione verso un‘economia energetica rinnovabile e che avrebbe ridotto le emissioni di gas serra inaugurando una nuova era di prosperità rurale, molti governi hanno ampiamente utilizzato la politica e i fondi pubblici per sostenere il mercato e l‘industria degli agrocarburanti.

In realtà, l‘evidenza dimostra che quella degli agrocarburanti è stata ―una cattiva idea nel momento peggiore possibile‖ (Holt-Giménez, Patel, Shattuck 2010: 101). Delle dichiarazioni negative emergevano già nel 2007, di fronte alle prime avvisaglie sui rischi che un‘espansione del settore avrebbe comportato in merito ad un peggioramento delle condizioni alimentari a livello mondiale. Lester Brown, fondatore e presidente dello Earth Policy Institute, nel 2007 illustrava la situazione con un esempio molto eloquente: ―i cereali occorrenti per riempire un serbatoio da 100 litri di etanolo una sola volta nutrirebbero una

persona per tutto l‘anno‖41. Sempre nello stesso anno, Jean Ziegler, relatore speciale

dell‘ONU sul diritto al cibo, pronunciò una frase divenuta ormai celebre e citata dalla maggior parte degli autori che si sono espressi su questo tema: gli agrocarburanti furono definiti ―un crimine contro l‘umanità‖ e i governi furono sollecitati ad attuare una moratoria di cinque anni sulla loro produzione. Chiedendosi perché i governi, anche di fronte all‘evidenza, non abbiano cambiato rotta, parafrasando la dichiarazione di Ziegler, Monbiot (2010: 148) si risponde: ―un crimine contro l‘umanità in un altro luogo e in un altro tempo costano meno di un disagio minore qui e ora‖.

McMichael (2010: 626), definisce quella promossa dalla produzione di agrocarburanti come una ―soluzione artificiale‖:

It is artificial in two senses: first, biofuels (first and second generation) are increasingly recognised as ineffectual in reducing green house gas emissions; and second, biofuels displace food and food producers – revealing the falsity of corporate agriculture‘s claim to ―feed the world‖ while an emergent food/fuel complex offers fungible possibilities for profitable investments via alliances between agribusiness, energy, automobile and biotechnology companies, and states.

41 Brown L.R. (2007), Distillery Demand For Grain To Fuel Cars Vastly Understated: World May Be Facing Highest

In effetti, gli agrocarburanti si sono rivelati incapaci di assolvere ai compiti per i quali erano stati ideati, in primo luogo quello di sostituire il petrolio e ridurre drasticamente le

emissioni di gas serra. In merito al primo punto, uno studio dell‘OCSE del 200642 ha

rilevato che gli Stati Uniti, il Canada e l‘Unione Europea necessiterebbero di impiegare fino al 70% dell‘area coltivata per soddisfare il 10% del loro fabbisogno di carburante per i trasporti (Lang 2010: 143). Anche dal punto di vista della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, il risultato non è stato quello sperato. Prendendo in considerazione l‘intero ―ciclo di vita‖ degli agrocarburanti (dalla deforestazione per la produzione fino al consumo delle automobili) le modeste riduzioni di emissioni vengono controbilanciate da emissioni molto maggiori per la deforestazione, gli incendi, la coltivazione e le perdite di carbonio del suolo. Infatti le aree di foresta tropicale tagliate per lasciare posto a monocolture come quella della canna da zucchero, emettono il 50% di gas serra più della produzione ed uso della stessa quantità di benzina (Holt-Giménez, Patel, Shattuck 2010: 111). Inoltre, comparando l‘emissione di anidride carbonica di un agrocarburante e di un carburante fossile, uno studio della società consulente olandese Delft Hydraulics citato da Monbiot (2010: 146) ha mostrato che ogni tonnellata di olio di palma è responsabile di circa 33

tonnellate metriche di emissioni di CO2, vale a dire 10 volte più di quanta ne sia prodotta

dal petrolio.

Il vincitore del Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, in seguito ad alcuni studi

condotti sull‘emissione di protossido d‘azoto (N2O) da fertilizzanti, ha osservato che la

sostituzione dei carburanti fossili con gli agrocarburanti potrebbe non portare al pianificato

raffreddamento climatico a causa delle emissioni di N2O. Infatti, sulla base del contenuto di

azoto, l‘uso di molti prodotti alimentari per ricavare energia può condurre ad emissioni di

N2O così abbondanti da causare un riscaldamento maggiore rispetto al raffreddamento

prodotto dalle emissioni di CO2 risparmiate (McMichael 2010: 622-3).

I sostenitori degli agrocarburanti ―nonostante tutto‖, ritengono che quelli attualmente prodotti a partire da colture per l‘alimentazione, saranno progressivamente sostituiti da colture ecocompatibili.

Questo mito, ironicamente battezzato ―l‘erba civetta‖, ci invita ad accettare gli attuali agrocarburanti inefficienti e inquinanti in quanto è in costruzione un‘alternativa migliore, più verde: un po‘ come sentirsi chiedere di saltare da un aereo in volo

42 OCSE (2006), Agricultural Markets Impacts of Future Growth in the Production of Biofuels. Report of Working

promettendoci che si inventerà il paracadute prima che ci sfracelliamo al suolo (Holt- Giménez, Patel, Shattuck 2010: 112-3).

In realtà i cosiddetti ―agrocarburanti di seconda generazione‖ non potranno risolvere il problema del potere monopolistico, né quello ecologico delle monocolture industriali per carburanti, e neppure quello della competizione food-fuel. Infatti, permane il problema delle risorse principali necessarie per la loro produzione – la terra e l‘acqua – a prescindere che siano colture destinate all‘alimentazione umana o a quella delle automobili. Quella delle ―successive generazioni‖ è un‘arma che non viene utilizzata unicamente nel caso degli agrocarburanti. Come spiegano Colombo e Onorati (2009: 72):

L‘enfasi sulle generazioni successive a quelle che presentano problemi accomuna la retorica sugli agrocarburanti a quella sul nucleare (dove la quarta generazione dispiegherebbe ogni potenziale salvifico e sostenibile) e sugli OGM (dove la seconda e terza generazione – sempre in procinto di manifestarsi come eterne Godot – metteranno a disposizione piante più nutrienti, tolleranti siccità o incorporanti farmaci e vaccini). E non è un caso che la seconda generazione di agrocarburanti sarebbe possibile proprio grazie a prossime generazioni di organismi transgenici.

La seconda generazione di agrocarburanti prevede una coltivazione intensiva in terreni non agrari per valorizzare le aree ―marginali‖, come accade già per quelli di ―prima generazione‖ come nel caso della jatropha. Anche se a prima vista questa potrebbe sembrare una soluzione ragionevole, in realtà occorre fare alcune considerazioni. In primo luogo, se le terre sono sottoutilizzate, soprattutto nelle aree predesertiche, è a causa della fragilità degli ecosistemi e della fertilità dei suoli che sarebbero esposti ad un eccessivo sfruttamento nell‘eventualità di una produzione industriale, come quella destinata ad ottenere carburante. Inoltre, coltivare agrocarburanti su terre considerate ―marginali‖ potrebbe comportare l‘eradicazione di colture alimentari migliori e l‘espulsione di popolazioni, a loro volta considerate ―marginali‖ (Colombo, Onorati 2009: 72-3).

Molti hanno salutato un arbusto tropicale, la jatropha, come una pianta miracolosa (guardatevi dalle piante miracolose!) perché in teoria potrebbe essere coltivato da piccoli proprietari terrieri su terreni sterili. In pratica, il governo indiano ha in progetto 14 milioni di ettari di piantagioni di jatropha e caccia i piccoli proprietari dalla terra per fare posto a queste ultime (Monbiot 2010: 147).

I sostenitori degli agrocarburanti, infatti, continuano a ritenere che i prodotti coltivati su terreni ecologicamente degradati avranno un effetto migliorativo sul suolo e non porteranno alla sua distruzione. Probabilmente questo era anche l‘avviso del governo brasiliano che ha classificato circa 200 milioni di ettari di foreste tropicali, praterie e paludi come ―terre degradate‖ e, pertanto, adatte a questo tipo di coltivazione. Tutt‘altro che terreni degradati, questi ecosistemi ricchi di biodiversità (Mata Atlantica, Cerrado e

Pantanal) erano occupati da popolazioni indigene che praticavano un‘agricoltura di sussistenza e da grandi fattorie per l‘allevamento del bestiame. Introdurre le piantagioni volte alla produzione di agrocarburanti ha spinto queste popolazioni alla ―frontiera