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Nel cuore di un terzo regime alimentare? L’Impero del cibo e il potere delle corporations

L‘emergere dei NIC e dei NAC avvia un percorso che conduce ad una nuova definizione dello sviluppo. Quello che nel ―progetto sviluppo‖ era stato identificato con la partecipazione al mercato mondiale, negli anni Ottanta viene esteso fino ad includere un‘ampia liberalizzazione e privatizzazione in tutti i settori: mentre il progetto sviluppo si configurava come un progetto nazionale su scala universale, con il nuovo ―progetto globalizzazione‖ i governi nazionali perdono parte della loro sovranità e la cedono alle grandi istituzioni globali e alle multinazionali. Tale passaggio può essere esemplificato dalle politiche di prestito condotte dalla BM: mentre prima i prestiti erano destinati a progetti pubblici agli Stati del Terzo Mondo, con l‘affermarsi del progetto globalizzazione i prestiti

vengono collegati a politiche che perseguono strategie di crescita economica orientate al mercato. Infatti, insieme al FMI, la BM promuove i cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale, vincolando la concessione di prestiti ad alcune condizioni, in primo luogo la liberalizzazione dei mercati e la privatizzazione.

Nel ―progetto globalizzazione‖ l‘agricoltura riveste un posto centrale nella sfida che la governance globale ha posto allo sviluppo nazionale. Questo settore, insieme a quello dei servizi, era stato escluso dal campo d‘azione del GATT, preposto alla regolamentazione del commercio internazionale. Negli anni Ottanta, gli USA avviarono l‘Uruguay Round al fine di liberalizzare anche agricoltura e servizi e a favore di tali misure si schierarono sia una lobby di Stati esportatori agricoli (tra cui Brasile, Canada, Argentina e Australia), sia le corporations transnazionali che intendevano esercitare una pressione sui Paesi che avevano sottoscritto il GATT.

Si fa strada allora una concezione globale della sicurezza alimentare, gestita su scala globale e guidata dall‘idea di una superiore efficienza del libero mercato nel fornire alle popolazioni derrate alimentari in quantità sufficienti e prevedibili. Tale concezione era fondata su tre condizioni politiche di base, identificate da McMichael (2006a: 145) in liberalizzazione commerciale, sovvenzioni alle ―regioni granaio‖ e circuiti alimentari gestiti secondo criteri aziendali. Una sicurezza alimentare, dunque, governata dalle corporations ed ancorata al protezionismo agricolo del Nord che privilegia l‘agribusiness, minacciando la sopravvivenza dei contadini individuali, soprattutto nel Sud globale senza protezione e sostegno statale.

L‘insieme di questi processi conduce McMichael ad individuare un terzo regime alimentare che viene definito corporate food regime, il cui principio organizzativo non sarà più lo Stato, quanto piuttosto il Mercato nella cornice del neoliberismo.

Dopo l‘iniziale articolo risalente al 1989, Friedmann e McMichael hanno optato per due strade diverse nell‘interpretazione del nuovo regime alimentare. Ad avviso di entrambi, il nuovo potere egemonico si incarna nei meccanismi della governance delle istituzioni internazionali e nelle corporations; tuttavia, mentre McMichael abbraccia la teoria dell‘esistenza di un corporate food regime caratterizzante l‘ordine mondiale neo-liberale (nato dalle condizioni precedentemente descritte), Harriet Friedmann appare più cauta in merito all‘identificazione di tale fenomeno come elemento già esistente e preferisce parlare di un ―emergente corporate-environmental food regime‖ (Friedmann 2005).

A new regime seems to be emerging not from attempts to restore elements of the past, but from a range of cross-cutting alliances and issues linking food and agriculture to new issues. These include quality, safety, biological and cultural diversity, intellectual property, animal welfare, environmental pollution, energy use, and gender and racial inequalities. The most important of these fall under the broad category of environment (corsivo aggiunto).

L‘introduzione dell‘aspetto ―ambientale‖, oltre che il richiamo alle corporations, deriva dall‘analisi della riorganizzazione delle catene di approvvigionamento e distribuzione alimentare da parte delle grandi imprese transnazionali. Al fine di indicare le tendenze delle corporations che tentano di trarre profitto – appropriandosene – dalle rivendicazioni sociali per una maggiore qualità e salubrità, alimentare ed ambientale, e per un commercio maggiormente equo, Friedmann (2005) parla di un green capitalism.

Questo risponde ai bisogni unicamente della fascia di consumatori ―privilegiati‖, rendendo ancora più evidenti le disuguaglianze tra ―eaters‖ ricchi e poveri (Friedmann

2005: 228). Il cosiddetto green protectionism22, ossia una forma di ―protezionismo‖ voluto

dalle ―diete di classe‖ – e quindi promosso dalle catene dell‘offerta per rispondere alla domanda dei consumatori ricchi del Nord – sarebbe all‘origine di nuove differenze ed esclusioni tra produttori e consumatori ricchi e poveri, tra luoghi di produzione di materie prime e luoghi di consumo di prodotti ad alto valore aggiunto. Campbell (2009), sviluppando la dimensione ambientale dell‘analisi di Friedmann, accentua questa ―sensibilità ecologica‖ (McMicahel 2009a), ipotizzando il passaggio da un ―Food from nowhere regime‖ ad un ―Food from somewhere regime‖.

McMichael definisce il nuovo regime alimentare come una serie di norme atte ad istituzionalizzare il potere delle corporations nel sistema alimentare mondiale e come un vettore-chiave nel progetto dello sviluppo globale (McMichael 2005: 266). Individua, infatti, due fasi all‘interno del corporate food regime: un primo periodo di decontadinizzazione, caratterizzato da prezzi mondiali decrescenti, come i salari nel Nord del mondo, a discapito dei contadini del Sud; una seconda fase caratterizzata da prezzi mondiali crescenti, a discapito sia dei lavoratori/consumatori che dei contadini, che subiscono nuove ingiustizie, tra cui ad esempio l‘espansione degli agrocarburanti (cfr. par. 1.2.2). Il tramite di questo

processo viene riconosciuto nell‘Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) 23, ed in

particolare nell‘Accordo sull‘Agricoltura che istituzionalizza una forma specifica di

22 Campbell H. (2004), ―Green protectionism part 2: EUREP-GAP, agri-food systems governance and the

decline of organic exporting from New Zeland‖, World Congress of the international rural sociological association, Trondheim, Norway, 25-30 luglio; cit. in Friedmann 2005: 254.

23 World Trade Organization, nata con l‘Accordo di Marrakech il primo gennaio 1995, in seguito ai negoziati

liberalismo economico atto a potenziare le relazioni di mercato attraverso la privatizzazione (McMichael 2005: 273).

La WTO esprime pienamente l‘essenza del progetto globalizzazione e del corporate food regime. A differenza del GATT, ha una giurisdizione indipendente e, pertanto, il potere di imporre le proprie decisioni all‘insieme degli Stati membri. Tale organismo internazionale, oltre ad ereditare ―lo zoccolo duro degli accordi del GATT‖, assume ulteriori competenze, tra cui proprietà intellettuale, servizi, industria tessile, agricoltura e ―nuovi meccanismi per la risoluzione delle dispute che regalassero alla WTO armi che, secondo gli USA, mancavano così tristemente al GATT‖ (Patel 2008: 77). Infatti, il suo principale obiettivo è quello di abolire qualsiasi barriera che ostacoli il commercio internazionale, non solo in termini di beni commerciali – come nel caso del GATT – ma anche di servizi e proprietà intellettuali. La priorità è assegnata al commercio globale, basato su un‘idea di armonizzazione secondo cui il mondo costituisce un mercato globale progettato ad uso e consumo delle multinazionali, in cui tutto può divenire merce.

Si può affermare che dalla WTO sia nato un ―nuovo sistema di governo globale‖, in quanto tale organizzazione ―può influenzare, a livello planetario, la vita di un‘infinità di persone, la maggior parte delle quali ignorano completamente la sua esistenza, e sono inconsapevoli di come la sua nascita sia equivalsa a un silenzioso colpo di stato ai danni delle democrazie di tutto il mondo‖ (Wallach, Sforza 1999: 14). Gli effetti maggiormente negativi che la WTO ha comportato sono ascrivibili a numerose sfere del vivere umano: ambiente, sicurezza di cibi e prodotti, pubblica sanità e accesso ai farmaci, sicurezza e altri diritti sul lavoro, fino a comprendere diritti umani e condizioni generali di vita delle popolazioni.

In un sistema simile i Paesi poveri e le leggi che difendono il pubblico interesse sono i grandi perdenti. Di solito i Paesi in via di sviluppo non hanno né il denaro né le competenze per portare la propria causa in giudizio o per difendersi davanti al Wto (Wallach, Sforza 1999: 18)24.

La WTO diviene massima rappresentazione delle moderne forme di accumulazione per espropriazione, in quanto ―arma per ridimensionare gli Stati e le protezioni sociali, espandere il commercio e garantire i diritti di proprietà intellettuale‖ (McMichael 2006a: 234).

24 Ciò deriva, soprattutto, dalla mancanza di trasparenza e accountability da parte delle commissioni e dei gruppi

di lavoro interni alla WTO nei confronti dei cittadini, e dal sistema di voto che – prevedendo per le decisioni il meccanismo del ―consenso‖ secondo cui non è attesa l‘unanimità, ma che nessun Paese membro manifesti

Il veicolo di attuazione del processo di liberalizzazione del commercio agricolo guidato dalle corporations, e di istituzionalizzazione dell‘―architettura del nuovo ordine alimentare globale‖ (Patel 2008: 78), è rappresentato dall‘Accordo sull‘Agricoltura (AoA), volto a ridurre il protezionismo commerciale e l‘intervento governativo. Da quando l‘AoA è stato istituito, si è assistito ad un declino dei prezzi mondiali dei beni agricoli e i Paesi che erano in grado di pagarli hanno conservato i sussidi, generando gravi conseguenze nei Paesi a vocazione agricola i quali non riuscivano a competere con le merci agricole importate a

buon mercato, a causa del dumping25.

Dopo durissime trattative, e qualche sofisticata prodezza statistica, Ue e Usa riuscirono a inaugurare con il trattato bilaterale ―Blair House‖ un sistema di aiuti all‘agricoltura che, in pratica, permetteva loro di continuare a sovvenzionare i propri agricoltori ritoccando un po‘ le politiche di sostegno mentre i paesi del Sud globale rinunciavano esattamente a questo stesso diritto (Patel 2008: 78)26.

In questo contesto l‘agribusiness aumenta la redditività, attraverso la ricerca globale di risorse, mentre i piccoli coltivatori sono sempre più vulnerabili dinanzi ad un mercato agricolo globale deregolato e gestito privatamente. I Paesi del Sud avevano ratificato l‘AoA sperando che, grazie ad un incremento delle esportazioni di prodotti agro-alimentari, avrebbero migliorato le loro entrate in valuta straniera e ridotto il debito estero. Invece, furono proprio le esportazioni del Nord a registrare l‘aumento, grazie alle economie di scala meccanizzate e alla normalizzazione dei sussidi all‘esportazione attuata dall‘AoA. Circa metà della valuta estera degli 88 Paesi a basso reddito, a metà anni Novanta, veniva spesa in importazioni di cibo e, in generale nel Sud, si registrava una sostituzione della coltivazione

degli alimenti di base con colture di esportazione27. In definitiva, il risultato fondamentale

di questo Accordo, e in generale del progetto globalizzazione, è stata la conversione dell‘agricoltura in una merce e la privatizzazione di un bene pubblico: la sicurezza alimentare.

25 Pratica commerciale per cui un produttore vende un bene su un mercato estero ad un prezzo inferiore

rispetto a quello praticato sul mercato d‘origine, attuando una concorrenza sleale. Generalmente ciò è reso possibile proprio dalle sovvenzioni di cui godono alcuni produttori ed esportatori del Nord.

26 Qualche dato sulla concentrazione delle risorse mostra tra l‘altro che i sussidi mantenuti da UE e USA non

erano neppure distribuiti secondo criteri di necessità: nell‘area OECD, a metà degli anni Novanta, l‘80% dei sussidi agricoli si concentrava nel 20% dei poderi più grandi; negli Usa, nel 1994, il 50% dei prodotti agricoli proveniva dal 2% delle aziende agricole e solo il 9% veniva prodotto dal 73% delle aziende agricole. Quanto al cosiddetto Sud globale, nello stesso periodo si registrano fra i 20 e i 30 milioni di persone che hanno perso la propria terra a causa della liberalizzazione promossa dal medesimo Accordo (McMichael 2006a: 148).

27 Come in Kenya, dove il 40% dei bambini lavorava nelle piantagioni di prodotti di esportazione (ananas,

Invece di regalare più scelte e opportunità per i miseri, la politica internazionale alimentare ha puntato al controllo tramite interventi, con una spruzzata di paternalismo e, ogni tanto, di violenza. Eppure buona parte del linguaggio di queste politiche alimentari era intriso di buone intenzioni in tema di libertà e sicurezza. Se il risultato è stato che ai piccoli contadini sono state negate entrambe allora siamo giustificati se chiediamo per chi è stato reso sicuro il mondo, e la libertà di chi è stata ampliata (Patel 2008: 78).

Protagoniste indiscusse di questo sistema sono le corporations transnazionali che, ad avviso di Hardt e Negri (2001: 149), rappresentano ―la fabbrica che connette il mondo biopolitico‖, si posizionano ―a cavallo dei confini nazionali‖ e sono maggiormente ―diversificate e fluide‖ rispetto alle organizzazioni delle epoche precedenti. Considerando le ―catene di montaggio che portano il cibo dai campi alle nostre tavole‖ (Patel 2008: 7) – responsabili del paradosso della coesistenza di oltre 800 milioni di persone affamate e più di un miliardo di persone obese – il ruolo delle multinazionali del cibo appare evidente.

Gli interessi delle aziende alimentari hanno ramificazioni che vanno molto al di là di quanto compare sugli scaffali del supermarket, e sono il verme nella mela del sistema alimentare moderno (Patel 2008: 8).

Le multinazionali agricole transnazionali controllano il 40% del commercio alimentare mondiale, con venti aziende che controllano il commercio globale di caffè, sei che controllano il 70% del commercio di frumento e una che controlla il 98% del tè

confezionato28. La concentrazione dei ―giganti‖ dell‘agribusiness è un aspetto fondamentale

per comprendere l‘attuale sistema agro-alimentare globale. A tal proposito è interessante far riferimento ad alcuni dati forniti da Holt-Giménez, Patel e Shattuck (2010: 38-40) sulla filiera alimentare industriale, dai fattori di produzione al dettaglio: l‘83% del manzo confezionato negli Stati Uniti è nelle mani di quattro aziende; cinque aziende controllano il 48% della vendita alimentare al dettaglio; il 66% della carne di maiale negli USA è confezionata da quattro aziende; il 71% della lavorazione della soia è opera di tre aziende, le stesse che controllano anche il 90% del commercio globale di cereali; infine, due sole società (DuPont e Monsanto) controllano quasi il 60% del mercato americano delle

sementi di grano, il 65% dei semi di mais e il 44% del mercato della soia29.

Delle commissioni ―antitrust‖ sono state istituite ad hoc in alcuni Paesi al fine di ostacolare la formazione di oligopoli; tuttavia, le aziende si rivolgono proprio a questi organismi quando intendono consolidarsi, esibendo varie giustificazioni: quelle di tipo

28 Arcal Y.F, Maetz M. (2000), Multilateral Trade Negotiations on Agriculture: A Resource Manual, FAO, Roma; cit.

in Patel 2008: 79.

―darwiniano‖, che considerano il mercato come meccanismo autoregolatore capace di consentire la sopravvivenza solo al più forte escludendo l‘intervento statale; o accordi dalle sembianze delle ―porte girevoli‖, in cui i controllori pubblici passano poi a lavorare dalla parte dei controllati (Patel 2008: 83).

La concentrazione del controllo in pochissime mani, conduce ad un paradosso: da un lato, prezzi più alti per i generi alimentari a discapito dei consumatori; dall‘altro, una riduzione del valore per gli stessi prodotti, a discapito dei produttori. Si voleva far credere che attraverso la concorrenza il mercato avrebbe portato ad una maggiore efficienza e a prezzi più bassi per i consumatori; al contrario, l‘effetto della cessione della produzione di cibo al mercato è stato quello di garantire una minore concorrenza ed un maggior potere alle grandi imprese. Inoltre, da quando il settore agroalimentare è entrato a far parte della liberalizzazione commerciale, i produttori, senza un efficace sistema di prezzi minimi garantiti, non hanno alcuna certezza di poter recuperare le spese di produzione e, di conseguenza, garantire la riproduzione stessa della propria famiglia. I produttori di cibo, infatti, sono incastonati in un sistema che li rende dipendenti dai colossi dell‘agribusiness, sia per l‘acquisizione dei mezzi di produzione, sia per la commercializzazione dei prodotti.

L‘attuale processo di globalizzazione, mentre diffonde l‘idea di promuovere lo sviluppo della democrazia ed un‘abbondanza generalizzata, in realtà ―si configura come una vera e propria dittatura economica delle multinazionali che mercifica ogni aspetto della realtà e sottrae ai poveri i mezzi essenziali di sopravvivenza‖ (Shiva 2006: 13). Come afferma anche McMichael (2005: 286), i beneficiari dell‘attuale corporate food regime costituiscono solo circa un quarto della popolazione mondiale, a discapito dell‘esclusione sociale attraverso l‘appropriazione di risorse (materiali, intellettuali e spirituali) e la privatizzazione dei beni comuni, resa possibile dai diritti sulla proprietà intellettuale e dalle nuove biotecnologie. Ciò consente alle multinazionali di conquistare e mantenere il monopolio della world agricolture, definita da McMichael (2005: 282) come ―a transnational space of corporate agricultural and food relations integrated by commodity circuits‖. Il concetto di agricoltura globale richiama quello dell‘Impero, la ―forma paradigmatica di biopotere‖ (McMichael 2005: 282) indicata da Michael Hardt e Antonio Negri (2001) per designare la congiuntura di relazioni che caratterizzano l‘attuale scenario globale.

L‘Impero non coincide con nessuna specifica area geografica del mondo, né tale concetto richiama l‘idea di imperialismo nel senso corrente del termine.

Al contrario dell‘imperialismo, l‘Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l‘intero spazio mondiale all‘interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L‘Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale (Hardt, Negri 2001: 14).

Il comando imperiale viene esercitato da istituzioni politiche ed apparati giuridici che si propongono l‘obiettivo generale di garantire l‘ordine globale e una pace universale, in modo da consentire all‘economia di mercato di non trovare ostacoli sul proprio cammino. Per raggiungere quest‘ultimo scopo, vengono identificate alcune forme di potere, tra cui principalmente ―la funzione monarchica che si sono attribuiti il governo degli Stati Uniti, il G8 e altre istituzioni monetarie e commerciali, e il potere aristocratico delle multinazionali che estendono la loro rete sul mercato globale‖ (Negri 2003: 17). Posto il ragionamento in questi termini, l‘oggetto del potere dell‘Impero non può che essere la totalità della vita sociale. Facendo riferimento all‘opera di Michel Foucault, gli autori di Impero identificano nella biopolitica la natura del nuovo paradigma del potere, considerando il biopotere come una forma di regolazione del sociale dall‘interno, ―inseguendolo, interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo‖ (Hardt, Negri 2001: 39).

Come spiega Van der Ploeg (2009a: 306), lo stato attuale della globalizzazione trova la sua essenza nell‘introduzione capillare di sistemi di regole che rappresentano il centro nevralgico dell‘Impero, che a sua volta ―assume la forma di un processo di conquista continuo che riguarda comunità locali, in passato autogestite e relativamente autonome che vengono controllate al fine di creare controllabilità e sfruttabilità‖, eliminando la dimensione locale e trasformandola in un ―non-luogo‖. La conquista imperiale procede attraverso l‘acquisizione di piccole imprese indipendenti da parte di grandi corporations ed interferisce allo stesso tempo anche con istituzioni non di mercato attraverso ―l‘imposizione di procedure onnicomprensive che ordinano, condizionano e sanzionano ogni prassi e processo‖.

Anche l‘attuale regime alimentare assume una configurazione imperiale. Van der Ploeg (2009a), ad esempio, sostiene che a partire dal 1990 si sia verificato uno spostamento verso un terzo regime alimentare che non ha un chiaro centro politico e territoriale e viene definito, per l‘appunto, ―imperiale‖.

[Il regime alimentare imperiale] essenzialmente prende corpo da una complessa combinazione e un allineamento tra principi di libero commercio e regolamentazione internazionale degli alimenti. Forme di regolamentazione che erano state ben istituite sono de-modellate, mentre emergono nuove forme di gerarchia basate sugli interessi

convergenti tra agribusiness e organi statali. Allo stesso tempo i mercati sono drasticamente riordinati. I mercati alimentari sono fortemente globalizzati e allineati (attraverso nuove forme di regolamentazione) con i processi globali di accumulazione. Si aprono, quindi, nuovi spazi per le grandi società di capitali che operano come reti coercitive in ognuno di essi (Ploeg van der 2009a: 338).

Gli attuali ―imperi alimentari‖ non rappresentano o producono valore proprio, né possiedono o sviluppano risorse proprie e indipendenti, ma usurpano e controllano quelle altrui: attraverso le loro reti tendono a ―modellare il mondo sociale e naturale attraverso la fusione di risorse, processi, territori, persone e immagini in gruppi che indirizzano simultaneamente la ricchezza verso il centro‖ (Ploeg van der 2009a: 310).

Van der Ploeg (2009a: 310-316) individua almeno tre caratteristiche strutturali che accomunano i reticoli imperiali contemporanei agli imperi storici. La prima è l‘espansione: come gli imperi si riproducevano attraverso l‘apertura e lo spostamento delle frontiere, anche gli imperi alimentari attuali sono caratterizzati da permanenti e multipli spostamenti dei confini (non solo geografici e temporali, ma anche in merito ai termini di definizione) che riconfigurano la nozione stessa di cibo. Tale espansione si manifesta come conquista della natura, del cibo e, dunque, dell‘agricoltura, influendo necessariamente anche sui modelli di consumo. Seconda caratteristica è la gerarchia: controllando le connessioni e predisponendo le regole che le disciplinano, gli imperi alimentari controllano a distanza le reti attraverso la definizione di requisiti tecnici ed economici in ogni punto di intersezione